Esplorare le origini storiche della Sesta Estinzione
Tag: Kgalagadi Transfrontier Park
Il Kgalagadi Transfortier Park tra Sudafrica e Botswana è uno degli ultimi posti in Africa in cui comprendere che cosa è il leone nel suo habitat. E quanto grave è la perdita numerica della specie nell’ultimo secolo.
Kgalagadi Transfrontier Park: una delle 10 roccaforti rimaste ai leoni in Africa, ossia le aree protette con almeno 500 individui adulti. Hotspot cruciale per il futuro della specie. Che negli ultimi 100 anni ha perso il 75% del suo habitat originario.
Il Kgalagadi Transfontier Park è anche la terra dei Khomani San, nazione di cacciatori raccoglitori sopravvissuta a numerosi genocidi coevi alla colonizzazione olandese e inglese del Sudafrica.
I leoni del Kgalagadi sono speciali. Si muovono nel deserto del Kalahari. Sono chiamati “criniera nera”, per il colore particolarmente scuro delle loro criniere. A lungo si è pensato che questi felini avessero caratteristiche genetiche proprie.
Oggi, grazie alle analisi genetiche, sappiamo che i leoni del Capo non sono diversi dagli altri leoni del Sudafrica. Parenti dei leoni delle savane orientali del continente, della Tanzania e del Kenya. Ma cugini più lontani dei leoni dell’Africa Occidentale.
Una unica specie, con adattamenti specifici. Il clima freddo del Kalahari in inverno favorisce criniere più scure. E ha alimentato un mito. I leoni del Kgalagadi Transfrontier Park dimostrano che ogni popolazione di questo animale ha una particolarità. Fino ad un secolo fa, l’Africa aveva tanti tipi di leoni, non soltanto uno.
Qui la classica lettura turistica del safari sbiadisce. Il leone nel suo habitat è una testimonianza della complessità della vita animale in via di estinzione. Qui si fa esperienza del tempo profondo, della immensità della storia evolutiva dei mammiferi e delle sfide epocali della conservazione della natura selvaggia.
(L’esperienza del divino alla !Xaus Community : la filogenesi delle specie del Kalahari)
Occorre più o meno una ora e mezza di jeep per raggiungere, viaggiando verso ovest, lo !Xaus partendo da Kamqua. Questa parte del Kgalagadi non è pianeggiante: le dune compatte formano un paesaggio collinare, con rade acacie solitarie e un veld ininterrotto di cespugli di Stipagrostis amabilis. La !Xaus Community è la porta dell’eternità.
La jeep procede su un continuo alternarsi di salite e ripide discese, che le ruote 4×4 aggrediscono slittando. I bordi dei solchi scavati dai pneumatici sono diventati alti come contrafforti, e arrivano quasi ai cerchioni.
Procediamo a non più di 30 o 40 chilometri orari, ma l’aria gelata del tramonto ci si schianta addosso velocissima e implacabile dandoci la sensazione di star correndo a perdifiato sulle dune, sempre più in alto, verso l’eternità.
Il paesaggio stesso sembra aver perso la sua dimensione terrena per aprirsi all’atmosfera, dove il sole va spegnendosi all’avanzare delle tenebre.
Le dune rosse del Kgalagadi sprigionano poteri cosmologici e rivelano di nuovo gli elementi primordiali di cui è fatto il mondo. La radiazione ultravioletta, decisa a non morire prima di aver completato il proprio lavoro di creazione, trasforma ogni sfumatura di colore in una unica tonalità arancione.
Una gazzella steenbok e una aquila Chanting Gostwawk, in un secondo che rimane immediatamente fissato nella infinità del tempo, ci osservano, chiusi in un enigmatico silenzio di attesa.
Spingendoci sempre più verso ovest, le colline e le dune rosse prendono possesso di tutto, sovvertendo gli equilibri di potere di ogni forma di civiltà.
Agguantano i nostri strumenti fotografici e telefonici, regolano i giri del motore diesel della jeep, vanificano la nostra mappa geografica del Kgalagadi.
Entriamo in un regno dove tutto può ricominciare da capo, ciò che è e ciò che potrà essere. Una fragranza sconcertante, pastosa, di tuberi dolci aleggia sui cespugli verde acqua e satura il nostro olfatto.
In Europa, millenni fa, i Greci chiamarono un simile profumo ambrosia, e lo immaginarono come un privilegio degli Dei. Ma qui non ci sono Dei europei. E neppure le pretese dei figli di Prometeo.
In questo sprofondare, salendo sulle colline, nella immensità non misurabile del tempo profondo – il tempo che in biologia evolutiva designa lo spazio cronologico lungo il quale ciò che è ha avuto l’opportunità di diventare ciò che appunto è – risorge, questa è la mia impressione – il primo pensiero dell’uomo su se stesso, sugli animali, sulle piante, sugli enti.
E in questo divenire le estinzioni stesse rappresentano la continuità della vita: “la vita intera presente oggi non è il prodotto di una serie di estinzioni; ogni specie, ogni individuo vivente è parte di una linea di discendenza che non si è ancora estinta lungo miliardi di anni”.
Per questo gli animali che stanno attorno a noi, qui, ora, nel veld freddo della sera, portano con sé storie millenarie. I loro geni, il loro stesso aspetto è la sintesi del passato, del presente e del futuro.
Gli animali sono messaggeri del tempo. Per questo sono gli Dei autentici di quel luogo remoto in cui ancora adesso in Antropocene riposano le radici di noi umani.
Può darsi, questo provo a pensare chilometro dopo chilometro, che i Greci lo abbiano pensato questo luogo remoto, ma dalle loro premesse emerse infine la nostra civiltà europea bianca, che, lo si ammetta o meno, ha purtroppo deciso la partita sull’intero Pianeta.
Il pensiero aurorale, come Heidegger chiamava il principio dell’interrogazione filosofica prima di Platone, fu in gradodi cogliere l’importanza imperitura di questo luogo remoto?
E se ciò non accadde, le scienze naturali, oggi, sono abbastanza vaste da cogliere il significato ontologico di ciò che hanno scoperto? Non è forse la conservazione una consapevolezza su tutto questo che aspira a diventare legge, diritto e legislazione universale?
La magnificenza del territorio che appartiene alla !Xaus Community va al di là delle nostre capacità di comprensione.
Mentre il direttore del lodge, Anthony, ci accoglie attorno a noi suona una musica di sconcerto e stupore così nuova da disintegrare la nostra lingua e il nostro linguaggio.
Qualunque cosa sia, nell’animo e nella genetica di Homo sapiens, il luogo remoto da cui proveniamo, la storia che abbiamo intrapreso negli ultimi cinque secoli ce ne ha distanziati con effetti nefasti che ora mettono in pericolo la sopravvivenza di tutti.
(Una area di sosta del Kgalagadi nella luce del mattino. I predatori possono comparire ovunque)
Kamqua: affidare la vita ai leoni. Paradossale fino a essere ridicolo. Eppure nel Kgalagadi quando scendi dalla jeep lo sai che potresti trovarti faccia a faccia con un leone. Ma sai anche che un leone selvaggio, a cui è stato assicurato il diritto di esistere a modo suo, non è un tuo nemico.
Ma non tutto il Sudafrica è un posto felice per la megafauna. Il Sudafrica è un Paese di ombre e oscurità, per dire il meno. Molta di questa oscurità non ha origine nella segregazione razziale e nell’apartheid, ma in decisioni prese dopo che la Nazione decise di imboccare la strada del post colonialismo e della propria emancipazione spirituale.
L’allevamento dei leoni in cattività in ranch, game farms, fattorie è un business in crescita, denunciato nel 2015 dal documentario Blood Lions e poi a settembre del 2016 durante la COP 17 della Convenzione Mondiale per la Biodiversità che si svolse proprio a Johannesburg.
Molte nazioni, tra cui il Botswana, si batterono allora fino all’ultimo voto per un upgrading di Panthera leo in Appendix I della classificazione internazionale Cites.
Questo avrebbe significato spostare il leone dallo status “vulnerabile” ( in cui è dal 1996) alla condizione di “minacciato”, con lo scopo di rendere illegale su scala mondiale il commercio di ogni parte della carcassa di un qualunque esemplare morto: denti, ossa, pelle, cranio, artigli.
Da un punto di vista biologico, il leone appartiene alla famiglia delle pantere, e questo lo pone comodamente accanto alla tigre, sempre più rara, nella medicina tradizionale cinese aggiornata al terzo millennio.
Per questo le sue ossa valgono una montagna di dollari. Nel 2016 il Sudafrica ottenne infine ciò che voleva, e cioè bloccare l’upgrading della specie in Red List e continuare indisturbato a rilasciare permessi per le farms.
Il Sudafrica comincia ad allevare leoni negli anni ’90. Secondo stime attendibili nel 1999 c’erano già almeno 1000 leoni in gabbia. Le statistiche attuali non danno certezze.
Questo mercato gode infatti di una impunità legislativa che trova i suoi appigli giuridici, secondo EMS e BAN, in falle del sistema CITES e in palesi omissioni di controllo da parte del Ministero dell’Ambiente (DEA, Dipartimento per gli Affari Ambientali).
Un numero impressionante, se si riflette sul totale di leoni rimasti in Africa, non più di 25mila. I leoni del Kgalagadi sono circa 500.
Nel 2017 il DEA ha dichiarato che sul suolo nazionale ci sono 300 strutture impegnate nell’allevamento, senza fornire numeri complessivi.
(Una facility tipica del Kgalagadi. Si noti il cartello: “non ci sono recinzioni, lasci il tuo veicolo a tuo rischio e pericolo”)
Il Kgalagadi non è una area protetta chiusa (fenced). Scendere dalla propria jeep è un rischio. Puro libero arbitrio. Ma poiché è inevitabile è consigliabile farlo in apposite aree di sosta.
Il codice di condotta del Kgalagadi promuove una “cultura del leone e dei predatori”. Rispettare le regole.
Se ti trovi davanti un leone, non perdere il contatto visivo con il suo sguardo e indietreggia lentamente. Non scrutare il paesaggio in lontananza nell’erba alta. Non camminare lungo le piste sabbiose. Rientra nei luoghi di sosta al calare delle tenebre.
Così si impara a convivere.
Giorno dopo giorno, il leone del Kgalagadi diventa una presenza certa, continua, consustanziale all’alba, al caffè della mattina, al fuoco della sera. Lui è con te, e tu sei con lui. E’ una legge scritta in un tempo lontanissimo, è una legge genetica, e quindi incancellabile dalla nostra storia.
(Una pagina del magazine del SanParks disponibile allo !Xaus Lodge)
Questo non significa che quando leggi il cartello di avviso nelle aree di sosta non senti un brivido gelato lungo la schiena. Significa soltanto che accetti il predatore di vertice. Gli affidi la tua presenza così come lui è accoglie la tua.
Esmpi che trovano conferma nella civiltà San: il leone del Kalahari può convivere con gli esseri umani. E quindi anche con i visitatori occasionali.
Il Sudafrica esprime, come nazione, una cultura della conservazione avanzatissima al Kgalagadi. Eppure, permette lo sterminio legale di migliaia di leoni. La biopolitica del XXI secolo. Che non risparmia le specie a rischio, ma, anzi, le travolge e consuma proprio perché sono in estinzione.
( I leoni del Kgalagadi, Predator Centre Nossob Gate)
“il Dipartimento per gli Affari Ambientali ha ripetutamente sostenuto che l’allevamento in cattività dei leoni per i cacciatori di trofei e il commercio di leoni vivi e dei loro scheletri è compatibile con la promozione del concetto di green economy”.
Frasi ufficiali come queste fanno capire che la questione non riguarda solo il diritto di intendere il proprio patrimonio faunistico nei modi più consoni all’interesse nazionale.
Qui si tratta di come il leone viene percepito in Sudafrica in termini economici e politici. Il futuro del leone in Sudafrica dipende dalla possibilità che la specie acquisisca in sede giuridica una dignità ecologica e storica e dunque un diritto genetico, evolutivo alla sopravvivenza.
Un partito di opposizione al governo ANC, lo Inkhata Freedon Party, ha detto: “questa pratica non è altro se non la riduzione a prodotto commerciale (commodification) di un predatore di vertice dell’Africa, per il vantaggio economico di un pugno di persone, con un danno grande e disturbante per il brand South Africa”.
(Due piccoli, foto esposta sempre al Predator Centre del Nossob Gate)
In una rete di affari transnazionale di questa portata, le aree protette di tutta l’Africa non possono essere escluse dal bilancio. The Extinction Business cita anche un altro studio, uscito su PLOS ONE lo scorso ottobre, Questionnaire survey of the pan-African trade in lion body parts.
L’indagine mette in correlazione il numero crescente di leoni avvelenati o uccisi in Mozambico, Zimbabwe, Sudafrica, Uganda e Tanzania con la domanda di ossa di felini in Cina e sud-est Asia.
Secondo EMS, infatti, pezzi di leoni selvatici uccisi di frodo escono dal Paese in bagagli di passeggeri diretti in nazioni africane “di transito” verso l’Asia.
Nel 2017 all’aeroporto internazionale Tambo di Johannesburg sono state sequestrati 51 artigli e 19 denti in una valigia che sarebbe finita in Nigeria.
Ma adesso siamo a Kamqua e l’ultima radiazione solare della giornata si riversa su di noi come una promessa che nessuno ha il diritto di negare.
Le promesse sono il fondamento di ogni orizzonte e possono aspettare lunghi anni per essere soddisfatte. La !Xaus Community è una di queste promesse all’umanità.
Ci troviamo ormai in un angolo remoto e felice del SA. Il Kgalagadi si spalanca davanti a noi con un silenzio che sembra invincibile. Immenso, di una purezza crudele in cui la vita, la nostra, la vita degli animali stessi, non è scontata, e neppure assuefatta alla dittatura dell’abitudine. Nello Auob River scorre il tempo del Kalahari.
Siamo soli su di una pista di sabbia sassosa, color crema.
Decine di chilometri senza incontrare nessuna Jeep o Land Rover. Sotto lo sguardo dei gemsbok dallo scatto sicuro e improvviso. Ma questa non è più la solitudine europea.
“Per trovarsi in ciò che è senza confini – Im Grenzenlosen sich zu finden” scrisse Goethe, “scompare volentieri il singolo – wird gern der Einzelne verschwinden”.
Il Kgalagadi coincide con il mistero del Kalahari. I geologi dicono di questo deserto che è “elusivo” come un felino. Proprio a causa della diversità degli aspetti geo-morfologici il dibattito sulla vera natura del Kalahari è ancora aperto.
Sono evidenti, sul paesaggio, i segni di un feroce regime desertico di pioggia e umidità, eppure la vegetazione invernale è saldamente aggrappata alla sabbia.
I cespugli ruvidissimi e pallidi dei sistemi a savana ci sono anche qui, se non fosse che il territorio attorno a noi non diventa mai distesa erbosa e piatta, ma cambia continuamente.
Paesaggi differenti si danno il cambio cedendo l’uno dentro l’altro in una strana armonia sempre più enigmatica sotto l’avanzare del sole, dal suo zenit al primo pomeriggio.
All’inizio, tra Houmoed e Monro, il veld riesce a sconfiggere la sabbia di dune alte fino a venti metri e sopporta le acacie haematoxylon dal tronco spesso e robusto, antiche di anni.
Le erbe ad alto fusto di Stipagrostis amabilis (di un opalescente verde turchese) e diStipagrostis uniplumis (con i suoi tipici cespugli di un giallo oro infiacchito dalla mancanza di acqua ) convivono in prati resistenti, aggrappati alla superficie del suolo e ostili da millenni al passaggio degli erbivori.
Un gruppo di springbok lungo il corso dello Auob River
Poi, lungo il corso dell’Auob, procedendo verso nord est, in direzione di Auchterlonie, le dune diventano più irregolari, compaiono le acacie mellifere e creste calcaree come fatte di stucco d’avorio decorano i profili delle dune più piatte e levigate.
In questi anfratti simili a rifugi paleolitici si nascondono i leopardi, che approfittano delle grotte spoglie poste in altitudine per pattugliare il veld sottostante.
Individuarli a occhio nudo è sostanzialmente impossibile, ma impareremo presto che per tutti i grandi felini del Kgalagadi le regole di avvistamento della savana non sono efficaci.
Qui occorre scaltrezza, pazienza e un intuito inselvatichito per sapere dove un leone, al tramonto, ha scelto di tentare il suo coraggio.
Ogni centimetro quadrato del paesaggio congiura contro lo sguardo umano, confonde, trae in seducenti inganni l’illusione di aver avvistato il lampo di una zampa o il movimento di un corpo, tra i cespugli.
E’ come se il Kgalagadi stesso proteggesse le sue faune, rendendole così poco accessibili e così immensamente desiderabili.
Decine di springbok, le gazzelle eleganti e flessuose del Kalahari, brucano l’erba secca e rugosa nutrendo le nostre aspettative con la loro continua vigilanza contro i predatori.
Quarant’anni fa il numero di springbok, gnu e alcelafi rossi raggiunse le migliaia di esemplari: non c’è traccia di proporzioni del genere nelle fonti ottocentesche su questa area del Kalahari meridionale.
L’impronta umana, e più tardi le scelte di amministrazione del parco, hanno plasmato ciò che vediamo oggi piegando antichi equilibri a nuovi rapporti di forza.
Il numero dei felini non è cresciuto di pari passo, e tutte le specie soffrono qui di problemi analoghi se non uguali a tutte le aree faunisticamente ricche dell’Africa.
Il SanParks dichiara 450 leoni (le stime sul Botswana non sono del tutto sicure), 150 leopardi e 200 ghepardi. Considerate le condizioni generali del ghepardo, questa cifra appare un quasi miracolo.
Molti alberi, la corteccia annerita dalla sete, hanno cime mutile e grosse braccia spezzate. Altri sono già morti, ma presidiano il paesaggio senza arrendersi, e trattengono ancora il vigore e la resistenza delle loro migliori stagioni.
I fiumi, se e quando piove, riescono a trattenere l’acqua solo in superficie e al Kgalagadi questo basta per interi decenni. Una vera e propria corrente scorre molto di rado in questi due fiumi.
Si ritiene che il Nossob abbia una portata di acqua tale da generare una corrente solo una volta ogni secolo. Nel 2016, però, le piogge furono eccezionali e lo Auob tornò ad essere un fiume.
Chi viene qui non si lascia scoraggiare dall’aridità e dal freddo invernale, pari solo al massacrante caldo estivo. Nei prossimi giorni le minime notturne saranno sotto zero, ma la massima diurna di 25 – nient’affatto scontata – è ingannevole.
Soffia costantemente un vento tagliente, che prende a pugni la faccia e gli occhi e che diventa gelido dal tramonto. Detto tutto questo, l’escursione termica può raggiungere i 20 gradi nel giro di sole tre ore, dalle 7 alle 10 di mattina.
“Il KTP è uno degli ultimi parchi intatti del SA, con una interferenza umana ridotta considerata la sua estensione. E’ una vera wilderness e un vital natural heritage.
Gli animali sono abituati a vedere macchine ed esseri umani, ma devono sempre essere trattati come selvaggi”, dice il codice di condotta del SanParks.
“Rispettare loro e il loro ambiente, cercando di avere sul parco il minor impatto possibile è cruciale per assicurare una gestione efficace della wildlife e della wilderness in nome di un futuro comune”.
Chi viene qui deve. aderire alla cultura della wilderness.
Ci sono delle restrizioni precise alla produzione di rumore e quindi alle cause di stress acustico per gli animali: dalle 9 di sera alle 7 del mattino tutto deve essere fermo.
Un imperativo ripetuto nei campi tendati, ovunque, è di risparmiare l’acqua salata e oleosa, l’unica disponibile per lavarsi sommariamente. Le pozze d’acqua sono ormai quasi asciutte e le pompe a pannelli solari attendono la stagione delle piogge per ricominciare a lavorare a pieno regime.
Questi pannelli solari – il SanParks ha pianificato l’energia rinnovabile in tutto il Kgalagadi – sono disorientanti.
Sono indubbiamente giusti, ma inaspettati, e sono anche sicuramente aggiornati alla epoca dei cambiamenti climatici, ma ci vorrà del tempo per abituarsi alla loro presenza.
Ad Auchterlonie, tra Monro e Kamfersboom e poi ancora dopo Batulama, sono ancora visibili i resti di insediamenti umani in pietra del periodo coloniale.
(La Righe House, museo del tempo coloniale e dell’apartheid)
Su una duna c’è anche un piccolo museo, Le Righe House, riassorbita nel paesaggio, vestigia e frammento del passato ereditato.
Molte epoche si sommano una all’altra nel Kgalagadi. La sintesi che abbiamo di fronte a noi ci chiama a comprendere secondo percorsi non lineari.
Le risposte ai problemi di oggi, ad esempio al bisogno di energia, quando riescono ad essere almeno abbozzate, pretendono che la domanda di giustizia degli uomini e degli animali trovi sempre una riformulazione proprio dove l’eredità iniqua del passato ha più crudamente trasformato situazioni, sentimenti, percezioni, e risorse naturali.
(Il passato coloniale del Sudafrica è una cicatrice che continua a disegnare geografie e paesaggi spirituali)
La maggior parte delle waterhole, le pozze d’acqua artificiali, sono in questa parte del parco. Sono contrassegnate da cippi in pietra, con il nome della pozza scritto in afrikaans.
Anche queste indicazioni sulla pista principale appartengono agli uomini, ma non entrano in conflitto con la sostanza selvaggia del Kgalagadi.
Molto utili per avere costantemente la misura di dove ci si trovi, soprattutto nel tardo pomeriggio, quando è urgente dirigersi verso i luoghi di riposo e ricovero notturno, i cippi delle waterhole sono anche i punti nevralgici in cui avvistare i predatori.
(Nel Kgalagadi le waterhole sono una bussola per orientarsi, soprattutto al calare delle tenebre, quando arrivano i predatori)
“L’introduzione dei waterhole ha diminuito il bisogno degli animali di migrare (ad esempio il wildebeest) e ha creato popolazioni più sedentarie”, dichiara il Sanparks.
“E nondimeno l’adattamento ad un ambiente duro e così arido è eccezionale, con o senza le pozze di acqua artificiali”.
E’ la storia delle zebre e degli springbok, che prosperano nel Kalahari in modo diverso da un secolo e mezzo fa. Un clima in cui non esiste un giorno che sia uguale al precedente.
Un clima in cui, quanto alla luce, non si dà secondo che sia identico al prossimo. Sono ormai le 17 del pomeriggio e attraversiamo il Gemsbok Plein lungo l’Auob, verso Kamqua.
(La segnaletica stradale che annuncia l’ingresso del Kgalagadi Transfrontier Park)
Alle 10.40 mancano solo 20 chilometri al Twee Rivieren, il gate di ingresso al Kgalagadi. Un gruppo di San in evidenti condizioni di povertà piantona un albero di acacia e un vecchio mima una danza rituale. Il suo corpo è di una magrezza estrema, ha perso il tono muscolare agile e scattante della sua gente, tipico dei cacciatori raccoglitori. Comincia a diventarmi tutto chiaro. Twee Rivieren: il XXI secolo alla sbarra.
E’ una scena deprimente. Fa a pugni con un cartello allegro e vivace che annuncia una “farm kitchen”, probabilmente uno di quei latifondi ormai così diffusi in Sudafrica dove si allevano specie selvatiche a scopo commerciale.
Ci sono ancora vacche e capre che pascolano sulla sabbia nei pressi di alcuni kraal di pastori, e siamo ormai a soli 15 chilometri dal gate.
Le case sono capanne in lamiera, che però hanno elettricità da pannelli solari. Un certa cupezza tenebrosa circonda questi insediamenti rurali.
(Una fattoria di pastori a 15 Km dal confine con il Kgalagadi)
Eppure, qualcosa di inesorabile sta già accadendo, e il conta chilometri non può fare altro che accompagnarne l’approssimarsi. Il confine con il parco risucchia il ventunesimo secolo, lo interroga e si prepara a presentarci l’atto di accusa.
Saremo pronti ad accettarla? Siamo davvero sicuri di avere abbastanza energie psicologiche per fronteggiare l’immensità ancora viva di ciò che pur sta ormai scomparendo dalla maggior parte del Pianeta?
Siamo disposti a prenderci la responsabilità di vedere ciò che vedremo? Da dove proviene ciò che dimora dentro il Kgalagadi? Dopo due anni di ricerche, non ne sono più così sicura.
La vita viene dal tempo, dalla vertiginosa profondità di tutto ciò che è già morto alle nostre spalle, dalla continuità che lo scomparire ritmico di milioni di esseri viventi vegetali e animali produce attraverso la loro estinzione perenne.
Ciò che persiste trova la sua continuità in un indomabile assentarsi delle cose. Ciò che è perduto per sempre riempie di sé ciò che rimane. Questa assenza è il territorio selvaggio dentro noi umani.
(La hall della reception gestita dal SanParks a Twee Rivieren dove deve registrarsi chiunque entri nel Kgalagadi)
Parcheggiamo la Duster nel piccolo parcheggio dove è obbligatorio sostare prima di aver sbrigato le formalità burocratiche e amministrative di ingresso nel parco.
Un bungalow di canne di bambù e muratura ospita entrambe le autorità di frontiera del Kgalagadi, la Repubblica Sudafricana e il Botswana.
Paghiamo le fees del parco in Rand e ritiriamo una seconda mappa, insieme a materiale informativo del SanParks, l’ente governativo di gestione del parco per il Sudafrica. Il leone è il dominatore assoluto dell’Impero in cui ci apprestiamo ad entrare.
Eppure, la stessa rivista del SanParks tace sulle ragioni più strutturali per cui i leoni del Kgalagadi sono così importanti per il futuro della specie.
Queste ragioni coincidono con le caratteristiche stesse del Kgalagadi.Una porzione di deserto del Kalahari composto da almeno 20 differenti paesaggi che corrispondono ad altrettanti tipi di vegetazione.
(Una pagina della rivista edita dal SanParks sugli animali dei parchi nazionali del Sudafrica)
Bruce Patterson del Field Museum di Chicago ha studiato a lungo la plasticità ecologica del leone.
“Gli studi su un singolo ecosistema necessariamente generano una visione incompleta della specie. Non possono rendere conto del numero di unità evolutive, spiegare le contrastanti informazioni sul comportamento, l’ecologia e anche l’aspetto. Non possono neppure determinare i membri della specie, lo status e le minacce in tutto il range.
Queste sono le ragioni poco conosciute dal pubblico per cui il paradigma di conservazione del leone sta cambiando.
Oggi le prospettive di protezione della specie sono discusseper “landscape” e cioè per popolazioni.
Innanzitutto perché la specie è ormai molto frammentata sotto l’equatore (anche nelle strongholds) e questo vuol dire che è il contesto geografico (landscape) che deve essere ripristinato per dare più chance al leone. E poi perché ogni popolazione è straordinariamente adattata agli ecosistemi in cui sopravvive.
Il ragionamento per landscape è utile anche per progettare l’auspicato ampliamento delle aree da proteggere: ci sono molte regioni adeguate ad ospitare il ritorno dei leoni.
In definitiva, comprendere sempre di più e sempre meglio come singole popolazioni, come quella del Kgalagadi, si muovono, cacciano e si riproducono è di vitale importanza per progettare la protezione del pool genetico dell’intera specie.
(Gli animali del Kgalagadi)
Accanto al leone, nel Kgalagadi prosperano le cosiddette “serie complete” di erbivori e un numero enorme di onnivori e carnivori opportunisti.
Quando la sbarra del check point documenti si alza e ci lascia passare il confine è ormai superato. Come gli intrepidi trekker boeri, anche se ad anni luce dalla loro mentalità e dal loro ardimento, non torniamo più indietro.
(Gli animali del Kgalagadi)
Il Twee Rivieren è l’ultimo avamposto prima del deserto e i pochi turisti che sostano qui in questo momento dell’anno hanno a disposizione dal SanParks attrezzature per il barbecue e qualche alloggio coperto anche se rudimentale, in caso di necessità.
C’è una pompa di benzina, l’ultima fino al Nossob Gate, e un negozio di generi alimentari.
Frutta sciroppata, minestre essiccate Knor, acqua potabile, pies di cipolle e pollo, e anche pelli di springbok conciate per diventare tappeto.
Mangiamo con gli scarponi che affondano nella sabbia color crema delle dune del Twee Rivieren.
(La civiltà Kohmani San che ancora vive nel Kalahari e nel Kgalagadi è patrimonio dell’umanità)
Attraversiamo il distretto industriale di Upington percorrendola Swartmodder, per infilarci sulla Route 360 e proseguire dritto lungo i 200 chilometri di “zona cuscinetto” tra gli insediamenti umani e il Kgalagadi. Un cartello stradale indica la direzione del parco, verso Askham.
E’ un annuncio, un urlo che arriva dalla fine di questi duecento chilometri, dalla sabbia sdrucciolevole del Kalahari. Vuole scuotere la nostra epoca dalle fondamenta. E’ nelle buffle zone che vengono a galla le contraddizioni delle aree protette.
Le buffle zone sono territori di confine in cui il paesaggio umano, e cioè le coltivazioni, le mandrie e le greggi, cedono lentamente il passo agli habitat selvatici.
Il contesto umano dal contesto animale non addomesticato.
I parchi non sono luoghi di riconciliazione o di compromesso, sono decisioni già consolidate a cui adattarsi. Il Trattato di Versailles della conservazione è scritto.
I duecento chilometri della Route 360 sono però anche altro. Appartengono al Kalahari. Ce ne accorgiamo quando l’asfalto scorre sotto le ruote della Duster, come se fosse una unica, nuova dimensione del Pianeta Terra, aggrappata ad un cielo a grumi di nuvole blu e grigie profondo tanto quanto l’irrequietezza perenne della nostra specie.
A Nonieput questo cielo concede a qualunque cosa respiri sotto di lui una pioggia caduca e fuggevole, a grosse gocce simili a biglie. Uno sciacallo giace morto sull’asfalto. Un cartello avvisa che i rapaci si aggirano con occhio scaltro sopra i cespugli.
Siamo già nel Kalahari, ci siamo già dentro in questo inverno 2018 dell’Africa del sud, sulle sabbie rosse disidratate che corrono dietro i finestrini.
Qui le persone sopravvivono allevando pecore e capre. Qualche gregge pascola sulla sabbia l’erba che ha il colore dell’oro, del turchese marino e della salvia. Le bestie appartengono a insediamenti modesti umani modesti.
A Norokeipan il sale viene raccolto in una salina bianchissima, scorticata. Poco più avanti, dopo un lodge abbandonato, incontriamo un pastore a cavallo. Siamo al miglio 163: colline di sabbia rossa riempiono i trencentosessanta gradi di orizzonte che sta tra noi e il possente mondo esterno.
Poi ecco che, improvvisamente, alla nostra destra, compare il profilo marrone di un enorme pan, il tipico lago secco salato del Kalahari, una distesa piatta e infida – sotto la crosta dura potrebbe esserci fango ancora umido – a forma circolare, che assomiglia ad una isola, il modulo geometrico primordiale del Kalahari meridionale e centrale.
Siamo al Goerapan,una conca pianeggiante soffusa di giallo, uno spazio autonomo nella grandezza dello spazio che lo contiene. C’è un motivo se qui le nostre capacità cognitive producono una percezione diretta degli animali selvatici.
Qui, in Africa, li immagini muoversi nello spazio. Riesci a vederli muoversi nello spazio. Sulle dune. E le dune sembrano danzare tutt’attorno. La profondità, sulla linea dell’orizzonte, di questa danza si espande fin dentro il Kalahari. Fin dove riesci a spingere lo sguardo.
E’ un movimento che si fonde con lo spostarsi e il camminare degli animali, mentre ogni specie della terra e del cielo prosegue per il suo viaggio incastonata nello spazio. E questo stesso spazio, per conto suo, dà ritmo, consistenza e significato al frullare delle ali o all’incedere degli zoccoli.
Il pensiero è geografia. Andare, mettersi sulle tracce di questi animali, e raggiungere la grandezza dello spazio là in fondo, dove le dune rosse sconfiggono la misura della distanza e sono, imperturbabili, soltanto Pianeta Terra.
A un paio di metri sotto il bordo sabbioso della strada, in fondo alla scarpata c’è lo scheletro scomposto di uno springbok.
Esaminiamo le piccole vertebre e il cranio bianco ripulito da ogni traccia organica. Le ossa sono ormai solo frammenti, la morte ha colto questo animale molto tempo fa, eppure è il suo mondo, non la materia, a sembrarmi un mondo in dissoluzione.
Nell’Ottocento le genti Ottentotte dicevano agli inglesi che lo springbok è sempre esistito e che quindi non viene da nessun luogo, non ha una origine.
I boscimani del Kalahari centrale custodivano un mito analogo su se stessi: “da dove viene il boscimane? Un sogno ci ha sognati”, racconta Laurens van der Post.
Ma le gazzelle e le genti San e Mier conobbero ciò che prima di loro avevano già conosciuto gli Ottentotti.
Nè i San, né i Mier, né gli Ottentotti hanno avuto un destino felice.
La fauna che conoscevano da millenni non era eterna, era preda, così come lo erano loro, di coloro che in Africa ci erano arrivati dal lontano nord.
Lungo la 360 ci sono negozi di biltong, la carne selvatica secca del Kalahari, insaporita con erbe aromatiche e sale. Si mastica biltong in silenzio mentre si osservano gli animali attorno alle pozze d’acqua, in attesa dei leoni. Il biltong è un cibo ricco di storia, un simbolo del destino di uomini e animali del Sudafrica.
Nel 1931 una delle ragioni per la proclamazione del Kalahari Gemsbok NP fu l’intenzione di prevenire l’eccessiva caccia agli erbivori per mano dei “cacciatori di biltong”. Molti Mier erano cacciatori di questo tipo, essendo stati privati dei diritti di proprietà sulla terra.
Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento i Mier avevano vissuto di allevamento di bovini e pastorizia entro i confini di quello che è oggi il Kgalagadi, ma la perdita della terra, a causa della legislazione progressivamente razzista del Paese, li spinse su altre fonti di approvvigionamento.
Persa la terra, si diedero alla caccia per vendere il biltong e infine la dichiarazione del Gemsbok park (il vecchio nome del Kgalagadi) li condannò anche a perdere i diritti di caccia. Erano cacciatori sgraditi e pericolosi per la “salute” della fauna.
Conflitti disperati, che pur conclusi nelle fase acuta ( quella dei morti, degli abusi, degli sconfitti) segnano ancora il Kgalagadi. Proprio come un secolo fa, sulla pelle degli animali e delle persone si combatte, si mercanteggia, si impone potere.
Gli allevatori di ovini continuano ad essere in guerra con il caracal, la lince del deserto, che uccide e mangia gli agnelli causando ingenti danni economici.
Da metà degli anni ’70 il caracal da queste parti è un problema. E’ in buona compagnia. I leoni del Kgalagadi non hanno mai firmato la pace con nessuno.
Gus Mills è stato il ricercatore sudafricano che ha speso più tempo nel Kgalagadi fra gli anni ’70 e la fine degli anni ’90. L’African Lion Group, nonostante sia in pensione, lo cita ancora tra i massimi conoscitori del parco.
In un paper uscito su KOEDOE nel 1978Mills parlava della convivenza con i leoni del parco: “durante gli ultimi anni ci sono stati considerevoli problemi con i leoni che passavano attraverso le fences lungo i confini sud e sud-occidentali del parco, in particolare dentro l’insediamento del Mier Coloured Settlement.
I leoni però si spostavano anche dai villaggi Mier verso le fattorie sudafricane. Predavano su prede selvatiche, ma occasionalmente anche sulle pecore”.
La prassi del KGNP ( Kalahari Gemsbok NP) prevedeva di riportare i leoni dentro il parco. Ma tavolata l’abbattimento era l’unica via di uscita.
Secondo Mills, gli esemplari che uscivano erano giovani maschi in cerca di un loro pride e di un futuro. In un solo anno, dal gennaio del 1975 al gennaio del 1976, dovettero essere abbattuti 15 leoni.
A quel tempo il Nossob River segnava il confine tra la parte sudafricana dell’area protetta ( Il Kalahari Gemsbok, 9591 Kmq ) e il Gemsbok NP che era per intero in Botswana (esteso per 24.800 Kmq).
Era chiaro che il Botswana giocava la parte principale nella sopravvivenza dei leoni. Mills si era infatti accorto che i leoni del Nossob proseguivano verso Nord e sconfinavano in Botswana. La loro vita era transfrontaliera.
(Le Must River: il salone per gli ospiti con i ricordi del Sudafrica di inizio Novecento)
Sono le 7 di mattina a Upington, Sudafrica. Freddo invernale. Le Must River e il cuore duro dei pionieri. Dei pionieri olandesi che varcavano il confine, anche, sprituale, del fiume Orange.
Oggi si parte per il Kgalagadi, il primo parco transfrontaliero in Africa, nato il 12 maggio del 2000. La conservation area più importante di questa porzione di Africa, paragonabile solo al KaZa, il Kavango Zambesi.
Nel 2000 finiva un’era della protezione degli spazi selvaggi del Sudafrica moderno, un’epoca in cui la totale separazione di territori ricchi di fauna e di flora era un imperativo quasi morale.
Nel 2000 cominciò un nuovo pensiero, che lasciava filtrare in ogni documento l’obbligo alla condivisione delle risorse (i migliaia di Rand che entrano con il turismo, i diritti di caccia e di insediamento di fattorie e villaggi) e la partecipazione dei popoli non bianchi all’idea stessa di “parco nazionale”.
Il Kgalagadi sarebbe stato un simbolo di riconciliazione, un esperimento dalle potenzialità grandiose, la dimostrazione che un discorso transfrontaliero sulle specie da proteggere poteva essere nelle menti e nei cuori della politica sudafricana, e dei suoi vicini, come il Botswana.
Poteva insomma nascere qualcosa di diverso dal Kruger, di più complicato, di più ostico, e di più remoto. Genti e animali stretti in un vincolo giuridico di nuova elaborazione post apartheid e che però rappresentava tutta la questione della conservazione, e non certo solo in Sudafrica.
Non c’è destino di animali che non sia un destino di uomini. Questo disse Il Kgalagadi sin dal suo primo giorno.
Non ci sono più di dieci gradi stamattina e infiliamo le nostre giacche a vento di piumino senza esitazione. Nel salone centrale del Le Must manca il riscaldamento, come succede in tantissimi posti in Africa. Un condizionatore spento ci osserva dalla parete perplesso e intristito, mentre il freddo condensato in umidità appanna la vetrata alla nostra sinistra, da cui vediamo il fiume Orange e i canneti lontani.
I rapaci non sono ancora usciti allo scoperto e gli uccelli del giardino sembrano ignari di un pericoloso gatto domestico che alla fine riesce a infilarsi in cucina. La domestica del Le Must è timida e gentile con noi, e accende subito il fuoco a gas sotto le padelle per preparare uova e bacon.
(Le Must River: la perfetta colazione inglese, anche lei simbolo del colonialismo)
Anche lei non avrà neppure quaranta anni, e ha addosso quell’aspetto dimesso e desolato delle ragazze di Steer, la sera prima. Il suo pile infeltrito mi sembra una protezione insufficiente contro il freddo che deve aver sopportato per essere lì di primo mattino, apposta per noi.
Donne sfinite dalla fatica di un lavoro che non possono amare, dal peso di famiglie esigenti a cui vorrebbero dare molto di più. Bevendo il caffè, do una occhiata in giro. Questo posto ha un arredamento austero e determinato, come il cuore duro dei pionieri olandesi che si spingevano, famiglie a carico, sino al limite del Kalahari.
Non ricordo più dove ho letto che non tutti i popoli hanno lo spirito dei pionieri.
Chiunque abbia portato fino all’Orange questi piatti rosa Rococò di produzione francese ebbe un coraggio tanto vasto da sentirsi a casa sua contemplando orizzonti ostili e crudeli. Indietro non voleva tornare.
Perché indietro non si torna, e perché poteva appartenere ad un altro luogo, migliore per lui dei vezzosi giardini di Versailles, se solo avesse voluto abbastanza, con quel volere che non accetta ragioni e impara a sopravvivere dicendo di no.
(Una brutale volontà di rinnovamento economico e spirituale motivò i trekker Boeri due secoli fa)
Fatto sta che poderosi NO ripetuti da queste parti per decenni portarono infine all’espropriazione totale delle terre delle genti indigene, ingiustizia nient’affatto risolta in venti anni di democrazia.
La spartizione equa della terra è una questione rovente nel Sudafrica del presidente ANC Cyril Ramaposa. Secondo la BBC, alla fine dell’apartheid nel 1994 il governo dello African National Congress “disse di voler restituire il 30% ai proprietari precedenti entro il 2014”.
I proprietari legittimi erano i neri a cui nel 1913, attraverso il Native Land Act, venne impedito di acquistare o affittare terra nel “white South Africa”.
Di fatto, solo il 10% della terra adatta a fattorie è stato restituito. E da qui si è ricominciato a discutere su come redistribuire, ossia, in sintesi, su come far fronte ad una domanda di giustizia ancora assetata.
(Le Must River: le ferite dell’apartheid sono ancora visibili e reali a Upington)
Un hamburger da Steer nella notte di Upington. Quanto ridicolo è il vegerarianismo occidentale quando ci si trova nella notte scura di una piccola città africana.
Sono le sette di sera e il centro di Upington è piombato in un buio nero. Credo di non aver mai cercato un posto in cui cenare in una tenebra così fitta. Il freddo s’è fatto pungente, non ci sono più di dieci gradi. I lampioni sono pochissimi.
Le strade a tal punto deserte di ogni presenza umana che sembrano vivi i manichini senza testa delle vetrine illuminate in un grosso magazzino di abiti in poliammide a basso costo. Gonne e camicette imitano la moda di Londra e Milano.
Anche qui, le ballerine finto Tod’s. I rivenditori di suv lussuosi – Volkswagen, Mercedes – brillano nella notte, testimoni di quanto sia evidentemente importante ad Upington e dintorni poter contare su una macchina di una certa cilindrata.
Il locale è vuoto, e ci lavorano solo donne. Avranno una trentina di anni, indossano una divisa di un blu stinto e hanno per noi una certa riservatezza ruvida, con cui non è per niente facile entrare in sintonia. Ma non per via dell’accento inglese anni luce dal Brit Oxford. C’è qualcosa di respingente che si sforza di mostrare gentilezza senza riuscirci.
Un televisore acceso diffonde musica rap di cantanti neri sudafricani, ostentatamente allegri, grintosi, decisi a dire la loro al mondo.
Ordiniamo un paio di hamburger e mentre aspettiamo entrano alcuni giovani che prendono un gelato alla vaniglia incappucciato da una glassa arancione.
Dietro il bancone si intravede la cucina con un grill per gli hamburger e le bistecche e un bidone di latta per l’olio da frittura. Il buio totale dell’esterno penetra nel fast food.
Questo cibo, penso, non è africano. E’ un cibo globale, conformista, ben adattato, come una specie generalista, standardizzato fino a parlare tutte le lingue. Eppure è buono.
La carne del nostro hamburger non proviene da vacche allevate in batteria. Il sapore trattiene il profumo delle erbe del pascolo all’aperto. Oppone resistenza al gusto pastorizzato del cheddar. Le patate sono state fritte pochi minuti prima. C’è qualcosa di biblico in questo hamburger.
L’essere umano combatte le sue battaglie, giuste o infami, anche nel cibo che produce, che predilige e che impone ad altri popoli. Qui a Upington si mangia all’americana, all’inglese, così come si parla afrikaans e inglese.
Ma in fondo, se approfondisci l’antropologia linguistica del North Cape, frammenti sperduti delle 23 lingue San quasi completamente estinte dopo i genocidi dell’Ottocento e la legislazione razzista del secolo scorso spuntano tra i cespugli del veld, negli interstizi tra le palme e i muri bianchi delle ville sul fiume.
E anche nel tuo cervello che non conosce una parola di questi dialetti perché non ha mai studiato una sola pagina di storia africana in almeno 15 anni di scuola, lassù, in Europa.
Prima di partire avevo letto decine di paper sulla necessità di poter contare su habitat sempre più estesi per proteggere la megafauna rimasta sul nostro Pianeta, in Africa. Tutto vero.
Ma adesso, con il buio della notte alle spalle, mentre Davide aggiorna i suoi followers su Instagram, non sono più così sicura della mia documentazione scientifica. Non è abbastanza.
Mi occorre anche uno spazio mentale per l’eredità coloniale europea in mezzo alle genti del North Cape. Non sono preparata per questo, nella stagione urlata delle migrazioni che inondano Lampedusa, le coste spagnole e il confine francese prima dell’imbarco per La Manica e l’Inghilterra.
(Il tramonto sul fiume Orange dalla veranda di Le Must River Residence, Upington)
L’infanzia al tramonto sul fiume Orange. Così è per me, perché mi sembra di aver sognato questo momento per tutta la vita. L’Africa che ho sempre desiderato cominciava con il fiume Orange, e con i libri di Wilbur Smith. Un bel pezzo prima delle mie letture sulla genetica di popolazione dei maestosi felini africani.
In questa stagione dell’anno, il sole nella provincia del North Cape, Sudafrica, tramonta in trenta minuti. Il tramonto annuncia se stesso nel calare repentino della radiazione luminosa e poi conclude la sua storia.
Impone su tutto la parola fine. Non concede appelli. Incendia il mondo e poi proclama il suo no. Oltre questo, nulla sarà concesso per oggi.
Il tramonto sull’Orange ha il colore del corallo. Un elicottero trascorre nel cielo, verso est, ma il tuono del motore è assorbito dal canto di centinaia di uccelli. C’è qualcosa della mia infanzia in questa attesa che ogni sfumatura arancione e rosa svanisca, inghiottita dalla fine di questo giorno.
Il primo libro che ho letto sull’Africa fu Quando vola il falco, di Wilbur Smith (pubblicato in Italia nel 1980). La vicenda si svolgeva nella ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, nell’Ottocento.
I protagonisti erano pionieri di vario genere, che andassero a caccia di diamanti o del regno perduto di Monomotapa. Gente inglese tostissima alla ricerca di qualcosa che ingannevolmente credeva di trovare nella soddisfazione della propria avidità coloniale.
I Ballantyne non riuscivano mai davvero a possedere in via definitiva ciò che desideravano.
Avevano fame di vita, un tipo di fame che non riuscivano a soddisfare in Europa. Non sono poi così diversi gli ideali in nome dei quali moltissimi occidentali sono disposti a pagare migliaia di dollari per visitare ciò che è oggi il territorio della Provincia del Capo e del Botswana.
Ma nessuno può avere coscienza di quel che accade nella sua epoca fintanto che è in vita.
Siamo tutti irretiti in una sorta di inganno esistenziale. Dovremmo sentirci responsabili del collasso ecologico, ma la civiltà in cui siamo nati ha leggi e vincoli troppo cogenti per lasciar respirare la nostra coscienza.
Ci ha voluti esattamente come siamo.
Questo condiziona il nostro senso etico, oltre che la nostra intelligenza.
Pensare storicamente sembra ormai un privilegio per intellettuali. Non è affatto quel diritto acquisito dal secondo dopoguerra che la propaganda della cultura di massa dichiara essere “un bene collettivo”.
Siamo soli dinanzi al declino biologico del Pianeta esattamente come fummo soli, benché colpevoli, durante l’epoca coloniale.
L’epoica che, in questo pezzo di Africa, pose le fondamenta dello stato faunistico attuale.
(Il giardino del Le Must River sprofonda nel tramonto del fiume Orange)
Già nel 1657 nel Capo gli Olandesi cercarono di stabilire delle restrizioni per la caccia agli elefanti, ai rinoceronti e agli ippopotami davanti ai loro numeri in declino”.
Nell’Ottocento il Kalahari era un importante crocevia per la raccolta e il commercio di prodotti animali preziosi, destinati alle ricche elites borghesi del Nord Europa: avorio, pellicce (dei gatti maculati), denti di ippopotamo e piume di struzzo.
Le rotte commerciali seguivano le piste nel deserto datate all’Età del Ferro, su cui era più semplice individuare gli animali e seguirli secondo le stagioni.
Ma anche gli animali allevati, primariamente le vacche, ebbero il loro ruolo in questa appropriazione della terra che portava con sé lo sfruttamento biopolitico delle risorse.
Nel periodo tra ‘800 e ‘900 gli allevatori scavarono pozze d’acqua nella valle del fiume Nossob, nel Kgalagadi allora ancora non protetto, per abbeverare le mandrie.
Essa rimane dietro di noi, sfumando i propri contorni sino a diventare irriconoscibile al pensiero conscio. Ma ogni infanzia è una traccia.
Quelle zebre hanno posto condizioni all’ecosistema attraverso la loro assenza.
I semi gettati in noi da bambini sono gli unici a germogliare. Sono premesse, anticipazioni, profezie che attendono la pioggia.
La defaunazione del Kalahari assomiglia a una infanzia violenta, che pur sottoposta allo scandaglio di anni di psicoanalisi, dà una sua forma, soltanto sua, al presente.
Questo penso dinanzi al tramonto sull’Orange, tentando di rammentare la storia di Robyn Ballantyne, innamorata di un trafficante di schiavi.
La trama lontanissima di un racconto africano qui a Le Must, dove probabilmente domani mattina una donna nera ci servirà una perfetta colazione britannica.
Adesso l’Africa è per noi Europei un altro avamposto, dove pretendiamo di dare lezioni su cosa è la natura secondo parametri astratti bianchi.
Sostanziali, indispensabili, ma elaborati nelle terre del Nord.
Sì, i semi gettati in noi da bambini sono costretti a germogliare, perché sono i primi semi di un terreno vergine.
Tutto ciò che avviene per la prima volta ha questa forza germinativa unica, irripetibile.
Ci sono legami storici indissolubili. Legami forti come tendini di springbok. Che resistono ai secoli.
Don’t play to the gallery and never work for other people. Penso a David Bowie mentre la Duster scivola lungo il pendio di Budler Street. La spedizione al Kgalagadi Transfrontier è stata una scelta controcorrente. Tutto molto più difficile che al Masai Mara o al Grande Kruger.
E sia. Era quello che volevo. Provare a rintracciare i leoni in un habitat di loro proprietà, non in mano a concessioni estere trapiantate dentro la retorica a buon prezzo della protezione delle specie.
Il parco è remoto, semi sconosciuto in Italia, ed evanescente negli assessment celebri sul futuro del leone africano. Fintanto che non arrivano milioni di dollari di finanziamento per studi decennali, nessun hot spot ha diritto ad esistere nell’immaginario collettivo del mondo ricco e bianco.
Eppure, qui è immensa, ancora all’opera con la sua crudeltà, la forza dei conflitti che hanno formato il mondo contemporaneo, e la nostra relazione coloniale, post-coloniale, migratoria con l’Africa della provincia del Capo.
Nel primo pomeriggio Upington è soffusa dal colore giallo avvolgente del veld, una promessa cromatica del fatto che il Kalahari dista da qui solo duecento chilometri.
Passeremo la notte al Le Must River, una villa in stile francese, ma dalla atmosfera inconfondibilmente afrikaner, con servizio di bed & breakfast.
La padrona di casa, una cinquantenne molto cortese con un pesante kajal nero attorno agli occhi e una frangia biondo platino anni ’80, ci accompagna in una piccola dependance.
Numerosi uccelli si posano senza sosta sugli alberi del giardino, latifoglie sfibrate dalla stagione secca, in attesa, anche loro, che i tempi siano di nuovo maturi per qualcosa di nuovo.
Dietro l’edificio principale, che custodisce un arredamento coloniale di cuoio e legno, il giardino declina verso il fiume Orange. Un’oasi fluviale a canneto, su cui volteggiano, in lontananza, le aquile.
Il connubio resistente, come una corda fatta dei tendini di un animale selvatico, tra l’insediamento umano e l’esplosione della natura selvatica accade davanti ai nostri occhi. Sembra un miracolo, almeno a me. Siamo in Sudafrica.
Un tale connubio di noto e ignoto, di stridente e ormai legittimo dipende dal nostro essere Europei.
Nonostante il colonialismo. Anche se aborriamo il colonialismo.
Non potremo mai fare a meno di essere europei.
Qualunque cosa incontreremo al Kgalagadi.
Perché ogni elemento di questo posto lo hanno plasmato i nostri antenati Europei a partire dal XVII secolo.
E ora, come Europei, siamo qui per prendere appunti e scattare foto, sulla consapevolezza dei nostri eccessi e dei nostri errori che chiamiamo “conservazione della natura”.
Scrisse Achinua Achebe: “non c’è storia che non sia vera, il mondo è infinito, e quello che è bene per un popolo è male per altri”.
(Il nostro aereo appena atterrato a Upington dal Tambo Airport di Johannesburg)
Siamo a Upington, Sudafrica, distretto Afrikaner, nervo ancora scoperto del lento processo di riconciliazione nazionale dopo la fine dell’apartheid nel 1991. Upington: terra San dove si parla afrikaans.
Dopo quattro interminabili ore al Tambo di Johannesburg, e una tazza di tè verde, atterriamo a Upington.
Il nostro aereo, un Airlink affusolato come un Concorde, plana sulla contea di Orange morbido come l’ora meridiana in cui l’Africa mi accoglie di nuovo, a distanza di otto anni dal nostro primo incontro.
La regione sotto di noi è ondulata, rossa come argilla bagnata di un campo da tennis, percorsa dalle vene nervose di ruscelli essiccati dalla stagione invernale che le danno le sembianze di un organismo vivente.
I motori Rolls-Royce dell’aereo accompagnano l’atterraggio in un lungo, meditato sospiro.
L’aeroporto è lindo, ordinatissimo, atto politico e dichiarazione di provate qualità amministrative. Una gigantografia di un gruppo di Boscimani annunzia le intenzioni del governo centrale qui, dove la lingua ufficiale è l’afrikaans (il dialetto olandese che ancora oggi si contende con l’inglese la legittimità di lingua nazionale nelle scuole dell’obbligo).
Ma lo sconfinato veld che si estende verso nord ovest, in direzione del confine con la Namibia e del Kgalagadi, fu per millenni nazione San.
Il ritratto di questa gente piazzato al centro del salone principale è quasi surreale. Ogni ricordo, ogni memoria, soprattutto quando di mezzo ci sono genocidi e stermini programmati, suona sempre un po’ come un imbarazzo di Stato, un pudore che non vuole stare al suo posto.
Noi Europei sappiamo bene quanto la memoria istituzionale non sia sufficiente per recuperare alla coscienza gli atti brutali del passato.
Il male commesso rimane sempre una sostanza vischiosa, appiccicosa, che tutti proviamo a inghiottire per decenni, a volte per secoli, senza accorgerci che non esiste presente senza il passato di cui vorremmo sbarazzarci con una nuova, impossibile etica.
Questi San sorridenti, dignitosi, mi fanno l’effetto opposto di quello previsto negli intenti della fotografia.
Come spesso è accaduto, l’estinzione di un popolo coincise con l’estinzione di specie animali.
(Tributo ed omaggio alla civiltà San all’interno dell’aeroporto di Upington, Sudafrica, Northern Cape)
Mentre i San scomparivano dallo Stato libero di Orange, dal Transvaal, dal Kalahari, veniva spazzato via anche il leone del Capo.
Al Tambo avevo dato un’occhiata alle pubblicazioni nazionali in un bookshop che vende soprattutto riviste di caccia da trofeo e manuali semplificati sulla megafauna dei parchi sudafricani.
Nessuno tenta di nascondere il fatto che il Paese fa affari con gli animali in molti modi, compreso l’allevamento di leoni da massacrare per sport, smembrare e rivendere a pezzi sul mercato cinese.
Biko in Europa è stato sostanzialmente dimenticato, ma per quanti, come me, vissero da ragazzi le fasi finali dell’Apartheid ascoltando Peter Gabriel e i Simple Minds, Biko è ancora oggi uno di quegli eroi dotati di un innata capacità poetica.
(Upington, Sudafrica, nelle prime ore del pomeriggio)
Mentre aspettiamo la nostra valigia sul nastro bagagli degli arrivi, un paio di Chesna rollano sulla pista di atterraggio. L’erba del veld è gialla e ruvida, l’aria fresca e azzurra.
Prendiamo a noleggio la nostra Duster al banco della Bidvest e ci immettiamo sulla lunga arteria cittadina che attraversa gli Sports grounds di Upington e si immette sulla Borcherd.
Un allevamento di cavalli da Polo riposa sotto il sole, in attesa del tramonto.
Ville intonacate di bianco, a un solo piano, con qualche pianta grassa sul patio smorzano a contrasto il colore rosso ferro della terra sabbiosa.
Superiamo lo svincolo con Xo Wey e svoltiamo per scendere lungo il fiume Orange, verso la Budler Street.