Tag: Sesta Estinzione di Massa

La sesta estinzione di massa del XXI secolo è il crollo del numero delle popolazioni animali di centinaia di migliaia di specie sull’intero Pianeta.

La maggior parte dei cambiamenti economici e culturali che ci hanno condotti a questo punto sono avvenuti negli ultimi 200 anni. Coincidono dunque con la piena affermazione della Modernità.

Ma l’epoca della sesta estinzione di massa è molto di più della semplificazione biologica della vita sul Pianeta a vantaggio di Homo sapiens.

Come esito finale di una avventura evolutiva lunga 2 milioni e mezzo di anni, la catastrofica scomparsa degli animali segna la nostra maturità come specie capace di cultura.

Per questo il congedo della diversità biologica ci costringe a vederne gli effetti sul nostro modo di pensare, di vivere, di sentirci umani.

L’ambientalismo nell’era della post verità

L'ambientalismo nell'era della post verità.

Siamo davvero sicuri di condividere sui social media informazioni sullo stato reale della natura? L’enorme abbondanza di dati che confluiscono dentro i nostri account, e che ci spingono a postare senza posa appelli urgenti per salvare specie in pericolo o denunciare lo sfruttamento di foreste e oceani, restituisce una rappresentazione attendibile di quello che sta succedendo al Pianeta? Non è invece giunto il momento di discutere anche dell’ambientalismo nell’era della post verità?

E soprattuto, non sarebbe meglio verificare se queste informazioni arricchite da migliaia di like ci servono sul serio per dire in faccia al potere costituito che le cose devono cambiare, e in fretta? Bram Büscher, professore di Sociology of Developement and Change alla Wagenigen University (Olanda) e visiting professor alla University of Johannesburg, pensa di no. E argomenta la sua tesi, frutto di ricerche e interviste durate quasi un decennio, in un libro brillante e intelligente, oltre che equilibrato, appena uscito con la University of California Press: The Truth about Nature, la verità sulla natura.

Un saggio che ogni ambientalista convinto dovrebbe leggere, soprattutto se nutre un vibrante ottimismo nelle possibilità di mobilitazione civile e politica dei social media e del dire ad alta voce, su Facebook o su Twitter, la “verità” sulle condizioni ecologiche della biosfera. 

L’analisi di Büscher non risparmia neppure il mondo della conservazione e della protezione della natura, e francamente si sentiva il bisogno di un discorso competente e critico di questo tipo. Nell’ultimo decennio, infatti, abbiamo assistito al sorgere della “plattform conservation”, ossia della “rapida integrazione delle azioni finalizzate alla conservazione, il fundraising, la sensibilizzazione, l’educazione ambientale e l’implementazione di tutto questo dentro le piattaforme dei nuovi media”.

Non c’è ormai soggetto impegnato nella protezione della natura, di qualunque tipo, che non abbia una intensa attività di comunicazione sui social media (e uffici preposti a questo compito, con gente che lavora anche durante i weekend per alimentare i feed), e che vi si affidi per innescare un cambiamento radicale nella nostra gestione delle risorse biologiche della Terra.

Ma le piattaforme nascondono una trappola micidiale: sono la quintessenza del “plattform capitalism”, ossia della forma iper-moderna assunta dal capitalismo globale grazie all’affermazione di modelli di business come Facebook, Google e Twitter. L’intero loro funzionamento è costruito sull’accantonamento di dati grezzi, che vengono poi elaborati da algoritmi e rimessi in circolazione come valori di scambio.

In questo ecosistema nulla ha importanza se non il dato in sé, la sua abbondanza infinita e la sua capacità di sintonizzare il pubblico sullo stimolo di fornire sempre nuovi dati. C’è quindi un circolo vizioso tra la pretesa degli ambientalisti di dire la verità sulla natura usando i social media e il carattere genetico di queste piattaforme, i loro scopi e i loro obiettivi.

Un circolo vizioso, scrive Büscher, “imbevuto di potere economico e politico, che funziona su più livelli. Condividere la verità sulla natura sui nuovi media online per fronteggiare la post-verità ha l’effetto non intenzionale di rinforzare proprio le dinamiche strutturali che sono responsabili per la crisi ambientale”.

“Condividere la verità sulla natura sui nuovi media online per fronteggiare la post-verità ha l’effetto non intenzionale di rinforzare proprio le dinamiche strutturali che sono responsabili per la crisi ambientale”

E questo perché “il capitalismo delle piattaforme, così come si esprime sui social media, conduce gli ambientalisti dentro una certa economia politica e le sue logiche. Questa politica economica prospera sulla condivisione, la co-creazione e la individualizzazione di prodotti e informazioni online, inclusi la verità e la natura, trasformandoli in dati che sono beni di consumo”.

Condividere quindi montagne di foto, dati scientifici, video di denuncia sui social media fa il gioco del capitalismo maturo e inchioda le organizzazioni dedicate alla conservazione a servire la costruzione (co-creazione) di una narrativa virtuale di enorme appeal in cui la verità è del tutto ininfluente. Anzi, per definizione “le piattaforme, in quanto apparati di estrazione di dati, sono, letteralmente, post-verità”.

Contro l’ambientalismo dogmatico

The Truth about Nature è un libro contro ogni forma di ingenuità ambientalista e di ambientalismo dogmatico. Che noi possiamo cambiare il mondo usando i social media, e in meglio a favore della natura. Che noi possiamo mettere a soqquadro il capitalismo, usando i social media, e quindi porre fine all’ipersfruttamento della natura. Che possiamo diventare protettori degli animali, semplicemente interagendo e condividendo contenuti on line.

Affidando timori e preoccupazioni alle piattaforme, l’ambientalismo rischia di divenire ostaggio di ciò che vorrebbe combattere. L’ambientalismo nell’era della post verità è un prodotto di consumo molto sofisticato, ma insidioso.

Scorrendo Facebook e Twitter, ma anche Youtube, questa “natura” così discussa e amata dal pubblico sembra perfetta: lo specchio selvaggio di quella giustizia assoluta, spontanea, che non troviamo nel mondo umano. A dover essere salvata è quindi una natura assoluta, intonsa, priva di ogni contatto con gli esseri umani. Prevale, insomma, il rifiuto della constatazione, secondo Büscher, che “la natura è una entità biofisica e sociale”. 

Sulle piattaforme come Facebook e Twitter prevale l’immagine di una natura perfetta e giusta, priva di ogni contatto con gli esseri umani. Online, la natura cessa cioè di essere ciò che è, una entità biofisica e sociale.

Ho parlato del suo libro direttamente con Bram Büscher, in collegamento ZOOM dal Sudafrica. Può The Truth about Nature essere letto come uno strumento contro una simile ingenuità ?

“In qualche modo questo è vero, ma il focus primario del libro non è smantellare, o smontare, l’idea della natura selvaggia, di questo costrutto concettuale, intesa come qualcosa di puro e di purificato da ogni sorta di male. Un’idea che di certo è stata molto attraente, in molti modi. Credo anche che questa idea stia diventando ancora più seducente, oggi, perché il mondo è entrato in una fase storica di estrema confusione e di insicurezza.

Il libro parte da qui: una analisi epistemologica che spiega come l’intera biodiversità sia un costrutto, un discorso sociale. Tutto in natura è pensato e quindi mediato e costruito, anche se non ogni cosa è mediata nello stesso modo e ci sono molte sfumature. Se la storia viene inserita nel ragionamento, e presa in considerazione, ecco che allora ci troveremo ad avere tra le mani qualcosa che ci consentirebbe di parlare della natura dinanzi al potere in una maniera che sia più coerente con la natura stessa. Per cambiare il mondo, in altre parole, noi dobbiamo capire come è il mondo, ossia come funziona il potere a cui vogliamo parlare della natura e in cui va formandosi il discorso sulla natura”.

Molti Europei, e moltissimi Occidentali, condividono contenuti sull’Africa e sulla natura partendo da un presupposto emotivo rigoroso, ossia l’idealizzazione dell’Africa. Da secoli i luoghi selvaggi sono lontanissimi dal loro immaginario, dalla loro vivida esperienza. Ma la conservazione 2.0, sostenuta e alimentata dal gioco dei social media e delle piattaforme, può contare anche su una condizione sociale ancora più diffusa. Praticamente nessuno nel mondo occidentale ha ricevuto una formazione scolastica in cui avessero una parte importante anche le civiltà africane.

La polemica attorno alla questione delle opere d’arte africane trafugate in epoca coloniale e custodite nei musei europei, dimostra quanto profonda sia la distanza tra la realtà culturale delle nazioni africane e la percezione che ne hanno in Occidente le persone comuni, le stesse che postano foto di safari su Facebook e Instagram.

L’etnografia rimane ancora una esperienza accademica del patrimonio culturale universale africano. La conservazione e la questione della natura seguono a ruota. Questi sono pregiudizi psicologici, che agiscono inconsciamente, ma favoriscono anche il “capitalism plattform”.

“Sicuramente questo riguarda il ruolo dell’Africa nell’immaginazione globale. L’Africa, insieme all’Amazzonia, come l’ultimo posto al mondo con animali magnifici. Come dico sempre, se pensi di salvare gli animali, rifletti sul fatto che sei l’ultimo di una lunga lista di persone che negli ultimi 300 anni sono venuti in Africa pensando di salvare l’Africa dagli Africani. La crisi del bracconaggio contro il rinoceronte è secondo me l’esempio principe di come i cittadini del web, i netizen, vogliano e sentano di essere parte dell’Africa condividendo una narrativa”.

“La crisi del bracconaggio contro il rinoceronte è l’esempio principe di come i cittadini del web, i netizen, vogliano e sentano di essere parte dell’Africa condividendo una narrativa”

La politica dell’isteria

Il bracconaggio sui rinoceronti del Kruger National Park in Sudafrica comincia nel 2007 e diventa quasi subito un “caso internazionale”, perché negli anni successivi innesca una tempesta di attivismo social che Büscher chiama “la politica dell’isteria”. La caccia illegale per il corno di rinoceronte, soprattutto sui Gruppi Facebook, viene riscritta in un copione dove “i cattivi e gli eroi sono facilmente distinguibili e dove il male incarnato dal bracconaggio sul rinoceronte è nettamente separato da ogni circostanza storica di contesto, che invece ha ampiamente contribuito proprio al generarsi di questa crisi”, spiega Büscher nel libro.

Le sue ricerche hanno portato in primo piano il fatto che la maggior parte dei netizen che condivide peana per gli “eroi” della lotta a mano armata contro i bracconieri è composta da bianchi: “a difendere e proteggere i rinoceronti dovrebbe essere lo Stato, ma i discorsi online mostrano chiaramente che molti bianchi sentono che lo Stato fallisce miseramente nel suo compito.

E allora queste persone si cercano altri protettori per gli animali, qualcuno che sia davvero capace di prendere il controllo di una situazione fuori controllo”. E passare all’azione da soli vuol dire scrivere post sempre più violenti, aggressivi, convinti.

La  vicenda sudafricana del corno di rinoceronte ha insomma dato una mano all’idea della fortress conservation”, cioè la protezione degli spazi selvaggi attraverso una feroce separazione dal resto del territorio. Büscher svela i retroscena ideologici di questa politica.

In Sudafrica, i parchi nazionali come il Kruger sono stati inaugurati attraverso l’espropriazione della terra agli africani nativi. La perdita del controllo politico seguita allo smantellamento dell’apartheid ha lascito un sentimento di frustrazione in una certa parte della società bianca.

E così la malinconia per la wilderness, la natura selvaggia purificata di ogni essere umano fatta eccezione che per gli avventurieri bianchi, è filtrata nel senso di appartenenza e di struggimento post-moderno che l’industria del turismo, anch’essa bianca, continua a impiegare proprio online.

“Il Kruger simbolizza non soltanto un mondo perfetto composto di animali, ma anche una perfetta separazione tra uno spazio controllato dove ogni cosa è al suo posto e un mondo esterno al Kruger, caotico, che sembra fuori posto e fuori controllo”. La crisi del corno di rinoceronte, postata milioni di volte come “out of control”, è quindi un discorso stratificato di pregiudizi coloniali, razzismo e distorsioni dell’immaginario prodottesi in un contesto storico molto preciso. 

Ancora più surreale è la vicenda dell’Elephant Corridor, un crowfunding da quasi 500mila dollari organizzato nel 2010 sulla piattaforma di online charity pifworld.com su mandato di Peace Park Foundation, una Ngo sudafricana cui aderiscono molti milionari del Paese. Migliaia di persone comuni hanno pensato di poter ottenere, senza nessun negoziato governativo e al di fuori di qualunque cornice di governo, l’apertura di un corridoio transfrontaliero per la migrazione centomila elefanti tra Botswana del nord, (Chobe NP) Namibia nord occidentale (Caprivi Strip) e Zambia meridionale (Kafue NP), all’interno dell’area protetta nota come KAZA – Kavango Zambesi.

Una situazione anche paradossale, in cui un gruppo considerevole di netizen senza nessuna formazione specialistica in ecologia, biologia o conservazione dei grandi mammiferi, pretendeva, con la propria donazione, di avere voce in capitolo nella gestione di una porzione di territorio sotto la sovranità di 3 nazioni africane. Il corridoio non è mai stato realizzato, ma ha mobilitato, online, i buoni sentimenti di una folla di agguerritissime persone amanti degli elefanti africani. 

Questo dimostra che, anziché stare sulle piattaforme social, chi vuole davvero fare del bene alla biodiversità dovrebbe leggere giornali seri e accreditati?

“Sì, una vicenda incredibile. Ricordo il funzionario di una Ngo del Botswana che se la prese con me, come se fossi stato io a innescare un effetto domino che non aveva alcun legame con la realtà. Una storia che è uno scherzo, una gigantesca ironia, ma piuttosto che considerare il possibile ruolo di magazine o media hub dobbiamo concentrarci su come funzionano queste piattaforme.

La realtà per loro è spesso del tutto irrilevante. Le piattaforme competono tra loro per ottenere l’attenzione delle persone che sono intenzionate a compiere buone azioni. Il loro proposito, dunque, è strappare e mantenere questa attenzione, tenere le persone aggrappate all’idea veicolata dalla piattaforma, non importa quanto reale o meno. E per farlo, esse si servono di effetti strutturali, cioè di un funzionamento che intrinsecamente è progettato per eccitare l’attenzione. A riprova di questo, dobbiamo ammettere che possiamo trovare anche articoli giornalistici molto, molto validi postati su Facebook. Ma la piattaforma non ha alcun interesse nella loro qualità giornalistica. E non si tratta neppure di una attività di manipolazione diretta, è qualcosa di ancora più pericoloso: è la totale indifferenza nei confronti della verità”.

La vera verità sulla natura

Büscher, infatti, insiste sulla opportunità di sostituire al concetto di “verità” nudo e crudo, inoppugnabile, molto in voga all’interno degli stessi gruppi ambientalisti, certi di postare la verità sullo stato delle natura attraverso i “fatti” contenuti in statistiche e dati numerici, con il concetto ben più articolato di “tensions truth”.

La verità, anche quella sullo stato reale della biosfera, è uno stato di tensione tra realtà complesse, definite dal contesto storico e dalla posizione sociale di tutti i gruppi umani coinvolti. Un terreno scivoloso, che richiede comprensione delle cose e non solo conoscenza dei fatti, e dei numeri, nudi e crudi.

La verità è uno stato di tensione permanente tra realtà complesse, definite dal contesto storico e dalla posizione sociale (positionality) dei gruppi umani, un terreno scivoloso che richiede comprensione delle cose e non solo conoscenza dei fatti: “Dobbiamo parlare di una metafisica della verità, che io intendo come ecologia politica della verità. Hannah Arendt ha spiegato la differenza tra conoscenza e comprensione.

Ciò che rende la conoscenza dei fatti comprensione dello stato delle cose è un lavoro di riconoscimento del contesto, della storia (history) e del ruolo sociale subito dalla persone (positionality). Solo così possiamo investigare come funzionano le piattaforme rispetto, invece, ad una effettiva comprensione della realtà. Per loro la conoscenza coincide con la utilità delle informazioni: ciò che tu puoi usare. Non c’entra con la comprensione nel senso della Arendt.

Nel libro lancio un appello in nome della verità: la verità sulla natura è interamente legata alla comprensione e la comprensione significa che, quando parliamo di questioni ecologiche e di conservazione, ci muoviamo continuamente nello spazio tra la roccia solida e la sabbia scivolosa. La verità è qualcosa di solido e di incerto allo stesso tempo.

Dobbiamo sempre essere critici, come dico nel libro, di fronte a qualsiasi pretesa di verità assoluta e del potere che ci sta dietro e non smettere mai di cercare la verità. Qui sta il legame tra ecologia e politica dal mio punto di vista: le cose non sono granitiche. C’è invece bisogno di instaurare un equilibrio tra la posizione sociale dei gruppi umani, il contesto e la storia. Bisogna capire la incessante tensione tra la conoscenza semplice e definita, i fatti, e, invece, la vita di tutti i giorni.

D’altronde, va detto che la verità conta. Se niente fosse vero, non sarebbe possibile nessuna politica e nessun discorso al potere, perché l’intero discorso sociale si risolverebbe in uno sfogo di rabbia e indignazione, che è poi quello che vediamo al esempio su Twitter. Ma le piattaforme su cui postiamo questa rabbia sono indifferenti al messaggio: è per questo che usandole non otteniamo nulla contro il capitalismo, che loro stesse rappresentano e incarnano. La politica ecologica questo lo deve dire forte e chiaro, e deve anche trasformare questa consapevolezza in una opportunità”. 

La spettacolarizzazione della natura, iniziata negli anni ’50, è una delle tecniche utilizzate dai social media per ottenere una risposta istintiva dagli utenti, sempre più avidi di scene ad effetto. Questo trasforma la natura in un intrattenimento, su cui l’algoritmo lima narrative costruite ad hoc che gratificano i nostri gusti.

Tra le tecniche utilizzate dalle piattaforme per innescare l’attenzione e avviare negli utenti una risposta istintiva sempre più avida di “verità” mirabolanti c’è il ricorso alla spettacolarizzazione della natura. A partire dagli anni ’50 i media hanno imparato ad assimilare sempre di più il documentario naturalistico alle sceneggiature del cinema drammatico, valorizzando narrazioni sentimentali che puntassero a mostrare scene epiche di sopravvivenza o violenza, caos o resistenza.

I social media hanno portato questo bisogno di intrattenimento spettacolare all’estremo. Ma non solo perché un leone che abbatte la preda ottiene più click di un leone che dorme; la ricerca di contenuti naturalistici viene personalizzata (customize), limata dagli algoritmi. Alla fine, ciò che ognuno di noi “vede” della natura selvaggia non è la natura, ma un copione generato dagli algoritmi. Composto da capitoli selezionati apposta per gratificare i nostri gusti. 

“Per le piattaforme, la ricerca dello spettacolare è una forma di accumulazione di capitale”, commenta Büscher. L’esempio della App LATEST SIGHTINGS, che ha raggiunto un milione di followers su Facebook, lo dimostra nel modo più brutale: un gigantesco business nato su Youtube e fondato da un adolescente, Nadav Ossendryver, che aveva notato quanto “annoiati” fossero i turisti che uscivano da un safari al Kruger senza aver visto nemmeno un leone o un leopardo.

Il suo canale video, e poi la sua App, collezionano le foto più degne di nota degli animali del parco. Un fantasmagorico riduzionismo 2.0: “qui il Kruger esiste solo attraverso le foto sensazionali ad animali altrettanto maestosi avvistati e immediatamente fotografati. La realtà è molto diversa. Quando le grandi cose non sono lì fuori davanti a noi, è allora che emerge il significato. Personalmente, ad esempio, quel che mi ha colpito più di tutto il resto al Kruger è l’odore del parco. Concentrandosi sugli odori viene fuori una percezione completamente nuova. Queste piattaforme ci hanno convinti che in un posto come il Kruger vedere sia la cosa più importante.

Ma la vista è solo una delle funzioni percettive con cui gli animali selvaggi, di cui vorremmo conoscere l’ambiente, avvertono  costantemente ciò che li circonda. Pensiamo ai leoni, tutti vogliono la foto del leone, ma il leone caccia di notte, quando la sua vista non è il suo miglior strumento. Ragionare invece sull’odore cambia radicalmente la tua percezione di un posto come il Kruger e quindi della cosiddetta wilderness. E allora io dico: possiamo forse postare l’odore di un parco nazionale su Facebook? Certo che no.

Dedicando del tempo all’osservazione paziente delle cose, emergono nuove cose. Ma il focus delle piattaforme è sulla cosa singola, perché è quella che genera denaro. Perciò le persone sono portate a pensare: io ho bisogno di vedere un leone. Lo spettacolo comprime e riduce la realtà, ne assottiglia e semplifica le sfumature. È la società umana ad aver creato la necessità di una natura perfetta, giusta, equa. Prima della modernizzazione la natura era piuttosto cattiva, e anche minacciosa. La spettacolarizzazione veicolata dalle piattaforme alimenta questa distorsione”. 

Dal punto di vista della conservation2.0 lo show della natura selvaggia è però anche qualcosa di più. È una pericolosa, inconscia liason con il colonialismo, e cioè con la visione della wilderness come Eden. In Sudafrica, il Paese da cui il libro deduce i suoi maggiori esempi, i bianchi hanno sviluppato il loro sentimento di apparenza alla terra grazie alla conservazione, che ha funzionato però come espropriazione dei neri in nome della protezione della natura.

La volontà, dunque, di preservare ciò che di selvaggio e di animale era stato risparmiato dalla modernizzazione, dall’industrializzazione, dall’esilio dalla natura, ha le sue lontane radici nella amministrazione razzista del territorio nazionale. La “verità sulla natura” online è inquinata dal colonialismo: “riconoscere il modo in cui funzionano queste cose, le piattaforme e i discorsi che vi proliferano sopra sulla verità della natura, è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno  per decolonizzare la conservazione.

Qui ci sono due dimensioni fondamentali. Il primo è che la conservazione comincia quando gli Africani nativi vengono trasformati in lavoratori salariati, che non possono più vivere delle terra, ma devono essere impiegati in fabbriche, industrie e attività manifatturiere. La conservazione nasce quando la terra viene svuotata dei suoi abitanti per fare spazio alle riserve. Questo è un punto assolutamente cruciale, che ho trattato anche in un mio precedente libro. Il secondo punto essenziale è, quindi, che la conservazione è stata una risposta al capitalismo e, contemporaneamente, una sua conseguenza. Sono due facce della stessa moneta”. 

Uno dei temi più caldi delle agguerrite discussioni on line sulla verità del Pianeta è la iper-demografia umana. Potrebbe essere anche questo un effetto di espansione artificiale di un problema che si presta perfettamente alle polarizzazioni tra bene e male su cui prosperano le funzioni matematiche che regolano il traffico sulle piattaforme? “La demografia umana è chiaramente un problema importante, non lo nego.

Ma insistervi nasconde le vere cause delle questioni ecologiche. Troppo spesso si sentono ecologi affermare che gli Africani devono smettere di avere bambini. E sarebbe invece più corretto dire, che comincino le persone ricche nel cosiddetto primo mondo a  non avere più bambini. Trovo insomma terrificante e orribile che si dica in modo esclusivo alle persone nere e asiatiche (black & brown) di non fare più figli. Una simile impostazione non ha nulla a che vedere con l’ecologia.

Siamo cresciuti in modo esponenziale in tutto, pensiamo alle infrastrutture, alle strade, alle ferrovie. Ammettiamo invece che, su ogni fronte, noi dobbiamo de-crescere. Il senso di urgenza è comprensibile, anche quando si parla di annichilamento della natura. Ma non è corretto pensare agli esseri umani solo secondo il paradigma della sovrappopolazione elaborato dagli ecologi. Il nostro obiettivo, all’opposto, deve essere come raggiungere il potere con un messaggio ecologico. Non serve a nulla insistere sulla crescita della popolazione umana: le parole roboanti non ci forniscono soluzioni. Il nostro obiettivo, invece, deve essere come raggiungere il potere con un messaggio ecologista, come sfidare le regole e le regolamentazioni. In sintesi, come creare una sorta di piattaforma realmente politica in cui dare spazio alla politica ecologica”. 

Il libro di Büscher dimostra, in definitiva, che la più semplice verità sulla natura è che non ci può essere una realtà della natura senza esperienza diretta. Ma questa esperienza non è né un safari di lusso da cinquemila euro, né un viaggio in solitaria in luoghi remoti e intatti: è una profonda immersione nella complessità ecologica della storia umana, che ha trasformato la natura stessa in un discorso sociale, da sempre.

Se da un lato stare nella natura è un esame di realtà indispensabile e a volte scioccante (Büscher racconta del sentimento di orripilante paura dei suoi studenti aggrediti dagli insetti nelle foreste tropicali del Sud America, bagnati fradici dopo una pioggia torrenziale e costretti a bivaccare mezzo congelati dal freddo), dall’altro è la comprensione del contesto storico e umano in cui questa stessa natura esiste accanto a noi il modo migliore per mettere a fuoco, un po’ meglio, il caos di dilemmi morali della nostra epoca. 

Büscher B., The Truth about Nature, UNIVERSITY OF CALIFORNIA PRESS.

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Il commercio (legale) aumenta il declino delle specie già minacciate di estinzione

Il commercio legale di specie selvatiche provoca una emorragia lenta e costante sulle specie che hanno un valore di mercato. Le popolazioni di animali selvatici crollano in media del 62%, che arriva al 76% su scala nazionale nei Paesi in cui il wildlife trade è una attività economica consolidata. La conseguenza più evidente è che il wildlife trade è un acceleratore del rischio di estinzione, su cui tuttavia c’è una impressionante carenza di dati disponibili per ciascuna delle specie coinvolte. Questi i dati appena pubblicati su NATURE Ecology & Evolution in uno studio che ha preso in esame la letteratura recente e i report della ong TRAFFIC (specialista dell’Asia) per fare il punto sul volume del commercio di mammiferi, uccelli e anfibi, in rampante espansione, che vale 20 miliardi di dollari all’anno.

Il commercio legale di specie selvatiche provoca una emorragia lenta e costante sulle specie che hanno un valore di mercato. Le popolazioni di animali selvatici crollano in media del 62%, che arriva al 76% su scala nazionale nei Paesi in cui il wildlife trade è una attività economica consolidata. La conseguenza più evidente è che il wildlife trade è un acceleratore del rischio di estinzione, su cui tuttavia c’è una impressionante carenza di dati disponibili per ciascuna delle specie coinvolte.

Questi i ragionamenti e i dati appena pubblicati su NATURE Ecology & Evolution (“Impacts of wildlife trade on terrestrial biodiversity”) in uno studio che ha preso in esame la letteratura recente e i report della ong TRAFFIC (specialista dell’Asia) per fare il punto sul volume del commercio di mammiferi, uccelli e anfibi, in rampante espansione, che vale 20 miliardi di dollari all’anno.

Va aggiunto che la ricerca non comprende la carne selvatica (bushmeat) cacciata soltanto per la sussistenza, e cioè probabilmente 150 milioni di persone che abitano in comunità rurali nel mondo. Sono stati invece analizzati gli studi che hanno quantificato il bushmeat come pratica finalizzata al profitto, cioè a rivendere la carne per ricavarne denaro.

Quel che emerge, tuttavia, è la carenza di informazioni necessarie a capire come e se il wildlife trade possa essere sostenibile sui prossimi decenni, in un Pianeta in rapido cambiamento: “un assessment globale, quantitativo degli impatti del commercio su singole specie e, quindi, la prevalenza e la forza di effetti positivi e negativi è dolorosamente mancante”.

Nel complesso, il declino delle specie selvatiche commercializzate è “del 61.6%, con specie ormai estirpate a livello locale nel 16.4% dei casi”. Benché i mammiferi siano la maggior parte delle specie (il 76% di 145 specie) prese in considerazione, inoltre, “il declino attraversa tutti gli ordini”. E riguarda anche le aree protette. 

Determinante per il destino di una specie di interesse commerciale è la scala spaziale, ossia le ore di viaggio necessarie per catturare un animale e tornare in un contesto urbano che ne permetta la vendita. “Il declino di una specie è tanto più grande quanto più è breve il tragitto verso un centro abitato con più di 5000 abitanti”. Di contro, quando il viaggio supera le 100 ore crolla il rischio che un animale finisca nella rete dei cacciatori. Spedizioni costose e su grandi distanze scoraggiano il consumo locale e i piccoli imprenditori.

Ma la scala spaziale dice anche una altra cosa, che le regioni selvagge e remote, il mantenimento dei loro confini, sono un fattore di protezione indispensabile per le faune, che però è sempre più in bilico a causa dell’espansione di infrastrutture e ferrovie: “gli impatti del commercio su scale internazionale scendono rapidamente con l’aumentare della distanza, fino a raggiungere il rischio zero a 5 ore dal primo insediamento”.

Ecco perché il wildlife trade è un accelerate di estinzione. Il commercio enfatizza gli effetti collaterali impliciti in molte situazioni ecologiche critiche già consolidate, che però coinvolgono la vita sociale ed economica delle comunità locali.

In Asia, la China’s Belt and Road Initiative (BRI), che collegherà il 62% della popolazione mondiale, potrebbe riscrivere questo scenario molto in fretta: “questa espansione è una minaccia riconosciuta alla biodiversità, perché darà accesso, e quindi potenzialmente ne alimenterà la domanda, a specie che hanno un alto valore per la medicina tradizionale, inclusi l’orso bruno (Ursus arctos) e il leopardo delle nevi (Panthera uncia). 

Gli autori fanno riferimento ad un paper uscito nel 2019 sempre su NATURE (“Belt and Road Initiative may create new supplies for illegal wildlife trade in large carnivores”): “Il progetto della BRI e il suo tributario meridionale, cioè il Corridoio Economico Cina-Pakistan, attraversano habitat fondamentali per i grandi carnivori, che sono specie di alto valore di mercato in Cina e nel Sud Est Asia”.

Il rischio non è solo che il traffico illegale prosperi meglio e con maggiore successo, ma anche che “una maggiore domanda possa incoraggiare una transizione da un mercato governato dalla disponibilità di approvvigionamento (supply-driven) ad una domanda regolata dal mercato (market driven), attraverso una conversione del bracconaggio opportunistico in crimine organizzato”. 

Il mercato cinese ha già assorbito, grazie alla forza centripeta della medicina tradizionale, i grandi felini: il giaguaro è l’ultimo arrivato nel traffico di ossa di leoni africani e leopardi e tigri. Alle sottospecie di leopardi asiatici potrebbe ora aggiungersi il Panthera pardus saxicolor, ossia il rarissimo leopardo persiano. 

La questione riguarda evidentemente l’intera biodiversità del Pianeta e la fattibilità di un suo sfruttamento economico entro limiti certi e attendibili. “Non abbiamo usato nel modo corrente i termini sostenibile e insostenibile nel nostro lavoro, perché questo implica l’avere a disposizione una comprensione di come un tale tipo di impatto ha effetti sulle specie nel corso del tempo.

E, invece, proprio questa è la più grande preoccupazione riguardo al commercio, non abbiamo abbastanza evidenze per sapere con esattezza se un tale prelievo sia sostenibile”, spiega Oscar Morton, tra gli autori dello studio.

“Ci mancano dati su quanti individui di ciascuna specie vengono catturati ogni anno, da quali popolazioni, e non sappiano che cosa accade a quelle popolazioni sui tempi lunghi. Non credo si possa definire l’uso sostenibile un ossimoro, credo piuttosto che ci siano poche prove scientifiche che mostrino che è un commercio sostenibile. Ma dobbiamo comunque accettare che l’assenza di prove è in sé anch’essa una prova”. 

La scala del problema chiama in causa anche l’attuale cornice giuridica all’interno della quale queste specie vengono catturate e vendute legalmente. E cioè CITES.

“CITES prende in considerazione soltanto una porzione del commercio e regola soltanto il commercio legale, ossia il commercio internazionale legale delle specie listate. Di conseguenza, rimane scoperta una vasta area fuori del suo mandato, che corrisponde al commercio illegale, il commercio all’interno di un Paese o il commercio di specie che non sono listate”.

“Concordo sul fatto che CITES è il miglior strumento attualmente disponibile per il commercio internazionale legale, ma di certo non è perfetto e non riesce a comprendere tutto il commercio. Ancora di più rimane da tre per gestire i fattori che regolano la domanda di prodotti derivati da animali selvatici a scopo non alimentare e per capire se la domanda possa essere ridotta in modo efficace”. 

È chiaro che il commercio muove sentimenti profondi nell’opinione pubblica occidentale, soprattutto ora, a causa dell’epidemia da SarsCov2. Ma, secondo Morton, bisogna essere molto cauti nel non favorire una risposta emotiva priva di solido fondamento scientifico: “Vediamo in giro ritratti davvero pessimi del commercio, veicolati da organizzazioni caritatevoli (charities) e qualche volta anche dai media, che tentano di influenzare la politica senza però una robusta base scientifica”.

“Il discorso principale tra questo tipo di impostazioni è di sicuro il biasimo che ha investito la pandemia e gli appelli dell’anno scorso per mettere al bando gli wet market e l’interno commercio della carne in certi Paesi. Questi appelli ignorano che milioni di persone dipendono dal commercio di carne per sbarcare il lunario. Ma ignorano anche la solidità delle prove scientifiche che ci dicono che un divieto di questo genere creerebbe molto probabilmente un mercato illegale ancora peggio regolato”. 

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Il collasso della biosfera è sottovalutato. Anche dagli esperti.

L’impronta ecologica umana sulle specie animali ha raggiunto una intensità senza precedenti. Ma questo non significa che attorno alla crisi di estinzione ci sia un consenso storico unanime. Secondo il Gruppo di Stanford (i più autorevoli ecologi del mondo che lavorano con Rodolfo Dirzo della Stanford), il collasso della biosfera è sottovalutato. Anche dagli esperti.

La scienza dell’estinzione si è finalmente rivolta, faccia a faccia, al grande pubblico. È questo il senso dell’appello firmato la scorsa settimana dai migliori ecologi del mondo su FRONTIERS (“Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future”) e di cui abbiamo già parlato. Post verità ed estinzione delle specie non sono più concetti separati.

Basta trasformismi psicologici, autoinganni romantici, devolution e deregulation di responsabilità. E soprattutto basta con la post-verità applicata alla contemporanea condizione del nostro Pianeta nel secondo anno della pandemia. 

Perché Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future dice infatti ciò che qui abbiamo ripetuto centinaia di volte durante il primo anno della pandemia: la catastrofe ecologica è una condizione esistenziale collettiva, le cui soluzioni (faticosissime e ipotetiche) richiedono sacrifici drastici da conteggiare sull’intero apparato mentale e materiale della nostra idea di vita.

Demografia fuori controllo, consumismo spietato, stili alimentari gourmet sempre e comunque sono tutti vizi di cui soffriamo indistintamente, e che di fatto non ci siamo mai potuti permettere.

Purtroppo, l’indifferenza e l’ignavia di massa di fronte a questo disastro, che continuiamo a non voler vedere, ha le medesime radici della nostra affiliazione intima con la post-verità, quel costrutto di invenzioni manipolatorie auto-assolutorie che negli ultimi 5 anni ha funzionato a pieno regime nell’arena politica.

Le vicende politiche degli ultimi anni indicano fin troppo bene che la post verità è ormai un atteggiamento psicologico di massa, molto più pervasivo di quanto prima supposto. Il collasso della biosfera è sottovalutato, e ciò non sorprende, per gli stessi motivi.

Ma che lavora nel tessuto interstiziale stesso della nostra civiltà globale. Lo ha spiegato lo storico di Yale (e fellow del viennese Institut fuer die Wissenschaften von Menschen) Timothy Snyder in un saggio must-read sul trumpismo, pubblicato il 9 gennaio su NyTimes: “Quando noi cediamo sulla verità, concediamo potere a coloro che sono dotati di sufficiente ricchezza e carisma per creare, al suo posto, il puro spettacolo”.

“In assenza di un accordo condiviso su alcuni fatti fondamentali, i cittadini non riescono a formare una società civile, che consentirebbe loro di difendersi. Se poi perdiamo anche le istituzioni che producono fatti che hanno attinenza con le nostre vite, allora tendiamo ad indulgere in astrazioni astratte e nella finzione”. 

È questa la situazione umana che il gruppo di Stanford, allargato stavolta a colleghi dal curriculum altrettanto brillante come William Ripple, un esperto di grandi carnivori e di meta-popolazioni, ha denunciato con l’appello pubblicato da FRONTIERS.

La nostra post-verità è insistere nel considerare i dati scientifici come esagerazioni degli ambientalisti, scenari di là da venire, astrazioni ipotetiche non del tutto credibili.

Atteggiamento mentale nutrito da una stampa compiacente, di destra e di sinistra, che inocula nell’opinione pubblica seducenti pillole zuccherate sui miracoli della transizione energetica, delle crocchette vegane e della circular economy. Dire una mezza verità serve a disinnescare la verità, a rafforzare il consenso nei confronti dei partiti conservatori e delle élite, a scoraggiare la nascita di un dissenso prima di tutto interiore e psicologico. 

Ed è per questo che credo valga la pena riprendere l’argomento proposto dal Gruppo di Stanford. 

Paul Ehrlich ha segnalato su Twitter una lunga intervista sulla piattaforme indipendente POLITIKAPOLITIKA.COM rilasciata dal suo collega, anche lui autore cofirmatario del paper, Dan Blumstein, del dipartimento di Ecologia e Biologia Evolutiva della UCLA. 

Ecco alcune delle riflessioni di Blumstein, che, non fa male ripeterlo, hanno un valore politico, che si ripercuote sulla tenuta delle nostre democrazie e sul modo in cui le nostre società esauste e impoverite reggeranno l’urto nei prossimi decenni. 

“La maggior parte di noi – gli autori del paper – sono scienziati della biodiversità. Ci siamo resi conto che ci sono parecchie cose che vanno nella direzione sbagliata. C’è un movimento consistente nel mondo della conservazione e della scienza sul campo, e anche nella sostenibilità, che incoraggia le persone a dire, le cose vanno male, ma possiamo fare qualcosa. Mi dispiace, ma diventare vegetariano non risolverà questo problema. Dovremmo tutti mangiare meno carne”.

“Volare di meno non risolverà il problema, dovremmo tutti volare di meno, fino a che non avremo a disposizione delle alternative. Le cose che ci fanno sentire bene, su cui abbiamo un controllo personale, non potranno risolvere l’enormità del problema. Dobbiamo ammettere che questa è una crisi esistenziale. Questo paper è partito come uno studio piuttosto diverso dal solito, perché ha enfatizzato la reticenza scientifica. Per dirla altrimenti, la casa sta bruciando. Possiamo anche stare a guardare, ma la casa brucia lo stesso”. 

“Possono anche dirci che siamo degli spacciatori di paura, ma possiamo anche dirla in un altro modo: è questa o no, la realtà che abbiamo davanti? Abbiamo citato 150 studi che documentano in una varietà di ambiti le sfide che fronteggiamo. Questo è spacciare paura? Per come la vedo io questo paper dice come stanno le cose, i fatti. Fate ciò che volete con i fatti. Ma questi sono i fatti. Anche se incutono paura”. 

“Mangiamo una infinità di specie selvatiche e il COVID è niente in confronto a ciò che è possibile. I film apocalittici in cui si vede la trasmissione aerea del virus – che il COVID possiede e in cui potrebbe anche migliorare, che per ora non è così buona. Ebbene, ci sono virus ancora più letali. Il COVID non è fatale tanto quanto potrebbero esserlo le pandemie del futuro”.

Personalmente ritengo il COVID una goccia nell’oceano in confronto alla minaccia pandemica che sta sopra le nostre teste. La minaccia pandemica è in cima alla lista dei killer di intere civiltà. Penso che stiamo dimostrando un bel po’ di hybris a credere che viviamo ormai oltre le malattie”.

“Esaminiamo la storia. Le malattie sono state un vasto regolatore della popolazione. Non mi auguro certo che tutti muoiano sulla Terra per via di una malattia. Vorrei, però, che la popolazione umana diminuisse grazie ad una maggiore valorizzazione delle donne con l’educazione e il controllo delle nascite”. 

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La biosfera corre rischi molto peggiori di quanto si creda, avvertono i più autorevoli top-ecologist

Il collasso ecologico è sottostimato. A  dirlo il paper uscito su FRONTIERSIN Underestimating the Challenges of a Avoiding a Ghastly Future.
Photo Credit: Diego Sandoval

Il collasso ecologico è sottostimato. Le evidenze scientifiche sono chiarissime, la crisi di estinzione è decisamente più preoccupante di quanto società civile e politica suppongano. Ma anche parte del mondo scientifico stenta a comprendere quanto pericolosa sia la attuale condizione biologica del Pianeta. L’espansione umana è inarrestabile ed ormai erode le fondamenta della civiltà.

Così esordiscono in un paper uscito mercoledì scorso sulla piattaforma FRONTIERS ( “Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future”) un gruppo di 70 top-ecologist. Tra questi, ancora una volta, Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos e William Ripple. Sono loro i massimi esperti della crisi di estinzione nota al pubblico come “sesta estinzione di massa”.

Le pubblicazioni di questi autori – il Gruppo di Stanford – sono i contributi più lucidi sui numeri del destino della biosfera. E soprattutto sulle connessioni tra cultura, modernità ed estinzione. Il collasso ecologico è sottostimato perché non siamo in grado di comprendere fino in fondo come la nostra cultura produca l’estinzione.

Nel 2014 Rodolfo Dirzo ha rivoluzionato gli studi sulla crisi di estinzione pubblicando su SCIENCE i dati più aggiornati sulla defaunazione, ossia la scomparsa di migliaia di popolazioni di vertebrati appartenenti a specie che stanno letteralmente “evaporando” dalla biosfera.

Stavolta, il paper del Gruppo non si limita ad analizzare dati scioccanti sulla condizione complessiva della biosfera, ma, soprattutto, pone sul tavolo alcune riflessioni di peso culturale sulle ragioni della inerzia della mega-civiltà globale del XXI secolo.

Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future” è quindi molto più dell’ennesima lettera aperta al mondo scientifico e all’opinione pubblica: è una presa di posizione, un appello civile e politico. Una denuncia che starebbe altrettanto bene nelle aule parlamentari delle nazioni dell’emisfero nord del Pianeta. 

Inerzia collettiva

Il collasso biologico e l’estinzione delle specie animali, ancora oggi, è considerato e trattato come una notizia di contorno, un riempitivo da un paio di minuti, dagli esiti lontani e tutto sommato improbabili. La crisi di estinzione è percepita come uno scenario da science-fiction.

Nondimeno, “la scala delle minacce alla biosfera e ad ogni forma di vita, inclusa l’umanità, è nei fatti così grande che è difficile coglierne la misura anche per gli esperti molto bene informati (…). Abbiamo orientato la nostra attenzione in modo particolare sulla mancanza di percezione e di valutazione delle enormi sfide poste dalla creazione di un futuro sostenibile”.

“La scienza che sta a fondamento di queste questioni è solida, ma la consapevolezza debole. Eppure, senza una valutazione comprensiva e una informazione diffusa sulla scala dei problemi e della enormità delle soluzioni richieste, la società fallirà nel raggiungere anche i più modesti obiettivi di sostenibilità”. 

Nonostante la nostra disponibilità psicologica a dimenticarci in dieci minuti del fatidico overshooting day, il giorno in cui le risorse naturali del Pianeta sono in passivo rispetto alla fame del nostro prelievo di materia organica (animali, combustibili fossili, minerali, cereali, acqua) “la scelta è tra uscire dall’overshoot in modo programmato o attraverso il disastro – scrivono gli autori – perché che si arrivi ad una risoluzione dell’overshooting è inevitabile, in un modo o nell’altro”.

Il collasso ecologico è sottostimato anche dal punto di vista politico. L’inevitabile confronto con la verità che ci attende è un detonatore di instabilità sociale su scale ancora sconosciute.

E dovremmo cominciare a riflettere, avvertono sugli autori, anche su questo fatto ormai incontestabile: “la severità degli impegni richiesti ad ogni Paese per raggiungere minime riduzioni nei consumi e nelle emissioni porterà inevitabilmente ad una condanna da parte del pubblico e ad ulteriori irrigidimenti ideologici, soprattutto perché la minaccia di sacrifici potenziali sul breve periodo è vista come politicamente inopportuna”. 

L’ottimismo è pericoloso

Per sgombrare il campo da quello che i sociologi chiamano uno “vizio di ottimismo” (optmism bias), ossia un riflesso condizionato di ottimismo di fronte a notizie catastrofiche, spetta ora più che mai “agli esperti di ogni disciplina, che si occupano del futuro della biosfera e del benessere umano, mettere da parte la reticenza, evitare di indorare la pillola delle spaventose e disarmanti sfide che abbiamo di fronte a noi e dire le cose per quelle che sono”.

L’allarme è perentorio: “qualunque altro atteggiamento è fuorviante, nella migliore delle ipotesi, o addirittura, nella peggiore, negligente e potenzialmente letale per l’avventura umana”. 

Lungi dall’essere conclusa, l’espansione umana sul Pianeta procede senza sosta e si è ormai trasformata in una imponente azione di “erosione della fabbrica stessa della civiltà”.

Il motore interno di questa condizione globale è la cultura, che funziona contemporaneamente come un aggregatore e un moltiplicatore di problemi, problemi che sono interrelati e che però continuano ad essere analizzati e studiati separatamente.

“Una diffusa ignoranza del comportamento umano e della natura incrementale dei processi socio-politici che dovrebbero pianificare le soluzioni aggiunge ritardo a ritardo nel procedere con azioni efficaci”.

L’emergere sulla scena politica, negli ultimi 5 anni, di movimenti di destra visceralmente avversi alla domanda ecologista dimostra che la certezza scientifica della intensità della crisi ecologica e della crisi di estinzione, sostengono gli autori, non porterà, in automatico, ad una risposta politica nuova e adeguata. 

“Sin dall’inizio dell’agricoltura attorno agli 11mila anni fa, la biomassa delle vegetazione terrestre è stata dimezzata, con una corrispondente perdita di più del 20% della sua biodiversità originaria: di conseguenza, oltre il 70% della superficie terrestre della Terra è stata alterata da Homo sapiens. Delle stimate 0,17 gigatonellate di biomassa di vertebrati terrestri sulla Terra oggi, la maggior parte è rappresentata dagli animali da allevamento (59%) e dagli esseri umani (36%) e soltanto il 5% di questa biomassa totale è composta di animali selvatici: mammiferi, rettili, uccelli e anfibi” 

Siamo oltre la bio-capacità del Pianeta

Ci troviamo piuttosto nel pieno di un ribaltamento di uno dei concetti centrali dell’ecologia, il density feedback: “quando una popolazione si avvicina alla sua massima capacità di carico ambientale, in media la fitness individuale comincia a declinare (la fitness è la performance ambientale di una specie, ossia il successo con cui un individuo accede alle risorse alimentari, prospera e si riproduce, NDR)”.

“Questo tende a spingere le popolazioni verso l’espressione istantanea di una capacità di carico, che mira a rallentare o invertire la crescita di popolazione. Ma per la maggior parte della sua storia, l’ingenuità umana ha gonfiato la naturale capacità di carico dell’ambiente a nostro vantaggio, sviluppando nuovi modi per accrescere la disponibilità di cibo”. 

“Tramite l’accesso ai combustibili fossili, la nostra specie ha spinto il consumo di beni naturali essenziali e di servizi naturali molto oltre la capacità di carico di lungo periodo, o, più precisamente, della bio-capacità del Pianeta, rendendo così ancora più catastrofico quello che sarà così un inevitabile riaggiustamento dei nostri trend di ipersfruttamento (overshoot), se esso non sarà gestito con intelligenza”.

“Una popolazione umana in crescita non farà che esacerbare queste condizioni, portando ad una competizione ancora più accesa per un pool di risorse sempre più ristretto”. 

Nessuno auspica politiche demografiche di tipo dittatoriale, ma è bene rendersi conto che i trend già avviati proseguiranno nel XXII secolo e che soltanto “istituire politiche fondate sui diritti umani per abbassare comunque la fertilità e smontare i meccanismi del consumo potrebbero attutire gli impatti di questi fenomeni”.

Forse per la prima volta anche nella storia accademica di questi ricercatori, tra gli autori citati a sostegno dello scenario complessivo c’è l’economista Thomas Piketty. Un mondo in obvershooting cronico è un mondo in cui “il sistema economico è sempre più incline a sequestrare la rimanente ricchezza a vantaggio di pochi individui”. 

Mancanza di governance internazionale

A dispetto di facili entusiasmi e di una ingenua propaganda ambientalista, dobbiamo essere consapevoli anche della insufficienza completa degli strumenti di governance internazionale già messi in atto sul fronte caldissimo della crisi di estinzione, del cambiamento climatico e di una relazione con i viventi di tipo non estrattivo.

Gli Obiettivi di Aichi al 2020, ad esempio, “anche se fossero stati raggiunti, sarebbero stati ben lungi dal realizzare ogni sostanziosa riduzione del tasso di estinzione”.

Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ( SDGs, United Nations Sustainable Development Goals) sono anche loro sulla strada per il fallimento “perché la maggior parte di essi non è stata adeguatamente integrata in una cornice in cui i fattori socio-economici sono interdipendenti gli uni dagli altri”.

E infine, per quanto riguarda il tanto sbandierato Accordo di Parigi per il Clima (2015), “anche ipotizzando che tutti i firmatari, di fatto, procedano a ratificare i loro impegni (prospettiva molto dubbia), il riscaldamento previsto raggiungerebbe comunque i 2.6-3.1 °C entro il 2100”. 

Non sembra che le prospettive siano migliori per il summit di Kunming del prossimo ottobre, che dovrebbe ridisegnare la cornice internazionale delle conservazione con un nuovo accordo storico. Kunming dovrebbe definire una strategia globale contro la crisi di estinzione. Una prospettiva che a non pochi osservatori pare avvolta nella nebbia dell’incertezza.

Il collasso ecologico costringe a fare i conti anche con le nostre illusioni economiche. La gravità della situazione impone di “abolire il paradigma della crescita perpetua” e di imporre cambiamenti fondamentali al capitalismo globale. Ma questo “porterà per forza a conversazioni non facili sulla crescita demografica umana e sulla necessità di venire a patti con standard di vita più equi”. 

Fonte: Bradshaw CJA, Ehrlich PR, Beattie A, Ceballos G, Crist E, Diamond J, Dirzo R, Ehrlich AH, Harte J, Harte ME, Pyke G, Raven PH, Ripple WJ, Saltré F, Turnbull C, Wackernagel M and Blumstein DT (2021) Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future. Front. Conserv. Sci. 1:615419. doi: 10.3389/fcosc.2020.615419 

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SE SEI ARRIVATO FIN QUI – Nessun giornale italiano considera questo argomento degno della prima pagina. Schiacciata sul cambiamento climatico, la catastrofe biologica del XXI secolo è ancora considerata un tema da science-fiction. Eppure, tutto questo è dannatamente reale e troppi giornalisti non possono scriverne e parlarne ridotti alla fame dalle paghe indecenti concesse dai grandi editori. Scegli oggi di sostenere chi ha deciso di sostenere questa battaglia !

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Telmo Pievani: serve un ecologismo umanista

Telmo Pievani: serve un ecologismo umanista.

Telmo Pievani lo dice apertamente: serve un ecologismo umanista. La gravità della crisi di estinzione ci obbliga a ripensare il modo in cui, finora, abbiamo pensato di proteggere le specie e i loro habitat. Bisogna riformulare i termini del ragionamento e imparare a interpretare la nostra identità evolutiva.

Jean Paul Sartre riteneva che “noi siamo abbandonati, senza scusanti. Questo è ciò che intendo quando dico che l’uomo è condannato alla libertà”. Non ci sono santi in Paradiso né metafisiche salvifiche. Abbiamo solo noi stessi, per tirarci fuori dal guaio di esistere così come siamo.

Una eco di questa concezione modernissima della responsabilità umana risuona nel libro di Telmo Pievani LA TERRA DOPO DI NOI, edito da Contrasto e arricchito dalle fotografie del fotografo naturalista Frans Lanting, un libro che di questi tempi sarebbe bene leggere e rileggere.

Con la chiarezza cristallina che gli è propria, Pievani spiega perché l’esperimento globale chiamato Antropocene è così pericoloso per noi, che lo abbiamo costruito lungo un percorso evolutivo lungo, considerando solo noi Sapiens, almeno 200mila anni.

Non potremo dire di non averlo saputo, scrive Pievani, immaginando il momento in cui dovremo, tutti, fare i conti con le conseguenze dei cambiamenti climatici e della sesta estinzione di massa. I numeri sono chiari, le evidenze scientifiche altrettanto.

Ma, per concedere un futuro al Pianeta e alle prossime generazioni, dobbiamo accettare che “il punto di partenza è l’ambivalenza della nostra natura”.

Professor Pievani, vorrei cominciare da un grande merito di questo suo testo: lei riesce a portare nella discussione un concetto che di solito è oscurato anche dagli ambientalisti. Il concetto di identità evolutiva: è vero, siamo una specie altamente pensante, il Novecento ci ha insegnato che siamo soggetti e individui, ma noi siamo soprattutto una specie. È dalla identità evolutiva, dunque, che bisogna partire per capire che cosa ci è successo, che cosa ci sta succedendo e che cosa potrebbe succederci. Avremmo bisogno di una “rivoluzione copernicana” nel pensiero? Di cominciare a pensarci non come soggetti, ma come specie, anche dal punto di vista filosofico?

Sì sono d’accordo, per due ragioni. La prima è che questo è un po’ quello che è mancato nel pensiero ecologista, giustamente militante, che per altro già 10 anni fa denunciò la crisi ambientale, crisi che oggi, purtroppo, galoppa. Hanno tutti i meriti possibili.

Adesso però bisogna andare avanti, anche nella elaborazione filosofica dell’ambientalismo. Il difetto di fondo, che io ho sempre visto, è quello di considerare con una certa distinzione il destino umano da quello dell’ambiente, come se ci fossimo noi, con tutte le nostre responsabilità, e dall’altra parte un ambiente da difendere.  

Il problema è che, invece, noi siamo parte di questa storia. Ci vuole un ecologismo umanista, che non contrappone più gli interessi umani e quelli della natura, non pone più questa dicotomia, ma sottolinea il contrario, che oggi gli interessi della natura coincidono con i nostri.

Se vogliamo davvero essere umanisti, difendere l’esperienza umana e le prossime generazioni, dobbiamo difendere i diritti della natura. I nostri diritti sono quelli che noi stessi applichiamo alla natura.

Il secondo punto è che la coscienza di specie ci fa capire che i problemi che abbiamo davanti sono problemi universali, che riguardano la specie umana in quanto tale, che deve imparare ad essere lungimirante, perché altrimenti noi scarichiamo sui nostri figli e i nostri nipoti il debito ambientale e questo è un grande problema di giustizia. 

Nella seconda parte del suo ragionamento lei argomenta la questione a partire dal cambiamento climatico facendo però anche riferimento al paper epocale di Rodolfo Dirzo del 2014 sulla defaunazione. Mentre l’estinzione conclamata di una specie è un evento quasi epifanico, la defaunazione lavora silenziosamente, mentre non ce ne accorgiamo. E poi lo scorso giugno è uscito sulla PNAS un secondo studio dei colleghi di Dirzo – Ceballos, Raven ed Ehrlich –  che ci invita a ragionare per popolazioni: “Se consideriamo una riduzione della loro area di diffusione storica per tutte le 515 specie di vertebrati sull’orlo dell’estinzione, allora le popolazioni di queste specie scomparse dal 1900 raggiungono la cifra sbalorditiva di 237.000”. Del cambiamento climatico si parla troppo poco, ma dell’estinzione ancora meno. Perché a suo parere?

È vero, purtroppo. Nell’era pre-Covid, nel 2018 e nel 2019, stava montando un po’ di più sui media, il tema ambientale, però era tutto centrato sul cambiamento climatico e un po’ meno sull’altro lato della grande crisi ambientale, che Dirzo e gli altri sottolineano da 15 anni con dati oggettivi. I dati sono in peggioramento, tra l’altro, e questo è sempre bene ricordarlo.

Due settimane fa è uscita una terza ricerca ed è impressionante: tutte le società scientifiche del mondo che si occupano di mare, di acqua, e quindi pesca e conservazione marina, si sono messe insieme, hanno scritto un documento sintetico, di 7 pagine, evento già di per sé rarissimo nel mondo scientifico. Ebbene, i dati di questo statement dicono che, se continuiamo su questo trend, entro il 2050 avremo perso il 90% di tutte le barriere coralline.

Con il metodo di Dirzo, molto innovativo, che conta l’abbondanza di popolazioni all’interno delle specie, queste istituzioni calcolano che dagli anni ’70 ad oggi è andato perso l’83% delle popolazioni di tutte le specie di acqua dolce, che è una cosa mostruosa. Tanto per intenderci, in 50 anni abbiamo lasciato nelle acque dolci soltanto il 17% degli animali e delle alghe che ci abitavano nel 1970.

Un danno di questa entità è irreversibile. Il tempo di recupero sarà lunghissimo. Giustamente, gli autori hanno fatto una altra cosa molto importante adesso, hanno cioè quantificato il costo di tutto questo, perché il 40% degli esseri umani vivono a 50 km dalla costa e da quella biodiversità marina dipendono servizi ecosistemici fondamentali.

Quello che sta succedendo non ci conviene da nessun punto di vista, neppure utilitaristico. Rimane la domanda sul perché non ne parliamo. Abbiamo ancora una modalità di comunicazione tutta incentrata sul presente, sulle emergenze, su quello che succede di volta in volta e facciamo molta fatica a capire gli andamenti.

Con il riscaldamento climatico, dopo tanto tempo, un po’ questa cosa eravamo riusciti a superarla. Adesso dobbiamo farlo anche con la biodiversità.

Aggiungo che mi dispiace molto sia passato in secondo piano, ma non dobbiamo assolutamente dimenticare che anche questa pandemia è a suo modo figlia di questo, della riduzione della biodiversità, dello sconvolgimento degli ecosistemi, del fatto che spostiamo specie e aumentiamo la possibilità di entrare in contatto con gli animali portatori di virus.

Infatti abbiamo ascoltato decine e decine di ore di talk televisivi sulla gestione politica della pandemia, ma pochissimo è stato detto all’opinione pubblica sul fatto che SarsCov2 è una zoonosi ed è quindi inserito in una concatenazione di cause ed effetti ben precisi. Tenere questo genere di verità lontano dal pubblico sentire riduce la possibilità che la gente comune elabori una coscienza ecologista in grado di tradursi in scelte elettorali.

Io su questo insisto moltissimo. Se ne è parlato un po’ a marzo e aprile. Poi è passato in secondo piano: la questione fondamentale adesso sono le misure di emergenza e il vaccino.

Ma il vaccino è metà della soluzione: è ciò che ci permetterà di uscire da questa emergenza, ma se noi non eliminiamo le concatenazioni ecologiche che sono alla base di questa pandemia, non abbiamo rimosso il tema fondamentale, che porterà ad altre pandemie. 

Non possiamo prevedere quando ci sarà la prossima, però sappiamo, è razionalmente  deducibile, che se non rimuoviamo le cause, tornerà a presentarsi il problema.

La Cina non ha ridotto l’uso di animali selvatici per la medicina tradizionale, che è un grande business. Non stiamo facendo abbastanza nel senso che non stiamo lavorando sulle cause remote.

In qualche modo la pandemia è una esperienza collettiva della catastrofe ecologica. 

Esatto. E, tra l’altro, questa è una evidenza talmente forte che dovrebbe valere anche per chi non dovesse avere in teoria un interesse ecologista. Suggerisco sempre di fare un banalissimo calcolo.

Calcolare quanto si guadagna dalla deforestazione, dal commercio di animali esotici, dal bracconaggio, guadagni che vanno a pochissimi e in buona parte illegali, e sull’altro piatto mettiamo quanto ci costa questa pandemia, sul piano sanitario, umano, sociale ed economico.

E si vedrà che il costo della pandemia è molto più alto di quanto si guadagna dalle attività di cui sopra.

Ci vuole un ecologismo umanista, che non contrappone più gli interessi umani e quelli della natura, non pone più questa dicotomia, ma sottolinea il contrario, che oggi gli interessi della natura coincidono con i nostri”. 

Lei insiste molto anche sul concetto di trappola evolutiva. Le plastiche ne sono un esempio. Utilissime, ma dall’impatto letale.

Questa è l’importanza della coscienza di specie. Se tu acquisisci la capacità di vedere Homo sapiens come una specie, impari anche a dare una prospettiva evoluzionista a quanto sta succedendo.

Cosa è il climate change? È un grande sperimento globale, il modo con cui una sola specie, Homo sapiens, per lo sfruttamento delle risorse, che hanno dato anche benessere ad una parte crescente di esseri umani, modificando l’ambiente, ha impoverito la nicchia ecologica in cui siamo immersi.

Adesso però arriva la seconda parte, che noi evoluzionisti abbiamo sempre studiato, e cioè che una volta che hai modificato l’ambiente ti devi poi adattare all’ambiente che tu stesso hai modificato. Questo processo si chiama costruzione di nicchia.

Una sola specie, agendo in modo molto veloce e drastico come stiamo facendo noi, perché 50 anni sul piano evolutivo sono niente, si trova poi a doversi lentamente e faticosamente adattare ad un ambiente da noi modificato in modo incontrollato. Il concetto di trappola evolutiva è quindi molto semplice. 

Nel libro lei spiega che “le altre specie modificano le loro nicchie ecologiche lentamente attraverso le attività metaboliche, fisiologiche e comportamentali, noi invece lo facciamo rapidamente attraverso la cultura cumulativa e l’informazione socialmente trasmessa (dentro cui ricadono tanto la domesticazione di piante e animali quanto le attuali economie industriali e digitali). Le piante, gli animali non umani e i microbi (esterni a noi o coabitanti il nostro corpo) definiscono la nicchia ecologica in cui viviamo, cioè un delicato equilibrio di relazioni di interdipendenza nel quale noi non siamo soltanto gli attori protagonisti, i costruttori della nicchia, ma siamo anche i soggetti che subiscono le retroazioni (o ritorsioni) ecologiche derivanti”. Siamo diventati padroni del tempo: abbiamo preso in ostaggio il futuro.

Lo vogliamo anticipare a tutti i costi, perché siamo miopi, perché noi siamo la specie del qui e ora. Di recente sono usciti un sacco di studi che ci fanno vedere che noi abbiamo una attitudine predatoria e invasiva.

Però, e questo è il punto, noi siamo anche consapevoli che abbiamo tanti strumenti per parlarne, per discutere di come una specie invasiva e predatoria può mettersi nei guai perché impoverisce l’ecosistema fino a non avere più lei stessa le risorse che le occorrono.

Credo che questi feedback diventeranno sempre meno controllabili e ci costeranno sempre di più. Quello che mi preoccupa tantissimo è che dovremo pagare un prezzo.

Questo prezzo lo sappiamo già e sarà pagato da chi è più povero, da chi è nelle fasce tropicali ed equatoriali e ha contribuito di meno al problema. Quindi c’è una grande questione di diseguaglianza.

Scrivo spesso che noi Sapiens ci siamo co-evoluti con gli animali. Quando ragioniamo sulla qualità di questo futuro, con feedback che si rafforzano gli uni con gli altri, dovremmo ricordarci che abbiamo imparato a pensare osservando le altre specie. Quindi un mondo sempre più povero di specie animali vorrà dire anche soffrire di una maggiore povertà psichica. In qualche modo verrà meno anche una parte della nostra umanità. 

Sì. L’antropologo Paul Shepard è stato uno dei primi, con un lavoro molto interessante, a teorizzare che noi pensiamo attraverso la presenza animale, attraverso la co-evoluzione con gli altri. Sono totalmente d’accordo. I dati sono terribili: limitiamoci a quegli animali più vicini a noi, come i mammiferi, co-evolvendo con i quali abbiamo plasmato la nostra mente.

Se prendiamo il 100% della biomassa dei mammiferi della Terra, il 30% siamo noi, più del 60% sono animali in allevamenti intensivi e la fauna selvatica, tutti gli altri, sono ormai meno del 10%.

Questo la dice lunga sull’impatto irreversibile della specie umana che ha ridotto al 10% tutto il resto. Il 60% di animali in allevamento ci ricorda tra l’altro che tra quelle attività che riducono la biodiversità ci sono gli allevamenti e quindi la nostra dieta. 

E le aree protette o super protette del Pianeta in cui sopravvive questo 10% selvatico sono posti spettacolari a cui hanno accesso soltanto i più ricchi del Pianeta. Riserve in Botswana a 1000 dollari americani a notte. Ci sono bambini nati a Kibera, la baraccopoli di Nairobi che è la più grande del Kenya e dell’Africa, che non hanno mai visto un elefante o un leone. 

Sono d’accordissimo. Rientra nel capitolo della responsabilità ecologica, che  non può essere elitaria, deve essere condivisa.

Molte persone non sanno in che epoca vivono o di appartenere ad una filogenesi che, solo tenendo in considerazione le Australopitecine africane, è antica di 2 milioni e mezzo di anni. Un gap di coscienza storica e storiografica. Non dovremmo rivedere anche il modo in cui si insegnano almeno gli ultimi 5 secoli di storia umana, visto che Maslin e Lewis suggeriscono di fissare al 1610, cioè ad un tempo recentissimo, l’inizio dell’Antropocene? Non dovremmo cominciare a studiare, insieme alla storia della civiltà, anche le origini della crisi di estinzione?

Esatto, è ciò che dicevo prima: far percepire le tendenze, la profondità storica di quello che succede. Si può fare in tanti modi. Il primo è certamente la didattica, non però aggiungendo nuove materie. Secondo me ci si riesce impregnando tutte le materie di questi problemi, che riguardano la storia, la letteratura, la geografia, le scienze.

È una grande sfida multidisciplinare, che poi è anche la sua bellezza. La seconda cosa, ne ho parlato spesso, anche con Piero Angela recentemente, è questa. Se è vero che noi stiamo parlando della crisi ambientale sin dalla pubblicazione della Primavera Silenziosa di Rachel Carson, della metà degli anni Settanta, bisogna constatare che non abbiamo creato una coscienza collettiva.

Ma se oggi leggiamo SCIENCE e NATURE, cosa che a me impressiona un sacco, vediamo che queste riviste contengono degli appelli talmente allarmanti da assomigliare a ciò che veniva scritto nelle riviste del WWF e di Legambiente venti anni fa.

La differenza è che questi allarmi non sono più presenti su riviste di militanza ecologista, ma sono su SCIENCE e anche LANCET. Questi riviste non hanno di per sé nessuna visione in senso ecologista, eppure ogni settimana esce qualcosa sulle loro pagine. C’è un cambiamento in corso. 

Io credo anche che bisogna esplorare nuovi linguaggi, fare molta ricerca sui linguaggi, cominciare a dire queste cose con il linguaggio della letteratura e dell’arte, della musica, del teatro, non basta più la conferenza, il documentario, il servizio in tv.

Guardiamo LANCET, una rivista medica. Da due anni insiste sull’impatto del riscaldamento climatico sulla salute, sull’accesso alla salute, una scelta editoriale assolutamente inedita, mai fatta prima, che mette insieme il tema ambientale e la giustizia sociale. 

Non a caso lei cita lo scrittore Amitav Ghosh che parla di una gravissima crisi di immaginazione. Non abbiamo ancora neppure una letteratura adeguata alla crisi ecologica. E questo ci impedisce di comprenderla a fondo. 

Usando linguaggi diversi si ottiene un effetto molto importante in comunicazione: le persone ricevono un messaggio che è convergente, cioè coerente, ma proviene da linguaggi diversi.

Sentendo parlare di un argomento solo in un modo, si crea un effetto di assuefazione, come si è creato adesso. Ma se quello stesso argomento mi arriva da sensibilità diverse, da luoghi, fonti e canali differenti, funziona molto di più e spero funzioni molto di più. 

A conclusione del libro lei spiega un concetto magnifico, che dà molta speranza. Ma non la solita speranza del ‘mi affido e quindi non agisco nel presente’,. Lei spiega infatti che, proprio perché la cultura nella nostra specie è un tratto ereditario, i giovani di domani avranno “un cervello culturalmente e biologicamente diverso dal nostro, plasmato da conoscenze più approfondite”. E quindi sapranno agire là dove noi non ne siamo stati capaci.

Non bisogna dare un messaggio di disperazione. E questa è una speranza razionale, nel senso che è basata su un dato evolutivo e storico, che è oggettivo. Non è una idea mia, me la hanno suggerita i ragazzi.

Mi è capitato non una volta, e quindi evidentemente non è causale, che ragazzi di 15, 16, 17 anni, liceo, alla fine della conferenza mi dicessero, ‘tutto giusto professore, grazie, però non si preoccupi, perché voi avete creato il problema, la vostra generazione, i vostri padri, noi siamo diversi, perché ci siamo nati dentro e quindi noi avremo delle mentalità, delle modalità e capacità che voi non riuscite ad immaginare’.

La prima volta che me lo hanno detto, ho pensato, la solita ingenuità velleitaria, però se ci pensi hanno ragione. Gli scienziati di una o due generazioni prima della mia non avrebbero mai immaginato internet o l’editing del genoma. Quindi, razionalmente, dobbiamo dare per buono che anche nella generazione a venire verranno fatte scoperte che noi nemmeno riusciamo ad ipotizzare. 

La bellezza di quello che lei dice è che ad un certo punto, e ce lo insegna l’evoluzione, è giusto passare il testimone, lasciare che quelli che vengono dopo siano i protagonisti. C’è una grande lezione, una profonda etica, in 4 miliardi e mezzo di storia del Pianeta. 

Sì. Ci sono commenti venati di paternalismo e accondiscenda, invece secondo me i movimenti come Fridays for Future sono espressione del fatto che dobbiamo passare il testimone, metterci ad ascoltare. A mio parere c’è anche uno scontro generazionale, che è positivo. È la dialettica storica che, da questo punto di vista, ha ragione. 

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Un nuovo indice-soglia per le estinzioni?

Un nuovo indice-soglia per le estinzioni? Alcuni ricercatori pensano serva fissare un limite valido per tutti i maggiori gruppi di organismi.

Un nuovo indice-soglia per le estinzioni? Lo scorso 2 giugno un gruppo di ricercatori ha proposto di instituire un unico target, valido per ogni Paese, che indichi il numero totale di estinzioni accettabili. Questi ricercatori pensano dunque che per arginare il crollo della biodiversità possa essere utile fissare un numero minimo di specie che potremmo “permetterci” di perdere rimanendo dentro una soglia di sicurezza. Un biodiversity target, insomma.

Il nuovo indice di riferimento dovrebbe essere analogo ai +2°C per il cambiamento climatico (la soglia limite di riscaldamento del Pianeta). Un solo numero, chiaro, univoco, “che comprenda tutti i gruppi maggiori di viventi (funghi, piante, invertebrati e vertebrati) attraverso tutti gli ecosistemi (marini, di acqua dolce e terrestri)”.

La proposta scientifica arriva nel pieno della confusione internazionale attorno alla crisi della biodiversità.

Il 2020 avrebbe dovuto essere il super anno della biodiversità. È stata rimandata al maggio 2021 la conferenza della CBD (Convenzione per la Biodiversità delle Nazioni Unite) programmata a Kunming, in Cina, che ha l’ingrato compito di scrivere un documento globale per la protezione del Pianeta vivente in sostituzione dei fallimentari Obiettivi di Aichi del 2010.

Sulla scia della epidemia zoonotica, ricerca e istituzioni di governance internazionale sono in fermento per cercare di imporre la sesta estinzione di massa come rischio globale di categoria massima. 

Il nuovo target

Il nuovo target dovrebbe essere il numero 20: un tasso accettabile di estinzioni deve essere sotto 20 estinzioni all’anno, per i prossimi 100 anni.

Gli autori constatano che nell’ultimo decennio non ci sono stati progressi massivi sulla protezione dei sistemi viventi: “benché la perdita globale di biodiversità prodotta da attività umane sia ampiamente conosciuta, la politica si è dimostrata incapace di arrestare il declino (…) Dei 20 obiettivi di Aichi definiti nel 2010 dalla Convenzione per la Biodiversità delle Nazioni Unite soltanto 4 mostrano progressi positivi, mentre i 12 connessi allo stati di salute della natura sono in peggioramento”.

Forse il nuovo target potrebbe galvanizzare la scadente attenzione della società civile per il collasso delle specie animali. Dietro queste speculazioni c’è la pressione di arrivare ad una cornice giuridica almeno in parte vincolante che fissi dei parametri internazionali di conservazione delle specie.

Ma ha davvero senso fissare un nuovo indice-soglia?

L’urgenza del momento è senz’altro immensa. Lo ha confermato lo studio più importante sull’estinzione e la defaunazione della Terra uscito dal 2014 ad oggi. Studio pubblicato sulla PNAS e firmato da Peter Raven, Gerardo Ceballos e Paul Ehrlich, i ricercatori di maggior spessore in questo ambito, insieme al collega di Stanford Rodolfo Dirzo, autore della ricerca del 2014 sulla defaunazione. 

“Se consideriamo una riduzione della loro area di diffusione storica per tutte le 515 specie di vertebrati sull’orlo dell’estinzione, allora le popolazioni di queste specie scomparse dal 1900 raggiungono la cifra sbalorditiva di 237.000”

La ricerca mostra che “l’estinzione nutre l’estinzione” perché la dipartita di una sola specie impoverisce le funzioni ecologiche del suo ecosistema tanto da compromettere anche le specie ancora presenti, privandole di connessioni trofiche essenziali e quindi preparandone la futura estinzione.

Secondo l’impostazione del “gruppo di Stanford”, quindi, un unico numero che riassuma un indice di defaunazione accettabile non rispecchia gli effetti complessivi della perdita anche di una sola popolazione sui risultati finali dei processi di estinzione. Molto più utile ragionare sull’effetto domino

Effetto domino

L’effetto domino a cascata è infatti uno dei motivi per cui il collasso delle specie sta accelerando: “quando una specie scompare, un ampio pacchetto di caratteristiche se ne va per sempre, dai geni alle interazioni tra fenotipi e ai comportamenti”, spiegano gli autori. “Ogni volta che una specie o una popolazione svaniscono, la capacità della Terra di mantenere i servizi ecosistemici, che dipendono dalle specie o dalla popolazione coinvolta, ne risulta compromessa.

Ogni popolazione è unica e perciò diversa nella sua capacità di adattarsi con successo ad un particolare ecosistema e giocarvi il suo ruolo”. Due misure sarebbero auspicabili da subito: classificare come “criticamente minacciate” in Red List tutte le specie sotto i 5mila individui, e quindi, di riflesso, escluderle tutte dal commercio; elevare la crisi di estinzione a emergenza mondiale e quindi inserire la conservazione delle specie in un accordo globale vincolante entro questo decennio. 

Le conclusioni a cui sono giunti Ceballos, Raven ed Ehrlich (“Se consideriamo una riduzione della loro area di diffusione storica per tutte le 515 specie di vertebrati sull’orlo dell’estinzione, allora le popolazioni di queste specie scomparse dal 1900 raggiungono la cifra sbalorditiva di 237.000”) sollevano seri dubbi sul fatto porre una cifra-simbolo come benchmark per il numero di specie a cui possiamo ragionevolmente rinunciare si poggi su una logica efficace. 

Ancora oggi non sappiamo come si comportano le popolazioni di moltissime specie (mortalità, tassi di riproduzione, suscettibilità al cambiamento climatico, rapporto numerico maschi/femmine); in una analoga zona grigia sta la conoscenza delle interazioni all’interno degli ecosistemi.

Per questo motivo, già nel 2015, quando la comunità scientifica accettò l’evidenza della sesta estinzione di massa, il paleontologo Anthony Barnovksy, Gerardo Ceballos e Paul Ehrlich sottolinearono che l’assenza di molti dati su moltissime specie potrebbe aver indotto anche le stime più pessimistiche ad una sottovalutazione delle estinzioni in corso.

Anche Edward O. Wilson, sempre nel 2015, ha pesantemente criticato la prospettiva della “sostenibilità ambientale” per gli stessi motivi.

“Negli ecosistemi in cui anche l’identità della maggior parte delle specie che ci abitano è ignota, come possono i biologi definire i processi fondamentali delle loro interazioni? Come possiamo predire i cambiamenti degli ecosistemi se alcune delle specie residenti svaniscono, mentre altre prima assenti arrivano come invasori?”, scrive Wilson in Half Earth.

E rincara la dose: “i dati necessari per studi avanzati sulla struttura e la funzione degli ecosistemi nella maggior parte dei casi non esistono. Chiediamo agli ecologi, per la centesima volta, come facciamo a capire i principi profondi della sostenibilità in una foresta o in un fiume se ancora neppure sappiamo l’identità degli insetti, dei nematodi e di altri piccoli animali che mettono in movimento i raffinatissimi meccanismi dei cicli di energia e di sostanze materiali?”. 

Uscire dal vincolo del profitto

Gerardo Ceballos è Executive Director di STOP EXTINCTIONS, una iniziativa internazionale senza precedenti che coinvolge alcune delle menti più brillanti, come lo stesso Ceballos, tra coloro che stanno studiando l’estinzione in corso, l’Università di Stanford (dove insegnano Rodolfo Dirzo e Paul Ehrlich, entrambi Advisory del progetto) e GLOBAL CONSERVATION, l’unica organizzazione di protezione degli habitat la cui missione è finanziare direttamente i parchi nazionali World Heritage (“gli ultimi bastioni di difesa contro la decimazione della wildlife e delle foreste primarie”) nei Paesi più poveri del mondo.

Gli obiettivi: rendere accessibile un database di informazioni a fondamento delle decisioni da prendere per conservare habitat e specie; elaborare accordi vincolanti e altri su base volontaria per coinvolgere le nazioni a prendere una posizione seria sull’estinzione; risvegliare la coscienza collettiva su una minaccia esistenziale di proporzioni inimmaginabili. 

Le conseguenze sugli ecosistemi del globo della perdita di specie sono complesse, estese e diffuse. L’impatto dei fattori umani – ad esempio la crescita demografica, la distruzione degli habitat naturali, l’incremento dell’inquinamento, il cambiamento climatico, il bracconaggio e il commercio di animali selvatici – è stato catastrofico per migliaia di specie ovunque nel mondo”. 

Il principio di precauzione dovrebbe reggere ogni ragionamento sul futuro assetto di un accorgo globale. Ma, come già accaduto altrove, l’imposizione di un atteggiamento di tipo precauzionale si scontra con la tendenza a far quadrare il cerchio della protezione delle specie dentro logiche economiche.

Ossia: attribuire valore finanziario alle risorse organiche animate e inanimate, per mantenerle all’interno di processi socio-economici generatori di profitto. Su questo fronte siamo vicini ad un punto di rottura, esemplificato dalla difficoltà del dibattito attorno all’accordo post Aichi, ma anche dal tracollo degli introiti da turismo per la conservazione in Africa.

Il circolo di finanziamenti, royalties, investimenti non è in grado di reggersi da solo perché risponde alle stesse regole interne di qualunque business del tardo capitalismo. Sta in piedi solo con un flusso costante di denaro fresco. Possiamo affidare la sopravvivenza della biodiversità del Pianeta a questa dinamica offerta/acquisto?

Quali specie conservare?

Il 30 giugno NATURE ha pubblicato una editoriale a commento della proposta del target globale di 20 specie: “altre questioni includono come decidere quali specie conservare e chi dovrebbe fare queste scelte. Un singolo numero darebbe eguale peso a tutte le specie minacciate o dovrebbe invece avere la priorità le specie più importanti per il nostro sostentamento e per le funzioni ecosistemiche?”.

Quale istituzione politica dovrebbe cioè avere la responsabilità di scegliere tra la tigre e il leone? Un altro criterio altamente discutibile sarebbe il profitto che le specie iconiche garantiscono (attraverso i safari ad esempio) rispetto a specie molto meno famose, ma non meno funzionali.

Giungere con successo e saggezza ad un accordo globale, parzialmente vincolante, può non risolvere i problemi centrali del collasso biologico del Pianeta.

Un rischio è che, come accaduto per l’atmosfera e il clima a partire dal 1993, il concetto stesso di biosfera possa essere risucchiato nel circolo vizioso di un infinito processo negoziale che riduce la biodiversità a pura burocrazia.

In quasi 30 anni di vita della Convenzione per il Clima nulla di serio è stato intrapreso per definire la crisi climatica. Siamo davvero convinti che un modello del genere possa adesso funzionare per la biodiversità?

La sesta estinzione sta accelerando

La sesta estinzione sta accelerando. Questa è solo una delle evidenze impressionanti raccolte da uno studio di grande impatto appena uscito sulla PNAS (Vertebrates on the brink as indicators of biological annihilation and the sixth mass extinction).

“Se consideriamo una riduzione della loro area di diffusione storica per tutte le 515 specie di vertebrati sull’orlo dell’estinzione, allora le popolazioni di queste specie scomparse dal 1900 raggiungono la cifra sbalorditiva di 237.000”. La sesta estinzione sta accelerando. Questa è solo una delle evidenze impressionanti raccolte da uno studio di grande impatto appena uscito sulla PNAS (Vertebrates on the brink as indicators of biological annihilation and the sixth mass extinction).

Il paper segna un passaggio di livello nel tono e nella urgenza della ricerca sulla defaunazione, come già accadde nel 2014 con il paper pubblicato su SCIENCE firmato da Rodolfo Dirzo della Stanford. Stavolta gli autori gravitano attorno al gruppo di Dirzo, con cui collaborano da anni: Gerardo Ceballos, Paul R. Ehrlich e Peter H. Raven. Questo studio prende una posizione senza precedenti, anche politica direi, sulle misure indispensabili da adottare a livello globale per arginare un disastro già in parte definitivo. 

Non solo la sesta estinzione è reale, ma sta accelerando. Sono ormai ad un passo dall’abisso 515 specie di vertebrati. Sommate a quelle già scomparse da inizio Novecento, che sono 543, abbiamo un totale di specie perse per sempre di 1058. Secondo il tasso di estinzione degli ultimi 2 milioni di anni (il cosiddetto background extinction rate, e cioè il tasso normale, naturale di estinzione delle specie), avremmo dovuto assistere all’estinzione di 9 specie nei centocinquanta anni dal 1900 al 2050.

Invece, entro il 2050, in uno scenario ipotetico e in assenza di un radicale cambiamento nei nostri stili di vita, contempleremo un totale di 1058 perdite totali. Una ecatombe. La demografia umana e le attività umane sono la causa diretta di questo olocausto globale, cominciato 11mila anni fa, quando sulla Terra c’erano 1 milione di persone. Oggi siamo 7 miliardi e 800 milioni. I conti sono presto fatti. 

“L’estinzione nutre l’estinzione”

Ma il punto forte di questo studio è la spiegazione di come “l’estinzione nutre l’estinzione”.

L’estinzione di una sola specie innesca un effetto domino sistemico, sulle specie con cui ha condiviso il suo habitat, e sull’intero ecosistema. Questo processo di impoverimento a cascata funziona nel tempo, man mano che le popolazioni di una certa specie diventano sempre meno numerose e sempre più isolate geograficamente. E la loro distribuzione storica (lo home range) sempre più ristretto.

Meno individui significa anche un deterioramento delle funzioni ecologiche che la specie in estinzione può esprimere nei confronti di tutte le altre, animali e vegetali. Quando l’estinzione è ormai conclamata, non resta che attendere la scomparsa delle specie rimaste, ancora presenti, ma già coinvolte nella semplificazione ecologica e genetica del loro contesto ecologico. Ecco perché, stavolta, i ricercatori insistono sul valore di ogni singola popolazione.

Ragionare per popolazioni permette di capire meglio perché “è in corso un annichilamento biologico”.

“Quando una specie scompare, un ampio pacchetto di caratteristiche se ne va per sempre, dai geni alle interazioni tra fenotipi e ai comportamenti”, spiegano gli autori. “Ogni volta che una specie o una popolazione svaniscono, la capacità della Terra di mantenere i servizi ecosistemi, che dipende dalle specie o dalla popolazione coinvolta, ne risulta compromessa.

Ma ogni popolazione è unica e perciò diversa nella sua capacità di adattarsi con successo ad un particolare ecosistema e giocarvi il suo ruolo”. E questo significa che “gli effetti delle estinzioni peggioreranno nei decenni a venire, dal momento che la perdita di unità funzionali, le ridondanza genica (due geni svolgono la stessa funzione, nb) e la variabilità genetica e culturale modifica interi ecosistemi”. 

La sesta estinzione è insomma più veloce del previsto. Ma anche più profonda, un fenomeno in cui sono al lavoro sinergie complesse nella funzionalità stessa degli ecosistemi.

L’importanza delle popolazioni animali

Siamo abituati a concentrare la nostra attenzione sulle singole specie. In realtà la ricerca scientifica sta virando decisamente verso uno sguardo “per popolazioni”.

Perché, allora, ogni singola popolazione conta ? “Popolazioni più piccole diventano più isolate e quindi più vulnerabili all’estinzione per cause naturali (la consanguineità, eventi accidentali) e umane.

Quando il numero di individui di una popolazione o specie crolla ed è troppo basso, il suo contributo alle funzioni eco-sistemiche e ai servizi eco-sistemici diventa meno rilevante, la sua variabilità genetica e resilienza sono ridotte e quindi anche il contributo di quella specie al benessere degli esseri umani viene meno. Arrivata ad un certo punto, una popolazione può essere semplicemente troppo piccola o troppo priva di habitat per riuscire a riprodursi”. 

I ricercatori hanno analizzato le specie di vertebrati prive ormai della maggior parte del loro territorio geografico e ridotte a meno di 1000 individui, che è la soglia numerica sotto la quale gli animali entrano in Red List della IUCN con la targhetta “criticamente minacciato”.

È stato poi approntato un confronto con la distruzione storica di 48 specie di mammiferi e di 29 specie di uccelli, gli unici gruppi su cui sono disponibili sufficienti dati dal recente passato. Su 177 specie di grandi mammiferi (esempi emblematici i grandi felini) la maggior parte ha perso l’80% della distribuzione originaria. La maggior parte delle specie in estinzione appartengono al Sud America (157), seguono Oceania (108), Asia (106), Africa (82), Nord e Centro America (55) ed Europa (6). 

Zombi ecologici

L’annichilamento biologico del Pianeta è dunque il nostro contesto storico attuale.

Non bisogna farsi troppe illusioni neppure sui progetti di recupero numerico di specie ormai estirpate al 99%. Progetti che spesso ricevono una attenzione mediatica sproporzionata. La loro quasi estinzione ha compromesso per sempre intere porzioni di continenti, come dimostra il caso del bisonte americano: “il bisonte e molte altre specie con piccole popolazioni sono diventate ciò che Janzen chiamò zombi ecologici”.

Le grandi praterie americane sono un lontanissimo ricordo: oggi ci sono solo 4mila bisonti selvaggi, contro i 30-60 milioni della metà dell’Ottocento. 

Quello che è massimamente sconcertante è che la crisi biologica del nostro Pianeta non ha mai ricevuto la stessa attenzione, per quanto scarsa, di cui ha goduto il cambiamento climatico. Nè da parte dei governi, né da parte della società civile.

L’estinzione obbliga a confrontarci con la nostra identità evolutiva su una scala di responsabilità culturale, psicologica e genetica che difficilmente è presa in considerazione, anche dai media mainstream, impegnati a diffondere il claim pubblicitario che i parchi nazionali siano oasi indipendenti e sufficienti ad arginare il crollo degli ecosistemi globali. L’estinzione non è un fatto secondario del XXI secolo, ma una “minaccia esistenziale alla civiltà”. 

Qui, perciò, gli autori prendono una posizione politica ed etica che non ha precedenti e che riecheggia anche l’allarme globale sulla correlazione tra commercio di specie selvatiche e la pandemia di SarsCov2. Intanto, una constatazione fondamentale: “la popolazione mondiale in crescita, i tassi di consumo, in aumento, e la crescita prevista per il futuro possono solo accelerare la rapida scomparsa delle specie, facendo di ciò che è un corso d’acqua un torrente impetuoso – un problema di schietta sopravvivenza che soltanto gli esseri umani hanno il potere di alleviare”. 

E poi due proposte, fermissime. La prima: classificare come “criticamente minacciate” in Red List tutte le specie sotto i 5mila individui, e quindi, di riflesso, escluderle tutte dal commercio. La seconda: elevare la crisi di estinzione a emergenza mondiale e quindi inserire la conservazione delle specie in un accordo globale vincolante entro questo decennio. 

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Il Pianeta è entrato in una trasformazione irreversibile

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A dispetto delle stupefacenti immagini di animali che si lanciano in solitarie esplorazioni delle nostre città deserte, cresce il numero di studi scientifici a conferma del fatto che il nostro Pianeta è ormai entrato in una fase di trasformazione irreversibile. Il termine inglese è molto appropriato, perché spiega meglio di cosa parliamo: self-transformative. Gli effetti retroattivi e i meccanismi di feedback innescati dalle alterazioni sistemiche a biosfera ed atmosfera funzionano, per così dire, in autonomia. Ci muoviamo insomma su uno scenario che mostra già importanti indicatori di cambiamenti su scala biologica e climatica epocali. Ovunque nel mondo.

Un team di ricercatori della UCL di Londra ha lavorato sui depositi fossili di foraminiferi( i protozoi che formano il plancton e che fluttuano nelle acque oceaniche e quelli che vivono invece a stretto contatto con la superficie dei fondali), microrganismi molto sensibili alle variazioni delle temperature, a sud dell’Islanda. L’obiettivo era quindi capire, attraverso questi fossili, come è cambiato l’Atlantico nord orientale nel corso dei millenni.

I risultati sono impressionanti: “siamo riusciti a fornire la prima prova che nel ventesimo secolo la circolazione delle acque di superficie nell’oceano nell’Atlantico nord orientale è stata anomala rispetto agli ultimi 10mila anni. Questo cambiamento ha causato una sostituzione delle acque sub-polari fredde con acque sub-tropicali più calde, con conseguenze dirette sulla distribuzione dei microrganismi marini”.

Il brusco cambio di passo è registrato nei foraminiferi ormai fossili del secolo scorso.

L’impronunciabile Turborotalita quinqueloba, ad esempio, una specie appartenente al plancton che predilige le acque fredde, è stata la protagonista dei sedimenti oceanici di foraminiferi durante tutto l’Olocene, occupando fino al 40% dello spazio disponibile. Ma a partire da circa il 1750 la Turborotalita è crollata. E dall’inizio del Novecento hanno cominciato a stare sempre peggio anche i foraminiferi bentonici, quelli cioè che vivono direttamente sulla superficie dei fondali oceanici in questa porzioni di Atlantico.

“I trend del ventesimo secolo superano di gran lunga il tasso di variabilità osservato nelle registrazioni fossili di questo sito negli ultimi 10mila anni”, concludono gli autori, “la struttura spaziale di questi cambiamenti e ulteriori ricostruzioni della circolazione atlantica sublocare (la cosiddetta North Atlantic Sub Polar Gyre) suggeriscono un passaggio di livello nelle dinamiche oceaniche della regione del Nord Atlantico sull’intero bacino, avvenuto nel ventesimo secolo. Benché rimangano delle incertezze, noi suggeriamo che l’accresciuto ingresso di acqua dolce nella circolazione nord atlantica sia stata la probabile causa di questa alterazione”. 

I cambiamenti climatici agiscono come pressione selettiva sui gruppi di specie che occupano un certo ecosistema, ma lo fanno su scala differente rispetto alle normali pressioni ambientali. Quello che non è ancora chiaro è se eventi come enormi siccità, inondazioni e tempeste agiscano su una selezione di breve periodo, immediata, degli individui di una specie o se invece possano modificare interi gruppi di specie tra loro affini su spazi temporali e geografici estesi.

Questo campo di indagine incrocia la climatologia con la biologia evolutiva e quindi con un altro processo ecologico già in corso, di cui intravediamo soltanto i contorni: lo spostamento dei biomi verso latitudini più elevate a causa dell’innalzarsi delle temperature.

Un improvviso e devastante evento climatico può agire all’interno di una singola popolazione delle stessa specie. È quanto emerge da uno studio appena pubblicato sia su NATURE che sulla PNAS, che ha preso in considerazione gli uragani dell’area caraibica.

Secondo gli autori, gli uragani potrebbero essere un fattore di modificazione dei tratti fenotipici di una popolazione animale perché funzionano rapidamente come agente di selezione naturale. Lo studio, anche questo pionieristico, è stato condotto nel minuscolo arcipelago caraibico di Turks and Caicos, tra le Bahamas (a nord) e Haiti (a sud), su una specie comune di lucertola locale, la Anolis scriptus.

Queste isole sono state colpite di recente, nel 2017, da due uragani, Maria e Irma. Nelle sei settimane successive a questi shock estremi, i ricercatori hanno verificato che “le popolazioni di lucertole sopravvissute differivano nella misura del corpo, nella lunghezza relativa delle zampe e nella grandezza dei polpastrelli delle dita rispetto a quelle attive prima della tempesta”. I polpastrelli servono a queste lucertole per arrampicarsi e per tenersi alle rocce sotto lo sferzare dei venti.

La conclusione è che “gli uragani possono indurre un cambiamento fenotipico in una popolazione perché implicano una selezione naturale. Nei prossimi decenni, mentre gli eventi climatici estremi diventeranno più intensi e frequenti, la nostra comprensione di queste dinamiche evolutive deve essere integrata negli effetti di episodi potenzialmente capaci di una severa azione selettiva”. 

Scrivono sulla PNAS: “Abbiamo dimostrato un effetto trans-generazionale di selezione estrema sulla grandezza dei polpastrelli delle zampe per 2 popolazioni nel 2017. Data la brevità degli effetti imposti dagli uragani, ci siamo chiesti se le popolazioni e le specie che subivano più spesso gli uragani avessero polpastrelli più grandi. Abbiamo usato 70 anni di registrazioni storiche sugli uragani dimostrando che la misura dei polpastrelli è positivamente correlata alla attività degli uragani sia per le 12 popolazioni insulari di Anolis scriptus che per le 188 specie di Anolis nei Neo Tropici. Gli eventi climatici estremi si stanno intensificando e potrebbero essere dei fattori sottostimati di schemi bio-geografici di ampio raggio che coinvolgono la biodiversità”. 

Si allarga il traffico di specie selvatiche

White-rumped Shama - Credit Gabby Salazar
(Uno sciama groppabianca in vendita in un mercato di Yogyakarta, Java, Indonesia)

Si allarga il traffico di specie selvatiche. Il commercio di specie animali (per cibo di lusso, preparati della medicina tradizionale e animali da compagnia) rappresenta una delle cause più rilevanti di estinzione dei vertebrati su scala globale, ed è più ampio del previsto, avverte uno studio appena uscito su SCIENCE (Global Widlife Trade Across the Tree of Life, 4 October 2019).

Le stime complessive, elaborate sui dati disponibili per la IUCN e la Cites Red List, sono del 40-60% peggiori di quanto ci si aspettasse. Ogni anno, migliaia di piante ed animali selvatici vengono prelevati dai loro habitat per soddisfare una domanda di mercato definitiva dagli autori “insaziabile”.

Il traffico illegale fattura dagli 8 ai 21 miliardi di dollari annui ed è uno dei business più ramificati e redditizi del mondo. 

“Il commercio di specie selvatiche coinvolge, in media, il 18% dei vertebrati rimasti sulla Terra. Il nostro censimento mostra che 5579 delle 31.745 specie di vertebrati vengono messi in commercio, con una percentuale più altra tra gli uccelli (23% su 10.278 specie) e tra i mammiferi (27% di 5420 specie) rispetto invece a quanto accade ai rettili (12% di 9563 specie) e agli anfibi (9% di 6484 specie)”. 

Da un punto di vista geografico, la mappa del traffico riserva delle sorprese.

Da anni la preoccupazione dei ricercatori è concentrata sul sud est dell’Asia, ma ormai sono al centro del commercio anche il Sud America, l’Africa centrale e sud orientale, e addirittura l’Himalaya.

Bisogna considerare che stiamo parlando degli ultimi bacini particolarmente ricchi di biodiversità di questi continenti, soprattutto per quanto riguarda gli uccelli. Le Ande, ad esempio, per via di ciò che rimane della foresta Atlantica. O gli anfibi in Amazonia.

L’Africa, invece, e il Madagascar e pure l’Australia esportano maggiormente mammiferi catturati illegalmente.

Lo studio, tuttavia, riesce a gettare luce su un aspetto ancora più importante di questo tipo di traffico, di cui si parla troppo poco: “le specie emblematiche (ndr, come il rinoceronte o i grandi felini, o il pangolino) rappresentano solo una piccola, benché ben pubblicizzata, parte del commercio di specie animali.

Se cambiano le preferenze culturali, il traffico di wildlife può molto rapidamente condurre una specie sino all’estinzione”. Questo avviene perché il mercato risponde al capriccio della moda e nessuna specie è davvero al sicuro.

I flussi di denaro, e quindi la cattura, si spostano a seconda dei gusti dominanti, con un effetto di espansione della minaccia incontrollabile. Un esempio di tutto questo è la crescente richiesta del “casco” osseo simile all’avorio del bucero dall’elmo (Rhinoplax vigil), un uccello endemico della Malesia e dell’Indonesia.

A partire dal 2012 ne sono finiti in vendita decina di migliaia e ora la specie è criticamente minacciata. In pratica, commercializzata fino all’estinzione. 

Dati recenti sugli anfibi e i rettili esportati illegalmente dal Sudafrica sono altrettanto scoraggianti.

Il fatto che gli esseri umani non si facciano scrupoli nello sfruttare le specie eccentriche o particolari per i gusti di compratori benestanti delle megalopoli urbane del Pianeta ha però delle conseguenze macro-evolutive.

In pratica, il commercio illegale di animali selvatici ha un impatto diretto sul futuro di intere famiglie animali, perché il prelievo funziona come una potatura selettiva dell’albero della vita. Quando una specie è esaurita, si passa tranquillamente ad una delle stessa famiglia, o dello stesso genere, con caratteristiche affini per il piumaggio, il pelo, il canto. Si insiste cioè sulla “prossimità evolutiva” delle specie, che, essendo simili da un punto di vista biologico, possono rimpiazzare senza troppe difficoltà i parenti già estinti. 

Java Sparrow - Credit Gabby Salazar
(Passeri di Java in vendita nel mercato di uccelli canori di Purwokerto, Java, Indonesia)

“A dispetto di uno sfruttamento molto vasto, gli esseri umani tendono a focalizzarsi su specifici individui dell’albero della vita, che possono essere indicati come significativi indicatori filogenetici nel commercio di animali selvatici attraverso tutti gli ordini (taxa).

La mancanza di un prelievo casuale nel traffico illegale, sull’intero albero della vita animale, implica una particolare sensibilità per alcuni clade selezionati (ndr, un clade è un gruppo di specie con caratteristiche simili)”, aggiungono gli autori.

“Abbiamo verificato che le specie con una grande massa corporea sono più commercializzate di quelle più piccole (…) e che quindi la probabilità di finire nella rete del commercio è positivamente correlata alla taglia dell’animale”.

Ma soprattutto, bisogna tenere presente che “nel corso dei millenni, le società umane primitive hanno sempre insistito sulle specie molto grandi cacciando per la propria sussistenza, un comportamento che ha modificato gli schemi bio-geografici che osserviamo oggi nella stazza dei grandi animali del Pianeta.

La nostra analisi mostra che questo schema continua ancora oggi, con gli umani moderni, grazie al commercio di specie selvatiche”. Questo significa che in Antropocene valgono ancora i modi di sfruttamento delle faune del Pianeta che, nel Pleistocene, hanno annientato la megafauna.

Su di una piano strettamente ecologico, il carattere da super-predatore di Homo sapiens continua dunque ad esprimersi secondo modelli economici consolidati, sia nella Preistoria che nella storia propriamente detta. È il paradigma di estinzione, che corrisponde ad un paradigma di espansione delle attività umane, culturali ed economiche. 

Il riconoscimento dei tratti somatici maggiormente ricercati permette di avanzare ipotesi attendibili sul rischio di commercializzazione di specie finora al sicuro: “Abbiamo identificato tra le 303 e le 3152 specie a rischio in conseguenza della loro similarità filogenetica con i loro conspecifici già sul mercato (….) Considerata la massa corporea, sono già a rischio tra le 11 e le 35 specie di mammiferi”. 

David P. Edwards, docente di Conservation Science alla University of Sheffield, Regno Unito, tra gli autori dello studio, sulle implicazioni che tutto questo ha sulla conservazione delle specie in un prossimo futuro: “Il commercio di specie selvatiche è uno dei maggiori driver della attuale crisi di estinzione, in tutto il mondo, e può rapidamente spostare una specie da una condizione di minaccia molto piccola ad un rischio di estinzione reale.

Ad esempio, il verdino grande (ndr, un magnifico uccello verde smeraldo) era considerato con ‘minima preoccupazione’ dalla IUCN nel 2012, fino a quando questa specie vinse il concorso per uccelli canori President’s Cup in Indonesia.

É stato inserito nella lista dei ‘minacciati’ sette anni dopo. Abbiamo bisogno di una più marcata attenzione sul commercio delle specie selvatiche all’interno della revisione degli Obiettivi di Aichi. Questo dovrebbe includere finanziamenti da parte dei governi per rafforzare il monitoraggio del commercio effettuato dalla IUCN, in modo da identificare i rischi più rapidamente.

Ovvio, servirebbero molte più risorse per affrontare il commercio nei suoi vari aspetti, man mano che emergono, e per avere una comprensione più profonda di come potrebbe essere un prelievo sostenibile e legale. Sul modello, ad esempio, delle quote di pesca in Europa o delle quote di permesso di caccia sull’alce e l’orso negli Stati Uniti”. 

(Photo Credits: Brett Scheffers, Department of Wildlife Ecology and Conservation, University of Florida, tra gli autori dello studio).

Riapre la Fossil Hall dello Smithsonian

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Riapre la Fossil Hall dello Smithsonian. Dopo un vasto lavoro di riallestimento, durato 4 anni il pubblico potrà di nuovo visitare il grande salone dei fossili di una delle più prestigiose istituzioni scientifiche del mondo e di Washington.

La nuova “Fossil hall” ospita ora 700 reperti fossili: dinosauri, mammiferi, rettili e insetti, ossia 3.7 milioni di anni di storia del Pianeta. Lo Smithsonian ha infatti deciso di dare una impronta contemporanea alla Fossil Hall, scegliendo come filo conduttore del racconto paleontologico “le connessioni tra ecosistemi, clima, forze geologiche ed evoluzione, per incoraggiare i visitatori a comprendere che le scelte che compiamo oggi avranno un impatto sul futuro”. 

Deep time, tempo profondo, è infatti il titolo del rinnovato allestimento: “il passato della Terra ha dato forma al presente e plasmerà il futuro”. 

Il tempo profondo, in paleontologia, è la enormità del tempo che ci siamo lasciati alle spalle: i 4 miliardi di anni di vita del Pianeta, lungo i quali l’evoluzione ha dato origine al susseguirsi delle specie animali e vegetali. Il tempo profondo è quindi il passato che ognuno di noi ha in comune, come eredità culturale e biologica, con il Pianeta, le sue faune e i suoi ecosistemi.

Nel pieno della crisi di estinzione, un linguaggio espositivo come quello dello Smithsonian è anche una scelta politica. Proporre cioè al pubblico una visione scientifica rigorosa del paleo-passato, non hollywoodiana, e ben ancorata al nostro presente in Antropocene. Dinosauri ed esseri umani si incontrano in una visione complessiva dell’evento biologico, laica, e con profonde implicazioni filosofiche. 

Una delle caratteristiche dell’Antropocene è infatti l’alterazione del rapporto che abbiamo con il passato e con il futuro. Abbiamo “consumato” il nostro paleo-passato sotto forma di combustibili fossili, prendendo però così in ostaggio anche il futuro delle altre specie e delle prossime generazioni.

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“La fossil hall è una cronaca circolare dell’intera storia della vita sulla Terra e mostra le origini e l’evoluzione delle piante e degli animali, ricrea mondi antichi e getta luce su esempi passati di cambiamenti climatici ed estinzioni. Nella Warner Age of Humans Gallery i visitatori possono apprendere le migliaia di modi in cui gli esseri umani stanno causando cambiamenti rapidi, e senza precedenti, al Pianeta”.

Deep Time conduce dentro il collasso del Pianeta, nella cronaca quotidiana dei cambiamenti climatici e della sesta estinzione: “la prospettiva temporale fornisce un contesto al mondo odierno e aiuta a costruire previsioni sul corso che la specie umana e la vita nel suo complesso prenderanno in futuro”.

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La riflessione sul tempo non è cioè pura speculazione scientifica. Contiene un atteggiamento maturo sul significato della comparsa della nostra specie circa 100mila anni fa: “La vita nella sua interezza è fatta di connessioni: il passato, il presente e il futuro e la Terra stessa.

L’evoluzione modifica continuamente la vita attraverso lo scorrere del tempo, e gli ecosistemi si trasformano nel tempo, e continueranno a farlo”.

Questo significa che, attraverso gli scheletri dei grandi dinosauri, è possibile vedere, come in controluce, che nulla è dato per sempre e che la condizione attuale dell’umanità possiede una intrinseca ragione evolutiva, ecologica e geologica.

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La questione climatica è uno degli assist di Deep Time: “i visitatori esploreranno le prove fossili di come era il clima in epoche antiche e di come cambiò, incluso un evento di rapidissimo surriscaldamento che si verificò 56 milioni di anni fa, conosciuto come Massimo Termico del Paleocene-Eocene ( il PETM).

La mostra mette l’accento sul fatto che l’attuale cambiamento climatico è diverso dal PETM e da altri eventi analoghi del passato, perché oggi il clima cambia a causa delle attività umane, e ad una velocità allarmante, molto più rapida del PETM.

I visitatori potranno quindi passare attraverso la storia climatica più remota della Terra, e seguire due ipotesi sul nostro futuro climatico: ciò che accadrà a livello globale sarà determinato dalle scelte delle persone, come individui singoli, e come collettività”. 

Con Deep Time lo Smithsonian passa un messaggio radicale sul perché andare in un museo di storia naturale sia indispensabile nell’Era dell’Estinzione. Un museo di storia naturale smonta il pregiudizio che Homo sapiens sia completamente autonomo nelle sue imprese. Le forze geologiche che hanno modificato il Pianeta hanno sbozzato anche il suo stesso destino.

In un museo di storia naturale siamo messi faccia a faccia con il problema, rimosso nelle società opulente, della vita e della morte, del sentimento di onnipotenza e di autarchia culturale che sembra aver preso il sopravvento nella concezione umana delle cose e degli enti.

Ebbene sì: riflettere sul tempo, quanto ne abbiamo dietro di noi, e quanto ce ne resta davanti, è un atto politico su cui paleontologia e filosofia trovano un incredibile punto di conversazione. 

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