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Europa: il nostro continente ha deciso il destino del Pianeta tra XV e XIX secolo, combinando genocidio, ecocidio e colonialismo. Per comprendere la sesta estinzione di massa dobbiamo rileggere la storia dell’Europa. La civiltà occidentale è stata la protagonista della conquista moderna del mondo: esplorazioni oceaniche, avvio del capitalismo, estrazione di risorse naturali su base industriale.

Imponendo il proprio dominio, l’Europa ha anche sviluppato categorie del pensiero e della cultura che hanno plasmato la società umana moderna, e funzionano ancora oggi: progresso, crescita economica, sviluppo, catalogazione degli esseri viventi in tassonomie scientifiche ed ideologiche.

La storia della civiltà europea è intrecciata con un uso spregiudicato degli esseri viventi, animali e popoli. Ma proprio perché si espanse grazie ad uno spirito di avventura senza precedenti, questa storia coincide con un carattere. Un mindset, un modo di intendere la vita e il mondo.

Per inglobare tutto, gli Europei pensarono da Europei. Ecocidio e colonialismo. Combinati in modo deliberato.

Oggi paghiamo il prezzo di questa cultura. L’Europa è responsabile del 29% delle emissioni serra in eccesso rispetto ai limiti del Pianeta (le 290 ppm di CO2 presenti in atmosfera prima dell’inizio dell’Era Industriale). L’effetto collaterale delle sue imprese lungo 5 secoli. Questa è l’Europa tra genocidio ed ecocidio.

Scoprire il carattere europeo vuol dire diventare consapevoli di come l’estinzione delle specie animali sia intrecciata con l’esistenza che oggi chiamiamo con orgoglio “moderna”.

Conquistadores Adventum: “il genio di Ojeda”

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Le discussioni sulla identità storica europea sono oggi roventi. Non c’entra solo la politica, in questo conflitto tra l’idea di nazione, il futuro di decisioni urgenti che per forza di cose dovremo prendere in modo condiviso su problemi globali, come i cambiamenti climatici, e la generale percezione che molto di ciò che abbiamo ereditato si stia atrofizzando. La civiltà occidentale si trova ormai a dover pagare il conto di uno schema di espansione antico di cinque secoli. Conquistadores Adventum: “il genio di Ojeda” è la seconda parte della intervista in esclusiva a Israel Del Santo, il regista del docufilm evento prodotto dalla Movistar.

Con Conquistadores Adventum, Del Santo è riuscito a raccontare i caratteri fondamentali, archetipici, degli europei di inizio Cinquecento. Questi uomini furono, realmente, i fondatori non solo dell’Europa moderna, e del suo schema di espansione, ma anche della intrinseca attitudine europea a dare forma al mondo intero.

Ecco la seconda parte della nostra conversazione. 

Genocidi ed appropriazione di territori ancora vergini. Conquistadores rende ogni passaggio a tinte grigie, e non bianche o nere. Qui non c’è nessuna traccia di propaganda, in un senso o nell’altro. Concordi?

Sono molto chiaro su questo punto: Conquistadores è ben lungi dall’essere propaganda, e non sai come apprezzo che in Italia tu la veda così. Molti in Spagna, nostalgici per un impero idealizzato (come tutti gli imperi), considerano Conquistadores una serie anti-patriottica che osa parlare male di quei gloriosi conquistatori spagnoli che hanno conquistato il mondo.

Tutto ciò che questi uomini ‘hanno fatto di sbagliato’, lo considerano parte della ‘leggenda nera anti-spagnola’ e tutto ciò che invece  ‘hanno fatto bene’, viene celebrato come parte della ‘leggenda rosa spagnola’. Ma né la leggenda nera era così scura, né la leggenda rosa era così rosa. È a metà che sta Conquistadores.

Conquistadores non è anti-spagnolo, infatti non è contro nulla. Anzi, noi non pensiamo nemmeno che fosse la Spagna la protagonista di quel periodo storico. La Spagna, come la conosciamo ora, non esisteva neppure. Appena esisteva il regno di Castiglia. Su quelle navi viaggiavano uomini dalle molte origini. Magellano era portoghese, Colombo genovese, Pigafetta fiorentino. Le barche si nutrivano, per così dire, di marinai portoghesi e persino di norvegesi ! I giudizi sul male e sul bene non mi interessano. Spettano allo spettatore. 

Come in tutte le storie in cui è l’essere umano il protagonista, c’erano i buoni, i cattivi, i meschini, i nobili di cuore, i codardi, i brutti e i belli. Credere che tutti i conquistatori fossero gentiluomini di bell’aspetto che pensavano solo a costruire università nel Nuovo Mondo è, a dire il meno, un modo di pensare infantile.

La realtà è che questi uomini non erano una ONG. E molti diranno: la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo non esisteva ancora. Certo che no, non esisteva ancora. Ma c’era il ‘Non uccidere’ e il ‘Non rubare’, e quegli uomini, se leggevano qualcosa, leggevano la Bibbia. 

E a proposito della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, basta un’occhiata alla volontà testamentaria della regina Isabella di Castilla per rendersi conto che in questa conquista c’era anche preoccupazione per gli uomini e le donne che vivevano in quelle terre appena scoperte: ‘Ordino che siano trattati come esseri liberi, come fratelli’. Questo è il testamento lasciato dalla regina.

Credere che tutti i conquistatori si attenessero a questo ordine, fa parte, ancora una volta, di un pensiero infantile, capriccioso e partigiano.

Durante lo sviluppo della sceneggiatura e nella raccolta della documentazione, abbiamo sempre mantenuto una premessa: la Spagna di Franco è la stessa di quella di Federico Garcia Lorca, così come la Spagna della conquista è quella di Pizarro, di Pedrarias, di Fray Bartolomé de las Casas e della regina Isabella. 

Magellano è un titano. Il suo carattere è oscuro, forte e ambiguo. Ma comunque titanico. Magellano ha mostrato come noi Europei abbiamo imparato ad essere grandi. Osò navigare nell’Oceano Pacifico. Gli esseri umani devono per forza non avere scrupoli per essere capaci di simili imprese?


Un uomo molto imprudente. Se qualcuno avesse avvertito la spedizione di Magellano del freddo che avrebbero sofferto per mesi sulla costa della Patagonia, pur di raggiungere le terre delle spezie tanto agognate, se lui avesse compreso in anticipo che quel mare completamente nuovo così a sud sembrava tranquillo, ma non lo era affatto, e non si poteva quindi attraversarlo in due settimane, ci volevano mesi …

Se gli avessero detto che per sopravvivere sarebbero stati costretti a mangiare segatura e cuoio bollito … Se Magellano avesse intuito che solo 11 di quei marinai sarebbero riusciti a tornare a casa, ormai senza denti…non sarebbe mai partito.

È stata la capacità di questi uomini di affrontare l’ignoto a renderli esseri giganteschi.

Magellano ed Elcano non hanno battuto il guinness dei primati. Infatti, non furono semplicemente i primi a circumnavigare la terra, a fare il giro del mondo. Furono molto di più.

La loro impresa, senza che neppure lo sospettassero, era la prova definitiva che il nostro Pianeta era davvero una sfera. Ma dimostrarono anche che tutti i mari sono interconnessi, e che quindi possono essere navigati.

Hanno aperto la porta e gli occhi ad una umanità desiderosa di sapere quanto lontano potesse spingersi. Hanno verificato che tutte le mappe erano sbagliate, perché la maggior parte del nostro Pianeta è blu, essendo i suoi mari giganteschi.

E soprattutto, che, proprio per queste ragioni, tutti gli abitanti del globo potevano comunicare attraverso gli oceani. L’idea stessa di globalizzazione è stata creata in quei gusci di noce delle navi di Magellano. 

E tutto questo grazie ad una squadra che, benché portasse bandiera spagnola, sembrava piuttosto una commissione delle Nazioni Unite: il capitano portoghese, il cronista italiano, l’equipaggio spagnolo, norvegese, francese e persino uno schiavo della Malesia che si rivelò essere il primo essere umano ad andare in giro per il mondo.

Penso che dipenda da lui se questo viaggio mantiene ancora oggi un record. E non sorprende che, non essendo un europeo, non fosse il suo nome a finire scritto nei libri di Storia con lettere dorate. La Storia è sempre stata molto classista. 

Magellano, interpretato brillantemente da Denis Gómez, era un uomo oscuro, un capitano che non impartisce mai ordini direttamente ai suoi marinai. Una personalità di ferro capace di sostenere ogni tipo di disgrazia a vantaggio dell’impresa e del bene dei suoi uomini.

Elcano deve essere stato un velista straordinario e del resto senza Pigafetta, il cronista della spedizione, nessuno avrebbe saputo assolutamente nulla, perché senza i suoi scritti non avremmo ricordato nessuno di questi uomini. 

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L’ignoto non è solo la geografia del nuovo mondo, nel tuo film, ma anche la verità più intima dell’animo umano. Noi stessi sembriamo emergere da un oceano di spinte emotive sconosciute e da passioni che hanno finito con il dar forma al mondo intero. Era tua intenzione far uscire questi aspetti?


Pigafetta scrisse nel suo diario di bordo: ‘Nessuno negli anni a venire si avventurerà a navigare in questi mari’. Vale a dire, non avevano la visione globale di quelli che sarebbero venuti dopo le loro scoperte.

Non potevano averlo. Miguel Diaz de Espada, co-sceneggiatore di Conquistadores insieme a me, ci ripeteva in continuazione queste domande: che cosa ha portato questi uomini a intraprendere spedizioni di questo tipo? Quali sentimenti si portarono dietro dall’altra parte del globo?

È meraviglioso scoprire che ognuno di loro aveva motivazioni molto diverse.

Pigaffetta era quasi il primo turista nella storia, visto che si era imbarcato con Magellano per fame di avventure e per imparare cose nuove. Elcano era sommerso dai debiti in Spagna. Magellano ha voluto dimostrare che era in grado di trovare la rotta per la Cina.

Pizarro sognava di conquistare un impero. Cabeza de Vaca voleva tornare indietro vivo. Cortés era già considerato uno di quei cavalieri dei libri che ebbero così tanto successo in Europa.

C’è solo una cosa su cui tutti sono d’accordo: verso l’Occidente, verso l’ignoto, c’è qualcosa di meglio, più grande e più dorato del luogo da cui provengono. Pochissimi morirono conoscendo l’importanza della loro impresa. Probabilmente nessuno.

In Balboa vediamo fino a che punto il coraggio possa essere ambiguo. Era un criminale, ma anche un uomo libero, un esploratore, un blend di libido e guerra. La parte tenebrosa del carattere luminoso di un esploratore. Parlami di lui e della prima storia d’amore del Nuovo Mondo.


Balboa è un meraviglioso esempio di come è stata la conquista e degli uomini che l’hanno edificata, e sicuramente è morto senza immaginare che anche oggi avremmo parlato di lui. Quando lascia casa sua, non ha in mano niente, neppure un cognome, perché Balboa è un cognome che si dà e si prende, era il nome di un castello vicino alla città dell’Estremadura dove era cresciuto.

Un altro soldato, uno dei tanti fan del vino che si gioca a dadi quel poco che sta vincendo. Uno dei tanti che arrivano in Spagna ingannati con le storie del Nuovo Mondo. Tutti sognano che nel mezzo di quelle giungle ci sia un tesoro con il proprio nome scritto in lettere d’oro.

Ma Balboa non è disposto a tornare a mani vuote. Non c’è nulla che incoraggia un avventuriero più della triste prospettiva di tornare a casa sullo stesso percorso e con gli stessi vestiti con cui ha era partito; quindi, senza nulla da perdere, Balboa è in grado di iniziare come clandestino e finire come capitano. 

Sfortunatamente, non è abbastanza, e non c’è un buon spagnolo che gli possa perdonare tale impudenza: si nasce capitano, non lo si diventa. Anche se Balboa dimostra che non è affatto così.

Balboa dimostra come in questa conquista, quando la corona sta progettando qualcosa, niente funziona, ma se invece 40 spagnoli con poco da perdere e una grande dose di coraggio, sicuramente ‘con cojones, si mettono insieme, be’ sono capaci di qualunque cosa.

La scoperta del Pacifico non è un’importante pietra miliare storica per la Spagna, è qualcosa che riguarda tutta l’umanità. In quei primi 30 anni dopo la scoperta, l’essere umano scopre, grazie a un gruppo di miserabili come Balboa, com’è fatto il mondo su cui abita. 

Che il mondo è rotondo, che è molto più grande di quanto avresti immaginato, che è abitato da più popoli e razze che non avresti nemmeno osato nominare. Balboa scopre il più grande oceano del nostro pianeta! 60.000 anni di evoluzione dell’essere umano e tutto questo viene scoperto in soli 30 anni.

Questa è, per me, la grandezza di queste azioni. Non è un disco volante, né solo un eroe spagnolo, è ‘un grande passo per l’umanità’. Una volta ho chiesto al mio carissimo amico lo scrittore William Ospina, che ammiro molto, se possiamo confrontare la scoperta dell’America con il momento in cui forse cammineremo su Marte per la prima volta. Mi ha risposto: sì, se scoprissimo che Marte è abitato. 

Anauyansi, la donna di Balboa, che bellezza di attrice, vero? C’erano molte Anauyansi nella vita di Balboa, temo che non fosse la prima né l’ultima. Ma in Conquistadores abbiamo voluto insistere in modo molto chiaro su un punto che distingue gli spagnoli dal resto dei colonizzatori europei.

I britannici, i belgi, i francesi, gli italiani, tutti protagonisti di grandi conquiste, uomini di potere, ma nessuno è stato con le persone che abitavano quei nuovi mondi. Certo, gli spagnoli furono lenti nello stringere relazioni sessuali con le popolazioni native, così come tardarono a scendere dalla nave.

Anauyansi è una leggenda, una bella storia basata però su una realtà concreta, e cioè che in quel momento nacque una nuova razza da due fiumi molto diversi. Non è successo in India, o in Congo, o in Sudan o in Eritrea, o negli Stati Uniti o in Australia, o in Mali o in Angola. Invece, in tutta l’America Latina c’erano molti Balboa e molte Anauyansi.

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Che cosa possiamo imparare da questi uomini superbi, enormi in ogni aspetto della loro vita?


Posso dirti cosa abbiamo imparato noi: immagina una serie sui conquistatori, convinci i direttori delle aziende a fidarsi della tua idea, raccogli i soldi per tirare fuori l’opera. Tutto mi sembrava un’impresa enorme come quella di Colombo, Pizarro o Magellano, quando non avevano né barche né uomini per prendere il mare.

È inevitabile arrivare a porsi le stesse domande: ma per cosa? Sei veramente disposto a soffrire ciò che devi subire? Ne varrà la pena? Anche se alla fine del viaggio ti viene tagliata la testa? La risposta per noi è stata facile: se loro non si sono tirati indietro, non ci tireremo indietro neppure noi.

Pedro de Alvarado, un uomo che spero tu possa incontrare nella seconda stagione, è morto nel bel mezzo di una battaglia schiacciato dal suo stesso cavallo. Quando i suoi uomini andarono ad aiutarlo, uno di loro gli chiese: Signore, cosa fa male? E lui rispose: L’anima .. La mia anima fa male.


Ojeda è un uomo ancora più contemporaneo. Nel modo in cui lo hai raccontato, anticipa addirittura il Faust di Goethe nelle sue attitudini di uomo completamente moderno. Avidità e fame di ciò che è radicalmente nuovo. Cosa pensi di lui?


È il mio personaggio preferito, penso di non poterlo nascondere, ed è stato anche scritto apposta per quell’attore, Roberto Bonacini. Un vero mostro. Ojeda è quel personaggio dimenticato dalla Storia che quando lo trovi pensi che sia stato nascosto in attesa che tu lo trovi.

Nessuno si ricordava di lui, neppure gli storici erano in grado di dirmi più di due frasi su quell’uomo .. Ma la sua storia è enorme.

Quando abbiamo provato a vendere questo progetto alla televisione, ricordo che lo portavo sempre ad esempio. Non solo era presente durante la conquista di Granada, ma dicono che da solo si introdusse in una fortezza musulmana, aprendo le porte, in modo che il resto del suo esercito potesse prendere il forte. Non contento di ciò, prima di aprire la porta, si inchinò ai suoi difensori !

Andò in America come capitano, per ordine espresso della regina, accompagnando Colombo, catturò Caonabo, un indiano coraggioso, in un modo disgustoso, come si suol dire, dandogli dei braccialetti che si rivelarono essere catene.

Nel suo successivo viaggio verso terre sconosciute aveva a bordo un tale Amerigo Vespucci e un tale Francisco Pizarro! Mandò in rovina tutte le sue missioni sulla terraferma, il suo carattere era così disastroso che Juan de la Cosa morì a causa sua.

Ojeda affrontò anche il primo pirata dei Caraibi, molto prima, secoli prima di Jack Sparrow .. Non c’è personaggio come lui nella Storia, te lo giuro, se Ojeda fosse stato inglese, avremmo già visto più di 200 film su di lui.

La sua catarsi con gli indiani … La sua morte, da solo, sepolto a faccia in su, con la bocca aperta, per pagare i suoi peccati per l’eternità .. Ojeda è un tesoro troppo ricco per un singolo sceneggiatore. E sì, hai ragione, non è il cavaliere errante del Medioevo, è il meraviglioso ladro che ammiriamo tanto ai nostri tempi.

Come possiamo confrontarci, oggi, con i conquistatori di quei 30 anni?

È quasi impossibile confrontare la scala di valori di uno di quegli uomini con la scala di valori degli uomini e delle donne di oggi. Penso che ciò che ammiriamo di più in loro coincida con ciò che meno capiamo. Coraggio, onore, gloria.

Sono le parole più sacre per un conquistatore del XVI secolo, sono motivi per morire. Ma se a qualcuno di noi fosse chiesto di stilare un elenco dei 10 valori che riteniamo più importanti nella vita, nessuno di noi metterebbe in elenco questi tre.

E, naturalmente, non moriremmo per qualcosa di così insignificante. Loro, con tutte le loro contraddizioni, avevano qualcosa che abbiamo perso molto tempo fa: un motivo per morire.

Conquistadores Adventum scava nel midollo della civiltà

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Per comprendere come siamo arrivati al punto in cui si trova oggi la civiltà è indispensabile andare a scavare fin nel buio dell’attitudine umana alla conquista. È quello che è riuscito a fare Israel Del Santo, il poliedrico regista spagnolo che ha diretto lo sceneggiato Conquistadores Adventum (trasmesso da Rai Storia ), una epica di otto puntate sui primi trenta anni della scoperta del Nuovo Mondo. Conquistadores Adventum scava nel midollo della civiltà.

Conquistadores racconta questa storia – al centro di numerosi revisionismi, anche in conseguenza della crescente consapevolezza di vivere in una epoca di estinzione di massa – come nessuno prima aveva mai avuto il coraggio di raccontarla.

La conquista spagnola delle Americhe appartiene al disagio della civiltà. Anzi, mostra addirittura che l’inquietudine dell’espansione geografica, psicologica e coloniale è a tal punto inscritta nei nostri geni che ogni giudizio morale appare sempre, purtroppo, un inutile orpello post eventum.

È questo il dramma della nostra specie. Tragedia ed eroismo, in queste otto puntate strepitose, compongono un unico carattere umano, dinanzi al quale diventa molto difficile non fremere di ammirazione e di orrore.

In quanto esseri umani, che ci piaccia o no, siamo tutti molto simili ai Conquistadores. Ne ho parlato con Israel Del Santo – cineasta generoso e di gran spirito – in una lunga intervista in esclusiva per l’Italia. 

Dove avete girato in Sud America?
Le riprese di Conquistadores sono state un’esperienza davvero impressionante per tutti noi che ne abbiamo fatto parte. Non è stato, per niente, un lavoro cinematografico tradizionale. In nessun momento abbiamo considerato la possibilità di filmare la conquista in un luogo diverso dalla giungla.

Gran parte di questa squadra veniva dal mondo del documentario e aveva avuto la fortuna di trascorrere molto tempo in luoghi meravigliosi come la foresta pluviale amazzonica. Volevamo sfruttare la nostra esperienza girando in luoghi estremi e mettendo alla prova la nostra conoscenza delle tribù che li abitano, per creare questa fiction.

Abbiamo costruito un campo nel mezzo della giungla, un luogo lontano dalla civiltà, senza internet o telefono, e lì abbiamo vissuto per mesi, noi, una troupe cinematografica,  insieme a  indiani, cavalli, cani da guerra, spagnoli con la barba … Cioè, qualcosa non molto lontano da quello che avrebbe dovuto essere un campo spagnolo nel sedicesimo secolo.

Amazonasfilmcamp, come lo abbiamo ribattezzato noi. Un luogo che invito tutti a conoscere. Tutto nella serie è reale. Le barche sono repliche esatte delle caravelle usate da quei marinai (grazie alla Nao Victoria Foundation); gli indiani, sono indiani parlano ancora le loro lingue, ed hanno pochi contatti con gli estranei.

I castelli e le chiese sono fatti di pietra, i villaggi di canne, i fiumi sono fiumi, la giungla è la giungla e la Patagonia è la Patagonia. Abbiamo girato nel sud dell’Argentina, in Patagonia, nel sud della Spagna, a Palos de la Frontera, in Estremadura da cui provengono quasi tutti i conquistatori, nel nord della Spagna, in Cantabria, Navarra e Aragona.

Avevamo la giungla, avevamo barche dell’epoca e la Spagna è piena di castelli e chiese del sedicesimo secolo. Non ci restava che cominciare a girare!

Uno degli aspetti notevoli di Conquistadores sono i suoi attori. Sembrano usciti da ritratti di Velasquez e in generale dalla pittura spagnola del Cinquecento. Avete fatto un casting considerando la bellezza specifica e la presenza fisica degli uomini spagnoli di quell’epoca?
Conquistadores non è una serie fatta di attori, ma una serie fatta di personaggi. Non stavamo cercando grandi nomi, stavamo cercando esattamente Pizarro, Balboa, Cristoforo Colombo. Perciò abbiamo fatto un casting lungo un anno, che ha esaminato più di 500 persone di nazionalità molto diverse, non solo spagnoli.

José Sisenando, Francisco Pizarro, per esempio, non è un attore. O non lo è stato fino a Conquistadores. Lavora in una fabbrica. Ma non c’è nessuno che possa reincarnare Pizarro come lui. Durante le riprese, tutti gli attori si sono presi cura dei propri vestiti, hanno pulito la pelle dei loro mantelli e protetto le loro armi in modo che non arrugginissero. Hanno dovuto lottare contro le zanzare come il resto dei membri del team, e come sicuramente fecero Colombo, Cortés o Magellano.

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Tutti gli attori si sono lasciati crescere i capelli e la barba per un anno intero prima di dar vita ai loro personaggi. Il sudore che impregnava le loro camice, le croste sulla pelle, tutto ciò che succede quando si passa troppo tempo su una barca o nel mezzo della giungla.

Abbiamo cambiato l’iconografia e l’immagine che gli spagnoli avevano dei conquistatori. Se nel gennaio del 1492 uomini barbuti e vestiti con il metallo di una armatura di 30 chili prendono la città di Granada, come è possibile che solo sei mesi dopo, quando le tre caravelle di Colombo raggiungono il Nuovo Mondo, questi stessi uomini sono ben rasati, con capelli e vestiti ben curati più tipici del Rinascimento che della fine del Medioevo?

No, la moda non è cambiata così velocemente, soprattutto considerando il fatto che gran parte degli scopritori e dei conquistatori furono esattamente gli stessi che avevano preso Granada: Colón, Ponce de León, Ojeda, Pedrarias Dávila. 

Vi siete avvalsi della consulenza di etnografi esperti ?

Sono molto contento del lavoro che abbiamo svolto con le popolazioni indigene che hanno partecipato alla serie: Tucano, Ticuna, Sateré Mawé, Apuriná. Tutti si esprimono nella loro lingua, provando così che questi idiomi ancora oggi appartengono agli stessi alberi linguistici dei dialetti parlati un tempo dalle tribù menzionate dai conquistatori nelle loro cronache.

Il loro aspetto, le decorazioni sui corpi, le pitture, i costumi: ogni dettaglio è stato curato per avvicinarci il più possibile alle descrizioni di quelle genti giunte ai nostri giorni. Per girare la scena del primo incontro tra europei e nativi, abbiamo tenuto il gruppo degli spagnoli separati dalla tribù che li avrebbe ricevuti fino al momento dell’azione.

Si sono incontrati così per la prima volta davanti alla cinepresa. Non abbiamo avuto bisogno di fornire agli indiani molte linee guida. Chiedevamo loro solo una cosa: di comportarsi  come i nonni dei nonni dei loro bisnonni avrebbero fatto, vedendo quelle barche avvicinarsi alla spiaggia.

Molte tribù erano spesso feroci e disorientate tanto quanto i conquistatori. Nel suo film non c’è spazio per una ammirazione superficiale per il ‘buon selvaggio’.
Se devo scegliere tra il selvaggio buono e il selvaggio crudele, scelgo il primo. Non nascondo l’amore che provo per loro. Abbiamo vissuto insieme per molto tempo, con molte tribù diverse, e anche se la teoria del buon selvaggio non si avvicina alla realtà, nemmeno quella del selvaggio crudele lo è.

Abbiamo applicato la logica, il comportamento naturale che possiamo intuire avesse ciascuna tribù prima dell’apparizione di quegli esseri barbuti e metallici e, soprattutto, ci siamo basati sulle descrizioni fornite dai cronisti su ciascuno di questi incontri.

Conquistadores è un epos cantato con poche parole. La sceneggiatura è sintetica e i dialoghi ridotti al minimo. Poche parole, che proprio per questo restituiscono l’enormità dei paesaggi che questi Europei videro in assoluto per la prima volta. Come è riuscito a creare questa integrazione tra le brevi conversazioni e la sua regia che definirei maestosa?
Tutto nel Nuovo Mondo era grande agli occhi di un europeo: i fiumi erano giganteschi, le tempeste enormi, gli alberi avrebbero potuto essere stati piantati da giganti, i gatti del Nuovo Continente erano giaguari e i rettili coccodrilli con denti aguzzi.

Le descrizioni lasciateci da quegli uomini sono piene di misticismo, superstizione e poesia. Non avevano nemmeno le parole giuste per raffigurarsi una terra così diversa da quella da cui provenivano.

Non è sorprendente che pensassero di vedere draghi, sirene, amazzoni o città coperte d’oro. Prima ancora che i nostri personaggi cominciassero a parlare, avevamo già degli ingredienti meravigliosi in modo che potessero esprimere ciò che sentivano.

Aveva intenzione di girare un film o un documentario? Perché il risultato finale è a metà strada tra i due generi.
Non credo molto nella differenza tra finzione e documentario. Al giorno d’oggi, gli elementi narrativi che costituiscono un genere sono quasi gli stessi. Ma la realtà è diversa: siamo stati incaricati di girare un documentario e abbiamo deciso di fare un film. La nostra missione era quella di salvare il meglio del documentario per rendere il film il più realistico possibile.

Conquistadores ci dà una immagine talmente originale della grandezza della Spagna: che tipo di Spagna voleva offrire al pubblico?
Lo spagnolo alla fine del XV secolo si considera l’erede della Roma imperiale e crede di essere superiore a tutto ciò che lo circonda: al portoghese, all’inglese, al francese e, naturalmente, anche agli indiani. È questa convinzione che motiva un gruppo di soli 40 uomini ad addentrarsi in qualsiasi giungla, attraversare un continente inesplorato e raggiungere l’Oceano Pacifico. Noi usiamo ancora molto una espressione che definisce molto bene lo spagnolo per così dire allattato con il ferro, e cioè ‘per cojones’. Non è facile tradurre il suo significato, soprattutto perché lo usiamo per rispondere a molti atti che qui non possiamo spiegare. Mettiamola così: perché entreremo in quella giungla? perché sì, per dimostrare semplicemente il nostro valore, “per le palle”. Perché se io lo faccio, tu non puoi tirarti indietro e mi seguirai. 

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Ho studiato in profondità il carattere degli spagnoli. Non siamo poi molto cambiati da allora. L’invidia, per darti un esempio. Se uno spagnolo trionfa, il resto degli spagnoli non tarderà a cercare i suoi difetti e inizierà a criticarlo. Se Antonio Banderas si reca a Hollywood per girare un film, immediatamente cento spagnoli diranno “come si chiama quel Banderas, che è così poco bravo? Abbiamo tagliato la testa di Balboa poco dopo che aveva scoperto un nuovo oceano, il più grande della terra … Colombo è morto solo e abbandonato, Hernán Cortés era praticamente un mendicante, Pizarro assassinato dagli spagnoli, Ojeda, Elcano … Tutti la stessa fine. Uccisi da una freccia, o da noi.  Nessuno è riuscito davvero a godere della gloria che tanto cercava. Pure io, da una parte mi auguro che Conquistadores abbia molto successo in Italia, ma, d’altra parte, come spagnolo, temo che se ciò accade, mi taglieranno la testa !

Qui il link ai disegni originali dello scenografo Matteo Mariotti

Conquistadores Adventum è un capolavoro

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Quando una fiction funziona, Netflix o meno, il racconto produce una sensazione fisica, non importa quanti secoli siano passati dagli accadimenti messi in plot del XXI secolo. Ti senti addosso quello che passa sullo schermo. Questo è Conquistadores Adventum, una strepitosa serie tv spagnola, prodotta e voluta dalla Movistar +, che RaiStoria ha trasmesso con l’introduzione di Alessandro Barbero.  Conquistadores Adventum è un capolavoro. .

Conquistadores Adventum racconta la storia dei primi decenni della scoperta e poi della conquista del cosiddetto Nuovo Mondo: dal 1492 al 1530. Decenni preparatori, decenni di prove generali di quella che Peter Linebaugh e Marcus Rediker hanno definito “l’impresa atlantica” e cioè l’avvio del meccanismo di espansione territoriale e coloniale durato due secoli e mezzo oggi chiamato Capitalismo.

Astutamente, e con una notevole onestà intellettuale, gli autori fissano l’origine della storia dei Conquistadores nel campo dell’esercito spagnolo davanti a Granada, ultima roccaforte musulmana in terra ispanica. Isabella di Castilla passa in rassegna l’esercito, incita i suoi.

Dinanzi ad un soldato che le crolla ai piedi sconvolto dall’entusiasmo della crociata religiosa e dalla riverenza assoluta per una sovrana altrettanto assoluta, con atto di tenerezza dice: “avremo altre battaglie in cui la Spagna sarà vittoriosa”.

Già la attende una conversazione con l’italiano Colombo (un super convincente Miguel Lago), che sa che le esplorazioni sono ispirazioni della divina saggezza nel cuore di uomini audaci impegnati a far trionfare la gloria di Dio meno di quanto, invece, siano esercizio del potere di uomini su altri uomini.

“Sua maestà deve avere il coraggio di regnare”, dice Colombo a Isabella per convincerla a finanziargli la spedizione atlantica.

Conquistadores Adventum è stata girato con una precisione documentaria al millimetro, tanto che la televisione spagnola ha parlato di un nuovo genere a metà tra la fiction e il documentario.

Il casting, in particolare, è curato in modo direi artistico, fuori dai canoni gommosi di Hollywood: si son cercati, con una indagine evidentemente iconografica condotta in collezioni museali, volti e corpi di uomini dall’aspetto cinquecentesco, pittorico.

I Conquistadores – Colombo, Fransisco Pizarro, Vasco Nunez de Balboa, Alonso de Ojeda – sono caratteri religiosi, barbuti, brutali. Sussurrano alla spada e alla croce traendo ardimento da un carattere per noi quasi inaccessibile. Oscuro.

L’oscurità è infatti l’atmosfera metafisica di Conquistadores.

Colori tutti sul verde, sul blu, sul grigio, una monocromia che in qualche modo riflette la poca luce della foresta tropicale intatta in cui si addentrano gli Spagnoli, ma che è anche una metafora di altro.

E questo altro è il principio stesso della civiltà occidentale, che gli autori sembrano aver messo in sceneggiatura più guardando a Nietzsche che a modelli come Nuovo Mondo di Terrence Malick. La nostra civiltà occidentale, che non riusciamo più a leggere se non entro schemi di matrice positivista importati dalla cultura di massa americana, non viene dalla luce, ma dal buio.

Un buio che Conquistadores mostra in molte declinazioni, tutte efficacissime dal punto di vista cinematografico: il buio del totalmente ignoto, che era ovviamente paura fottuta, ma anche adrenalina purissima, e quindi motore a pieno regime per l’impresa.

Il buio della ferocia di caratteri puramente erotici come De Ojeda (l’ottimo Roberto Bonacini), il “demonio dagli occhi azzurri” devoto alla Vergine Maria, prototipo appunto nietzschiano di una volontà di potenza ambiguamente fusa con un desiderio di affermazione incomprensibile al suo stesso animo.

Il buio dei genocidi che verranno, che la conquista imponeva e voleva. Tutto questo fa riflettere lo spettatore europeo, che nello spettacolo avverte l’ingombrante sentimento di avere qualcosa di più di un lontano passato in comune con questi precursori oscuri dell’altrettanto oscura avanzata del capitalismo globale. 

La lingua di tutto questo fu lo spagnolo. I Conquistadores parlano uno spagnolo maestoso e terrificante. La sonorità scultorea, eburnea e tornita della lingua va purtroppo perduta in traduzione, ma chiunque volesse avere una sensazione fisica di cosa fu per l’Europa, e poi per l’umanità intera, arrivare oltre le colonne d’Ercole, Conquistadores Adventum lo deve vedere.

Un freddo e piovoso inverno di rovine

(Berlino distrutta nell’estate del 1945)

È uscito il 31 gennaio con Iperborea Autunno tedesco di Stig Dagerman, la raccolta dei reportage che lo scrittore svedese scrisse dalla Germania del 1946 (Amburgo, Berlino, Hannover, Duesseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco, Norimberga e Darmstadt) per raccontare che cosa ne era odi milioni di tedeschi – “persone che ringraziano Dio di essere vive all’inferno” – dopo la disfatta del nazismo. Un freddo e piovoso inverno di rovine. Questo era il 1946 tedesco.

Quest’opera di giornalismo letterario non è un libro che parla solo dei mesi spaventosi del 1946 in cui era chiaro – e Dagerman ebbe il coraggio di scriverlo – che la liberazione per mano degli Alleati non segnava una nuova primavera spirituale per la Germania annientata “dall’apatia e dal cinismo”. Questo è un libro che parla della nostra Europa di oggi e lo fa attraverso un viaggio senza speranza, ma di pura constatazione, tra le macerie delle città tedesche.

Le rovine tedesche definiscono il post nazismo, e oggi l’eco di quelle rovine definisce il nostro presente europeo. Le rovine parlano della nostra relazione con la memoria, il tempo e il futuro. Parlano della guerra civile europea, dei crimini che siamo stati capaci di commettere e della strada che abbiamo scelto di intraprendere (dal Piano Marshall in avanti) per lenire i sensi di colpa, dimenticare le responsabilità e disegnare un futuro che non fosse più europeo. La domanda che in questo principio di 2018 Autunno tedesco pone è questa: esiste ancora una Europa con cui identificarsi in quanto Europei?

Bunker bui e maleodoranti

Nell’ottobre del 1946, scopre Dagerman, milioni di tedeschi sono costretti a mettersi su treni semi distrutti per lasciare il sud del Paese dove avevano trovato rifugio dai bombardamenti e tornare nelle città del nord; ma l’unica unità abitativa disponibile, poiché tutto è stato distrutto, sono le cantine.

Dagerman vive in una di queste fogne di cemento, con l’acqua alle caviglie, stufe che bruciano legna bagnata, e ne fa un mitologhema della fame, del freddo, del nulla che avvolge i tedeschi all’indomani della scoperta che tutto, dal 1933, era stato immondo e sbagliato. I colleghi della stampa accusavano lo svedese di “andare ad annusare nelle pentole” e di prestare scarsa attenzione ai proclami dei nuovi partiti socialdemocratico e cristiano democratico (CDU) sul valore della democrazia. Ma Dagerman aveva compreso che “è un ricatto analizzare l’atteggiamento politico dell’affamato senza contemporaneamente analizzare la fame”.

I tedeschi crepavano di freddo, i bambini tossivano con i buchi nei polmoni e nessuno, veramente nessuno, macilento e ossessionato dallo stomaco vuoto, aveva davvero pensieri utili a superare lo sguardo spaccato sulle rovine dei bombardamenti, sempre, ogni minuto e ogni giorno del post Reich, perché “la fame è una forma di deficienza”.

Eppure, come nella Jungle alle porte di Calais, dove finiscono i sogni coloniali e post coloniali del capitalismo avanzato che se ne è fregato del cambiamento climatico per decenni, Berlino e Amburgo si sentono dire che “la gente nelle cantine ha il dovere di ricavare insegnamenti politici dall’umidità, dalla tubercolosi, dalla mancanza di cibo, vestiti e riscaldamento”. E questo Dagerman lo scrive senza negare una virgola di quanto sostenuto da Karl Jaspers: “tutti noi siamo complici del fatto che, tra le premesse spirituali su cui poggiava la vita tedesca, era data la possibilità di un tale regime”.

Non siamo stati migliori dei tedeschi, infliggendo fame e malattie ai bambini tedeschi dopo la disfatta di Hitler. Pretendevamo di essere migliori solo perché questa presunzione ci faceva star bene. Ci dava l’illusione di essere nati con i geni giusti della bontà genetica. E invece, l’ingiusta è così umana. Non ha passaporto.

Amburgo: l’odore acre e amaro di incendi estinti

“Ma se si è alla ricerca di primati, se si vuole diventare esperti in rovine, se si desidera un campionario di ciò che una città rasa al suolo può offrire in quanto a rovine, se si vuole vedere non una città in rovina ma un paesaggio di rovine, più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso, allora c’è forse una sola città tedesca da visitare: Amburgo”.

Negli ex quartieri di Hasselbrook e Landwehr ci sono “mucchi bianchi di vasche da bagno in frantumi” e una “enorme discarica di frontoni in pezzi”. La polverizzazione della civiltà urbana è una coltre di nebbia ideologica e sentimentale che raggiunge, dentro le menti e i cuori dei tedeschi sopravvissuti, un senso di impotenza, di nullificazione, di stordimento. E’ il vuoto della responsabilità morale che urla il suo vero fondamento, Dagerman lo capisce. Fondamento primo che non sta certo nel didattico richiamo agli errori commessi, ma in un movimento ben più vasto di consapevolezza che scava fino alla complicità di ogni singolo individuo in quanto essere umano figlio della modernità.

Perché la gente delle cantine, non tutta certo, ma moltissima, era gente come noi. E allora la penosa sensazione che queste pagine strepitose danno oggi è questa: ciò che ci sfugge di quelle persone, perché non la accettiamo, è la loro totale somiglianza con noi. E in questa somiglianza sta il cuore dell’Europa che solo raramente abbiamo imparato a guardare in faccia da quel 1946.

Ad Amburgo infatti “è inutile perfino cercare i ricordi di vita umana. Solo i termosifoni si aggrappano ancora ai muri come grandi animali impauriti; per il resto tutto ciò che poteva prendere fuoco è sparito. Oggi c’è quiete, ma quando il vento soffia produce rumore nei caloriferi e tutto questo ex quartiere mortalmente silenzioso si riempie di uno strano suono martellante. Allora capita, a volte, che un calorifero si stacchi d’improvviso e cada, uccidendo qualcuno intento nella ricerca del carbone tra le viscere delle rovine. Cercare carbone, ecco una delle ragioni per cui la gente scende a Landwehr (…) i tedeschi parlano sarcasticamente delle rovine come delle uniche miniere di carbone che restano alla Germania”.

Da secoli in Europa le rovine sono testimonianza viva dei tempi antichi, capaci di trasmettere al corso del tempo le creazioni del genio umano e il suo tentativo di scalare l’infinito. Le rovine di Roma e della Grecia sono un patrimonio europeo, una carta di identità collettiva, ma oggi il vento che passa sui resti gloriosi del passato è bellicoso. Non ci riappacifica con il nostro umanismo ereditato, no. Racconta piuttosto dello scontro fratricida tra il capitale globale e una dimensione altra dell’esistenza che in molti chiamano ecologismo o ambientalismo.

Il sentimento che l’Europa ha di se stessa coincide con il lungo viaggio di Hoelderlin/Iperione sulle tracce della Grecia classica. Preservare una continuità, fare delle rovine una ricchezza eterna. Eppure, l’Europa oggi assomiglia molto di più che alla Atene di Hoelderlin, alla torta fittizia che venne offerta a Dagerman in una villa borghese, in un parco abbandonato di Amburgo: “quella torta di cattivo pane tedesco offerta dall’avvocato e dallo scrittore è in realtà una torta simbolica, una torta liberale in cui la panna finta ha lo scopo di camuffare verità troppo amare. È indubbiamente una torta per i meno poveri. I più poveri non mangiano il pane in questo modo”. Una torta che di certo non avrebbe mai potuto mangiare l’ingegnere con un phd a Cambridge di 51 anni che lo scorso autunno è morto di povertà nel Wales, Regno Unito.

Gli indesiderati

Nella Berlino “assiderata e affamata” già sono visibili gli schemi sociali ed economici della vita moderna, che prevedono scarti umani a milioni. Il silenzio dei vecchi che nei tribunali per la denazificazione non sanno giustificarsi della propria ignavia rimbomba nelle domande dei giovani: “avevamo 14 anni”, e poi “signor avvocato, permettetemi di dire che voi anziani che avete taciuto siete responsabili del nostro destino come una madre che lascia morire di fame suo figlio”.

E le ex SS che ammettono “eravamo idealisti”. Le domande di questi giovani sono identiche a quelle poste dagli attivisti che dal 1992 tentano di porre i cambiamenti climatici nell’agenda politica della megaciviltà globale. Verso contrade lontane dalla giustizia si muove l’animo umano, quando gli interessi personali, la timidezza all’azione morale e l’espansione di desideri e ambizioni diventa biopolitica. Tutto può aspettare, compresa l’atmosfera, così come allora ci si poté rifiutare di aver paura di Hitler e di Heydrich. Tanto, se stiamo sbagliando, ci penserà qualcun altro. Sarà affar suo. Noi non ci saremo più.

E mentre i genitori cercano i figli dispersi al fronte appendendo cartelli nelle stazioni sfondate dalle bombe, tutto quello che rimane della Germania è la lotta per le patate, per portarne il più possibile sul treno e poi alla famiglia, ma solo un sacco, perché se anche ne hai trovati tre sacchi, non c’è posto per tutte quelle patate nello scompartimento strapieno di profughi.

Per Dagerman tutti i poteri erano il Potere. Perciò intuii in anticipo di 60 anni il prezzo che l’Europa, attraverso la Germania, avrebbe pagato in nome della ricostruzione. Non abbiamo abbandonato affatto gli schemi biopolitici che portano alla catastrofe, al contrario. Il prezzo della ricostruzione non è stata una consapevolezza responsabile delle conseguenze delle azioni umane, ma una abiura della sondere Weg europea a totale favore del consumismo di importazione.

I tedeschi più coraggiosi provarono a dire ad alta voce come si stavano mettendo le cose, ad esempio il giurista Frizt Bauer, che fu il vero artefice della cattura di Adolf Eichman . Proprio per questo un perfetto sconosciuto nei programmi politicamente corretti di Rai Storia sulla Giornata della Memoria. Pur di non affrontare le vere dimensioni della colpa tedesca – una colpa umana e non dotata di passaporto tedesco, già commessa in Africa, Asia e America – s’è accettata l’idea che basti un frigorifero per fare una civiltà, e un giorno del ricordo collettivo per instaurare comode definizioni del bene e del male.

E così può accadere che il Goethe Institut di Milano metta in cantina i volumi delle poesie di Hoelderlin, come se l’Europa non potesse più dire nulla di se stessa se non in anglo-americano. Dagerman comprese ciò che anche Karl Jaspers comprese: “se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all’umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell’uomo in quanto uomo”.

Lebensraum – Berlino 2017

La Hauptbahnhof di Berlino in un gelido mattino di inizio gennaio. Lebensraum-Berlino 2017

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How long is now? Si interroga un volto anonimo, esorbitante, disegnato a graffiti sul rettangolo bianco dell’edificio che fino a qualche anno fa era un rifugio per musicisti ed eccentrici da cultura del sottosuolo, e che ora aspetta di essere demolito, sulla Oranienburgerstrasse, a Berlino. Il bordo sbriciolato del muro, simile a un biscotto raffermo, ha una tonalità sinistra, ma non ostile. Quando sarà abbattuto farà spazio ad un nuovo presente, che durerà per un certo periodo, ricco di una sua illusione di eternità. In qualche modo, questo muro approssimativo parla già della sua estinzione, che in tedesco si dice Aussterben, morire del tutto o morire completamente.

Il tocco della inesorabilità accompagna il prefisso aus, ricordando a chiunque pronunci questa parola che, sì, l’estinzione è per sempre. È gennaio a Berlino, e sotto un cielo incombente di neve questa domanda sembra raccogliere tutta l’angoscia di un presente chiamato Antropocene. Berlino è la città europea in cui interi programmi di estinzione sono venuti a galla non solo nella mente di gruppi politici criminali durante il Terzo Reich, ma, attraverso i loro delitti, nella coscienza di sé dell’umanità intera. Se c’è un posto in cui scendere nelle tenebre dell’estinzione, è Berlino.

Oranienburgerstrasse. Lebensraum - Berlino 2017

Berlino conosce l’estinzione. L’ha pianificata, attraverso le politiche di sterminio elaborate negli uffici dei ministeri del regime nazista, e l’ha anche subita. A fine aprile del 1945 l’avventura nichilista di Hitler ha ormai svelato la sua intrinseca verità: la Germania è distrutta. Si chiude così una parabola di civiltà europea, e della sua ambizione di grandezza, che, nel bene e nel male, proseguiva dal 1870. Egemonia continentale prussiana, borghesia coloniale in Namibia e Cameroon, la vita urbana come massima manifestazione del genio umano. Ricerca di spazio dappertutto, e in molti sensi. Berlino, dopo il 1945, non sarà mai più Berlino.

Theodor Adorno pensava che la società di massa avrebbe finito con l’ingurgitare la cultura come un prodotto di scarto di qualcosa di più a buon mercato, e cioè l’intrattenimento. Berlino ha a tal punto assorbito la propria estinzione da farne una attrazione turistica: gruppi di stranieri affamati di dettagli live sul nazismo hanno appuntamenti prenotati via internet in punti specifici della città, pronti a dedicare quattro ore di cammino ai cosiddetti luoghi della memoria del potere del Terzo Reich, e del suo stato di polizia permanente. Cosa cercano davvero?

Ingresso di uno stabile di lusso in Tucholskystrasse a Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

In fondo alla Oranienburgerstrasse, il bulbo metallico della torre della televisione perde fascino non appena spunta sulla sinistra la cupola verde, moresca, bordata di ottone dorato, della Nuova Sinagoga. Risparmiata al pogrom della Notte dei Cristalli, oggi la sinagoga è sconsacrata, ma ricostruita almeno nella sua intelaiatura architettonica fondamentale. Il sole sta calando, le temperature sono gelide, e i tasselli rotondi del selciato sono lucidi di una umidità marrone mogano, antica, un po’ anni Trenta, come i pavimenti in legno scricchiolante degli appartamenti di lusso in Tucholskystrasse, con i loro ingressi austeri, gli intonachi color crema, i pavimenti in marmo e le scale in pietra.

Alcune persone si fermano dinanzi al portone principale, leggono le targhe commemorative dei crimini impliciti nella sopravvivenza dell’edificio. Tutti, la sinagoga e le persone, sembrano impietriti in una sorta di afasia prelinguistica, in cui nessuno sa bene cosa dovrebbe dire, o se è rimasto qualcosa da dire. I residui del passato, i suoi fossili o le sue rovine, vengono prima o poi riassorbiti nella vita vissuta. Accade ovunque ci siano esseri umani, ed è accaduto anche qui. Folate di vento artico ti si infilano sotto il cappuccio del parka, e comprendi che accade perché la vita non passa, si consuma, ed è nel lavorio costante del consumarsi della materia organica, stagione dopo stagione, nascita dopo nascita, che tutto tira dritto. La atroce indifferenza del dopo. La legittima esuberanza dei nuovi.

Qualche ora prima, sull’aereo, osservavo un paio di artropodi morti, ingialliti e rinsecchiti, rimasti intrappolati nell’intercapedine del finestrino. Molto tempo prima, dovevano essersi trovati nel posto sbagliato, in mezzo a materiali plastici che non c’entravano nulla con il loro codice genetico, e che facevano di loro delle creature inevitabilmente antiquate. La FAZ pubblicava quella mattina in prima pagina una notizia dall’impatto almeno pari agli attentati terroristici che hanno tenuto in pugno il Capodanno in Europa, e in Turchia: gli esseri umani hanno raggiunto la quota 7 miliardi e mezzo. L’aggiornamento della demografia umana si sovrappone con i numeri catastrofici, giunti lo scorso autunno, del Planet Index 2016 del WWF, che ci dice in modo non troppo brutale come se la passano i non umani sulla Terra.

Nel nostro tempo recente (tra il 1970 e il 2012) le specie di vertebrati sono diminuite del 58%. Avanza la defaunazione, cioè l’assottigliamento numerico delle popolazioni animali, che dipende da una generalizzata e radicale perdita di habitat, necessaria a far posto al crescente numero di esseri umani, e al loro modo di produrre cibo, energia, vestiti. Mentre passavamo dalla Guerra Fredda alla caduta del Muro di Berlino e poi attraverso gli anni Novanta di Bill Clinton e del Protocollo di Kyoto  (1970-2012) le specie terrestri declinavano del 38%, quelle di acqua dolce dell’81% e quelle marine del 36%.

Se lo spazio sul Pianeta è senza dubbio limitato, i nostri piani di espansione territoriale sono invece sconfinati. Nel secolo scorso i tedeschi coniarono una parola per la fame di terre vergini con cui nutrire brame territoriali e culturali fuori scala, e cioè Lebensraum, spazio vitale. L’apertura, manu militari, delle regioni orientali, fin dentro le steppe dell’Unione Sovietica, per lasciare il campo alle fattorie dei coloni centro-europei di origine germanica. E alla generazione di giovani sotto shock, con le facce viola e grigie di un quadro espressionista diventato incubo di massa, dei protagonisti di Unsere Muetter, Unsere Vaeter (ZDF, 2013, trasmesso dalla Rai a gennaio 2014 con il titolo Generation War).

La Vernichtungskrieg di Hitler faceva della geografia tra Europa ed Asia una questione di sopravvivenza dell’unico popolo che avesse il diritto di affermare se stesso sulla terra. Oggi Lebensraum è una parola lurida, eppure non ne esiste una migliore per connotare il collasso degli habitat e delle specie che devono cedere il passo dinanzi all’inarrestabile arrivo degli esseri umani. Il futuro della wildlife è una questione di spazio vitale, e solo di questo. Una constatazione che sta ben fissa anche nelle pagine de L’Origine delle specie di Charles Darwin, e che però ci mette, in fin dei conti, nella più imbarazzante delle posizioni. Dovremmo forse ritirarci?

L’artropode giallo raccontando la sua storia racconta pure la nostra: l’estinzione è una condizione dell’umano, così interrelata con i modi in cui la nostra specie ha preso possesso di ogni continente. Forse, lui non lo ha mai scoperto, eppure noi abbiamo amato costruire le plastiche che lo hanno soffocato. Forse, invece, noi lo abbiamo sempre saputo. E, forse, è per questo che abbiamo inventato le collezioni naturalistiche, quei giganteschi archivi di specie animali e vegetali che racchiudono la storia del Pianeta dal punto di vista di Homo sapiens. I trenta milioni di reperti che stanno nel Museum fuer Naturkunde di Berlino, sulla Invalidenstrasse, trattengono il passato estinto, ma rivendicano all’estinzione un posto d’onore nella parabola umana che in Germania ha mostrato i tratti più aberranti dell’umanità. Noi siamo questo, punto. Per tutte queste ragioni, mi pare, il Kaiser Guglielmo II sorrideva in faccia all’obiettivo nella fotografia in bianco e nero che i bookshop della metropolitana vendono ai turisti. Lui sì. Sapeva.

Una zebra al Museo di Storia Naturale di Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

La Schwarzer Weg è deserta, come lo Invalidenpark. Non sono ancora le nove, il cielo è sbattuto da folate di vento artico. Vortica attorno la percezione, allucinata, che non possa che esserci un inverno permanente e solido, a Berlino. Sul rivestimento in gomma sintetica del parco giochi rimangono ancora i bussolotti scoppiati dei fuochi del Capodanno, tacciono gli appartamenti di lusso a ridosso del Ministero dell’Economia e dell’Energia. Una tipica casa prussiana si nasconde dietro i cespugli di bacche rosse sulla Habersaathstrasse, e accanto a lei spunta una ciminiera fumante. Il potere fossile, quello cioè che abbiamo dedotto dai giacimenti di carbone e petrolio negli ultimi 150 anni, è stato il tassello finale nella conquista del Pianeta. Le collezioni naturalistiche nascono in Europa proprio in coincidenza temporale con il sorgere della Rivoluzione Industriale. Una relazione intima, dissoluta, congiunge la capacità di espansione di Homo sapiens e l’arguzia scientifica con cui egli comincia a collezionare esemplari di milioni di specie, che presto avranno il proprio Lebensraum solo nei musei.

Lebensraum - Berlino 2017

Al Nord, spesso lo sconforto dell’uomo si fa filosofia. Per Hegel, anche le cose brutte avevano una ragione, per quanto astuta e dissimulata. Questa consapevolezza della sfiga e della violenza, che la gente del sud avverte sempre nei grandi pensatori nordici, è invece un dialogo con se stessi e con lo stato delle cose, e cioè l’onnipresente gelo che sempre si accompagna, nelle faccende umane, alla scoperta della propria potenza. Qualunque supremazia ha come effetto collaterale la compressione dello spazio lasciato agli altri: i nemici, gli sconfitti, i dissidenti. A partire da Linneo, la tassonomia impone alle scienze naturali non solo l’obbligo della catalogazione, ma anche una nuova concezione dello spazio tra una specie e l’altra. La distribuzione delle specie in gruppi e famiglie anticipa soltanto l’ordinamento per derivazione che con Darwin organizza l’albero della vita secondo criteri reali, ma disegnati per la prima volta dall’uomo.

Questo significa che, da un certo punto in avanti, le specie non hanno più soltanto il proprio habitat, posseggono anche una collocazione evolutiva disegnata sulle intuizioni scientifiche. Nelle collezioni naturalistiche questa nuova categoria di spazio, che non esisteva in Natura prima che l’uomo la estrapolasse dello stato delle cose, è particolarmente evidente. La caratteristica più importante di ogni museo di storia naturale è che le specie sono costrette a stare tutte insieme. Non è concesso spazio tra una specie e l’altra, se non quello artificioso delle vetrine e dei saloni.

Mentre all’esterno gli animali appaiono – come nelle fotografie di Steven Gnam – nelle collezioni essi sono ammassati, costretti alla convivenza. Questi posti ci dicono in che modo abbiamo imparato a trattare la Natura: umzuhandeln, diceva Heidegger, avere a portata di mano gli animali, le piante, gli ecosistemi. Ma soprattutto ribadire che lo spazio che possiamo loro concedere sarà, d’ora in poi, deciso da noi. Estinto il tempo fuori del tempo in cui Uroghompus eximius e Stenophlebia amphitrite volavano in un mondo ancora puro di ogni sorta di coscienza che fosse in grado di pensare il Pianeta.

Museo di Storia Naturale di Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

Il gabinetto delle specie marine conservate in soluzione alcolica è in penombra, e sigillato in una grande stanza cui si accede attraverso una porta automatica. La temperatura è sotto i venti gradi. Fa di nuovo freddo. Decine di pesci, murene, squali giacciono sospesi nel liquido giallo che li protegge dal tempo come un amnios del terzo millennio. La forma dei vasi che li contengono li costringe a rimanere in posizione verticale. Ti aspetti qualcosa da loro, in fondo. Non sono imbottiti di paglia o ovatta o poliammide. Sono integri, i tessuti intatti e le viscere ancora al loro posto. Soltanto gli occhi tradiscono la morte, l’atto chirurgico del prelievo dai mari e dagli oceani. Un piccolo squalo martello galleggia nella propria morte con una sorta di agilità. Mi guarda attonito, congelato in una qualche dimensione lontanissima di cui non sospettava l’esistenza.

Come tutto il resto nelle collezioni naturalistiche, ha finito col parlare un linguaggio completamente diverso dal suo, diluito nel sentimento di ingiustizia che ti prende alla gola davanti agli animali impagliati che dovrebbero testimoniare la stupefacente biodiversità del Pianeta. Queste specie hanno dovuto morire per poter diventare conoscenza accessibile agli esseri umani. Il sapere scientifico è cresciuto  sui reperti, i fossili, e la cattura negli spazi selvaggi. Zebre, tigri, giaguari, leoni sono protagonisti di un racconto robusto e dettagliato, che però prescinde totalmente dalla loro volontà. Perché nessuna specie sa di avere una storia.

Museo di Storia Naturale di Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

I felidi sono una delle famiglie di mammiferi che patisce le conseguenze più devastanti dell’impronta ecologica umana. Un ocelotto impagliato nel 1819, senza un occhio, fissa il nulla dentro una vetrina in cui un suo simile più recente volge la testa verso un alcione di Smirne (Alcedo smyrnensis) raccolto da Georges Cuvier, il padre del concetto di estinzione biologica, attorno al 1800 a Pondicherry, in India. Poco prima di Natale, la PNAS ha pubblicato il censimento dei ghepardi (Acinonyx jubatus), rivelando ciò che tutti già sapevano, e cioè che i rimanenti 7100 ghepardi del Pianeta sono inesorabilmente incamminati verso l’estinzione.

Il ghepardo è ormai una “protection-reliant species”, cioè una specie che senza l’aiuto dell’uomo non può più reggere la competizione con gli altri predatori, l’attacco del bracconaggio, e l’erosione del suo habitat. Molti felini cominciarono a diminuire drasticamente perché le loro pellicce divennero beni di consumo. Soprattutto, il commercio di maculati si è dimostrato particolarmente efficace nell’innescare i processi di defaunazione in virtù della sua capacità intrinseca di amplificare i propri effetti.

Come già osservava Kent Redford nel suo celebre lavoro “The empty forest” (1992), il commercio non solo coinvolge diverse specie selvatiche, ma passa da un gruppo ad un altro al cambiare del mercato e in base alle fluttuazioni di disponibilità inevitabili quando il prelievo è massiccio. Il giaguaro (Panthera onca) prese a diventare cappotto a fine Ottocento, ma al giro di boa degli anni ’60 ne sono rimasti abbastanza pochi da indurre i cacciatori a spostarsi su gatti più piccoli: il Leopardus wiedii (margay), il Leopardus tigrinus (gatto tigre) e naturalmente il Leopardus pardalis (ocelotto). La sopravvivenza dei predatori di vertice come i grandi gatti dipende da un principio negoziabile, e cioè lo spazio. Ma mentre discute quanto territorio destinare agli altri, Homo sapiens esprime anche un’altra delle sue stupefacenti virtù di cui ha dato prova nei confronti della Natura.

La capacità di imporre il silenzio, di fare il silenzio, di trasformare la vita biologica in una superba afonia. Splendidamente tassidermizzati, un Bubo nipalensis (gufo del Nepal) e una Harpia harpyia (la più grande aquila del continente sud americano) ascoltano il dolce chiacchiericcio dei bambini che sono venuti a visitare il Museo con i nonni per le vacanze di Natale. Questo silenzio ha la stessa matrice dello shock della popolazione civile tedesca alla fine di maggio del 1945. Improvvisamente risvegliato a se stesso, l’essere umano non ha concetti o rappresentazioni da opporre al proprio stesso operato. Ammutolito dalla distruzione, in mezzo alla polvere di Berlino quest’uomo non si riconosce più. Ma è la sua ombra a stordirlo, non certo una carenza di consapevolezza. Quasi sempre, Homo sapiens sa bene quello che fa, ma continua a farlo.

Museo di Storia Naturale di Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

Alle nove e mezza di mattina la stazione ferroviaria di Wannsee è quasi deserta. Il treno si è fermato puntuale, dopo essere scivolato attraverso chilometri di boschi secchi e spogli. Elias Canetti scrisse che il popolo tedesco ha la sua radice naturale nelle foreste del Nord, perché i pini e gli abeti stanno allineati l’uno accanto all’altro come i soldati di un battaglione. L’attitudine all’obbedienza fu uno degli ingredienti, di certo il più comodo per i vincitori da giudicare post eventum, del lento progredire della catastrofe morale che condusse qui a Wannsee, dove in una sobria ed elegante villa sul lago, il 20 gennaio del 1942, un gruppo di alti ufficiali ed amministratori del Reich e delle SS vennero convocati da Reinhardt Heydrich per pianificare l’omicidio di tutti gli ebrei d’Europa. L’autista dell’autobus numero 128 che costeggia il lago non è ben sicuro della fermata, perché non è certo che questa “villa della conferenza” abbia un posto nel tragitto che percorre ogni giorno. Non ci ha mai prestato attenzione, probabilmente. Ma una sofisticata donna di mezza età che assomiglia a Lauren Bacall mi dice di rimanere comoda, perché devo scendere a capolinea.

Friedrichstrasse, Berlino. Lebensraum - Berlino 2017

Lo spettacolo permanente garantito dai social media ci ha disabituati alla reale dimensione delle apocalissi politiche e sociali, che non avvengono mai in una esplosione epifanica, ma hanno piuttosto un andamento sintomatico per anni. Difficile immaginare un luogo più normale di Wannsee per rendersi conto di come il genocidio crebbe in ogni interstizio della vita civile tedesca piano piano, fino al giorno in cui il passo degli stivali di Heydrich risuonò su questo viale d’ingresso. Comincia a nevicare e il vento deforma i poster plastificati appesi lungo il cancello della villa che raccontano di come questa località balneare ospitasse negli anni Trenta una folta comunità di facoltose famiglie, anche ebraiche: Oppenheim, Langenscheidt, Springer, Fassbender, Lieberman, Baumgarten.

Wannsee era un bel posto per riposare, leggere buoni libri, osservare i propri bambini giocare sul prato. Molto del materiale informativo disponibile è anche in ebraico, e numerose note in ivrit si susseguono con ansia e determinazione sul quaderno dove i visitatori lasciano le loro impressioni. Siamo ancora vivi, ripetono queste voci dal lontano Israele, rivendicando il diritto che ai loro padri venne strappato. Ma anche la loro voce contemporanea si affievolisce, fino a scomparire, nel dedalo di stanze del museo che è oggi la villa. E cambia corpo, e diventa un vetro opaco, nebbioso, bordato di infissi in legno bianco sporco, dietro il quale i volti di giovani, donne, adolescenti sono in attesa che una Einsatzgruppe organizzi la loro fucilazione.

Wannsee Museum. Lebensraum - Berlino 2017

Un lungo tavolo scuro conduce lo sguardo verso l’esterno, sugli alberi del parco. La finestra fa respirare, via di fuga a buon mercato in mezzo alla constatazione di atti di una violenza assoluta, e tuttavia di una semplicità operativa che mozza il fiato e impedisce ogni tentativo di prendere appunti. La capacità organizzativa di una burocrazia moderna, ecco che cosa Heydrich riunì attorno al tavolo oggi scomparso su cui si fecero delle proporzioni, si tenne conto di certi rapporti quantitativi, si presero le misure. Reinhard Heydrich fu il demonio di questa semplicità.

Wannsee Museum. Lebensraum - Berlino 2017

Fuori, le case a mattoni rossi in stile teutonico sembrano ferme agli anni ’30. Un Kindergarten spunta dal nulla, con la sua palizzata rustica e indolore, di legno eroso dalle intemperie invernali. Un complesso di caseggiati quadrati in disuso, di fronte, con le finestre intatte ma buie come occhi senza pupille, è perso nel bosco, inglobato nel consumarsi del tempo, sperduto, ormai fuori posto, come lo sguardo attonito del baffuto autista di autobus che non sa chi sia Reinhard Heydrich, che era figlio di musicisti e un giorno deve pur essere stato un bambino. Sono i bambini  a fare spazio tutto attorno a questi luoghi della memoria, scavando una trincea tra il passato e noi, un solco nella terra che sempre di più isola gli antenati da noi, da un qualunque “e poi”, e però ce lo rende anche vicino. I bambini donano al tempo presente questa distanza incolmabile senza il cui vuoto non potremmo riconoscere gli antenati, e neppure le vittime. Sono i bambini a darci il permesso di dare un nome a chi non esiste più.

Wannsee Museum. Lebensraum - Berlino 2017. Bambini nel ghetto di Varsavia

Succede la stessa cosa alle specie in via di estinzione, sostiene Joshua Schuster. Solo quando sono perdute, allora acquistano un nome. E se “amore è amore di un nome”, come diceva Lacan, e se noi umani eravamo, centomila anni fa, l’unica specie che non aveva un nome ma poteva darne uno a tutte le altre, è questa la ricostruzione di Elizabeth Kolbert nella sua esplorazione sull’estinzione, allora i nomi delle vittime, degli scomparsi, dei perduti per sempre, dei soli per l’eternità (perché non ebbero nessuno accanto che li prese per mano dicendo, non lascerò che ti portino via), sono il nostro unico sigillo, la nostra unica presa – pur così debole – su quanto è già stato. Conosciamo e custodiamo e proteggiamo, nei musei, dentro i nostri neuroni, i loro nomi, perché sono estinti. L’uso dell’estinzione è da molto tempo uno strumento di appropriazione della terra, degli uomini e delle faune inscritto nella nostra “impronta originale”. Che ne siamo stati capaci su scala industriale tra il 1939 e il 1945 non dovrebbe sorprenderci, se non fosse per l’enormità, resasi evidente nei fatti del Reich, del Male come processo implicito nella matrice storica umana. Sì, esiste. Sì, avviene. Sì, all’inizio nessuno osa dargli il suo vero nome.

La stazione ferroviaria di Wannsee, alle porte di Berlino. Wannsee Museum. Lebensraum - Berlino 2017

C’è stato un momento nella storia europea in cui, nonostante la formidabile spinta in avanti della produzione industriale borghese, lo spazio era una esperienza collettiva. Eduard Gaertner colse questo tratto epocale, senza sapere che fosse in via di disfacimento, in un paio di tele a olio che oggi sono alla National Galerie, di fronte alla cupola del Bode Museum. Die neue Wache in Berlin (1833) e ancor di più Unter den Linden (1852) sono l’esemplificazione di quanto lo spazio sia indispensabile per accorgersi di ciò che sta attorno. Gli elementi architettonici appaiono in una solitudine sfumata sul giallo, mentre coppie ignare della propria epoca passeggiano godendo di un privilegio che oggi non immaginiamo neppure più.

Una insospettabile angoscia sfugge da questi due quadri a causa della serenità stessa in cui le persone che vi si muovono danno l’impressione di sostare. La fame di spazio creava lo spazio delle loro passeggiate: gli architetti disegnavano grandi viali, lunghi e arieggiati, simboli inconfondibili della potenza della nazione prussiana, e dell’Europa. E mentre queste persone si illudevano di avere abbastanza spazio per poter coltivare un qualche sogno di gioia personale (dando corso alla rivoluzione politica di Saint Just), era lo spazio del mondo (le sue foreste, le sue faune, le sue genti non europee) a morire. L’onnivoria territoriale prussiana voleva più Lebensraum, e se lo prese con la forza. In Africa.

Deutsches Historisches Museum. Lebensraum - Berlino 2017

Una tempesta di neve si abbatte sul Museum der deutschen Geschichte, il museo della storia tedesca sull’Unter den Linden. Molti berlinesi si sono rifugiati nella caffetteria. Torte viennesi al cioccolato, crostate di mele, caffè bollente mitigano il gelo implacabile del primo pomeriggio. È in corso una mostra sul colonialismo in Africa che ripercorre, per la prima volta in modo sistematico, una pagina del periodo guglielmino di solito messa sotto chiave, e invece fondamentale per comprendere come un certo schema di sfruttamento – fino alla morte – delle popolazioni non europee (gli Herero della Nambia, ad esempio) sia fermentato per decenni prima di prendere il potere al crollo della Repubblica di Weimar. In Africa, a fine Ottocento, erano tedeschi il Togo, il Cameroon, la Namibia, la Tanzania, il Rwanda e il Burundi. A Grande Guerra conclusa, il giornalista Willi Muenzberg, sul numero inaugurale della rivista “Die Arbeiter – Illustrierte Zeitung aller Laender” (1927), definiva le imprese di Von Throtta nel deserto namibiano “una guerra di sterminio”. Anche le autorità britanniche, che nel 1918 avevano assunto il controllo della regione, denunciarono le atrocità commesse dai tedeschi in una inchiesta che fece clamore, il Blue Book.

Che cosa effettivamente i coloni e i militari tedeschi fecero alla popolazione civile lo dimostrano le decine di fotografie della esposizione, che mostrano corpi emaciati di prigionieri che stanno morendo di fame (pursued by Germans to near extinction, sintetizza una t-shirt, opera d’arte contemporanea sul genocidio namibiano). Ma al volgere del secolo la linea di demarcazione tra bianchi e neri non era solo una politica razziale, bensì una forma mentale che aiutava a mettere ordine nelle intenzioni dei padroni: “Colonialism demanded clarity. Scientists classified humans according to races and tribes. By endeavouring to set and implement a clear line between rulers and the ruled, the colonizers continually reasserted their own identity”. Per poter dominare, e farti spazio, devi sapere chi sei. E poi, ancora una volta, tirare dritto.

Deutsches Historisches Museum. Lebensraum - Berlino 2017

Il colonialismo non ha solo distrutto il tessuto sociale ed economico delle nazioni africane invase e aggredite. Il colonialismo si è lasciato alle spalle un alone di sconfitta, di perdita, di irrecuperabilità che il fotografo tedesco Andréas Lang è riuscito a fotografare catturando i fantasmi di un passato remoto che ancora aleggiano in Cameron, Congo e Repubblica Centrale Africana. Le sue foto non è chiaro di quale estinzione parlino, eppure senza dubbio raccontano – nelle assenze che ingombrano le inquadrature – la fine definitiva di qualcosa, e di qualcuno. Uomini, animali, villaggi, civiltà. La special exhibition dello straordinario lavoro di Andréas – Kamerun und Kongo. Eine Spurensuche un Phantom Geographie – sta nella parte nuova del Museo e completa il percorso di nauseante dolore e senso di colpa che i curatori hanno dedicato al colonialismo tedesco.

Il tratto di un fiume nebbioso in bianco e nero, una strada spoglia che conduce ad un ospedale che l’occhio non riesce a raggiungere, alcuni edifici abbandonati ad Akonolinga prendono per mano lo spettatore e lo portano sussurrando nel centro del sottosuolo psichico che ha motivato la barbarie coloniale. Nessun volto umano, dicono le foto di Andréas, può rimanere indenne dinanzi a ciò di cui noi siamo capaci. E allora uno stupore immobile, o una disperata inerzia, sono appiccicati sulle facce dei suoi ritratti: una guardia in Cameroon, uno studente, sempre in Cameroon, con una t-shirt a righe e in mano una padella per la raccolta della sabbia da costruzione lungo il corso del fiume, in piedi davanti ad un contesto senza libri, edifici, compagni di classe.

E soprattutto, la solitudine assoluta di un militare davanti a ciò che resta di una caserma nella Repubblica Centro Africana. Ci sono anche gli animali, alla fine, in questo inferno dei ricordi in cui non si riesce più a distinguere il nome di chi ti tiene in ostaggio, di chi si è preso tutto per poi scomparire anche lui. In ognuno dei Paesi in cui Andréas ha viaggiato il leone è estinto. Eppure, un leone in legno piantona l’ingresso di una Chefferie, in Cameroon. E una montagna di ossa di grossi erbivori – Slaughterhouse – rompe la monotonia della vegetazione. Il Cameron, insieme alle altre nazioni del Congo Basin, è una delle regioni africane dove la caccia di sussistenza (la cosiddetta bushmeat crisis) è oggi il principale fattore di defaunazione delle specie tropicali. In questo vuoto troviamo infine noi stessi.

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 Ma è davvero tutto qui? Se l’estinzione è per sempre, non rimangono che le parole dei posteri e le tracce degli antenati? Non possiamo scegliere nulla se non i fossili e i reperti? All’ingresso della villa di Wannsee sono disponibili opuscoli sulla guerra di sterminio di Hitler estremamente accurati dal punto di vista storiografico. La Polonia, che per il regime, come scrisse Ian Kershaw. era una “discarica razziale”, la Russia, dove le Einsatzgruppen fucilarono centinaia di migliaia di persone. E le steppe russe, e le loro popolazioni condannate a morire di fame. Su uno di questi libretti sta una fotografia, molto sfuocata, che ritrae una donna, Marija Makarowa Rytschankowa, il 19 marzo 1944. Marija tiene per mano i suoi bambini, Ivan, che ha sei anni, Fenja di 2 e Anja di 4. Sono stati appena liberati dal lager di Osaritischi, nella Russia Bianca. I bambini sono avvolti in coperte, Marija tiene in braccio la piccola Fenja, Ivan sorride. Anche la sua di esistenza a un certo punto ha preso una di quelle strade anonime che si inoltrano nella foresta – Andreas Lang le ha rintracciate – e che portano verso tenebre di quasi impossibile decifrazione.

Questo essay è stato pubblicato da LA STAMPA il 13 agosto 2017.

(Photo Credits: la foto del video è stata pubblicata su gentile concessione di Andréas Lang)