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Perché non crediamo che l’estinzione è reale?

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La pubblicazione del Global Assessment IPBES sullo stato della biodiversità ha forse per la prima volta posto dinanzi all’opinione pubblica la realtà storica della sesta estinzione. Ma se il cambiamento climatico è già da tempo in qualche modo parte dell’immaginario collettivo, per l’estinzione è tutto un altro discorso. Perché non crediamo che l’estinzione è reale? Perché non riusciamo a metterla a fuoco?

Nonostante la quantità di dati scientifici a nostra disposizione, la maggioranza dei cittadini continua, questa verità, ad eluderla, a scansarla, a considerarla, tutto sommato, forse, eccessiva. Una esagerazione degli ambientalisti. L’evidenza della sesta estinzione è cioè andata incontro ad un processo di normalizzazione. Si dà per scontato che le specie animali debbano essere meno numerose degli esseri umani. E si considera legittimo che alcuni esseri umani (gli abitanti del Nord Globale) debbano vivere meglio di altri, traendo maggiori vantaggi proprio dalla contrazione numerica dei non-umani.

Perché?

Nell’epoca della “post-verità”, il non credere in nulla – lo scetticismo, l’ipercriticismo, il nichilismo – è considerato dai più una strategia di sopravvivenza quotidiana. Fregarsene del Pianeta aiuta a tollerare l’ingiustizia patita ogni giorno sul lavoro, nella vita privata, nelle frustrazioni esistenziali che la Modernità impone come riti di passaggio al pragmatismo e alla competizione perenni.

La stessa felicità personale non è percepita come una dimensione vincolata allo stato della biosfera. Eppure, la felicità stessa è una questione ecologica.

Ne ho già abbastanza di mio, devo forse preoccuparmi del contesto? Questa è una delle trappole del nostro tempo. Abbandonare la biosfera al suo destino perché la propria storia personale è già carica di amarezza. E’ così che lo sconforto e la sconfitta diventano politica ecologica alla rovescia. L’apatia non lascia tutto invariato. Aiuta l’avanzare della distruzione.

Ma la verità, oggi, è osteggiata anche perché possiede in sé la forza dirompente della norma, della Legge a cui non si può scappare: come quando viene diagnosticata una mallattia seria. Prendere in considerazione la sesta estinzione, molto più intensamente di quando accada con il cambiamento climatico, significa lasciarsi coinvolgere dalla inevitabilità di condizioni ambientali che non dipendono più solo dalla propria volontà. O dai propri sogni. Tutto cambierebbe.

La verità del collasso del Pianeta per moltissime persone è più indigesta della menzogna, della manipolazione e della deliberata distruzione del bene comune. 

Il rifiuto della verità significa anche respingere il dubbio che ci sia qualcosa di falso nelle certezze economiche su cui abbiamo costruito i nostri argini contro l’arrivo del Grande Inverno: la crescita economica, il mercato come risposta esistenziale ai bisogni umani, una demografia autarchica e narcisista. L’ideologia della crescita è il mito fondativo della civiltà moderna. E non si abbandonano i vecchi miti, fino a quando non ne siano sorti di nuovi.

La critica al sistema consolidato, non importa quanto lacunoso e rapace, è vissuta da una parte consistente dell’opinione pubblica come una minaccia alla propria sopravvivenza psicologica.

Persistere nella convinzione che la fine dell’Era dei Mammiferi sia fantascienza permette di potersi ancora aggrappare ad una confortante mediocrità emotiva.

La verità, in questo XXI secolo, non è più oggetto di fede. Neppure quella scientifica.

Nel passato pre-rinascimentale l’uomo di fede si affidava alla verità per non tradire, insieme a se stesso, l’ordine del cosmo. Nell’era dell’estinzione, invece, la verità ha un effetto di disgregazione portentoso sui pensieri e sulle azioni. Questo è il punto zero dello scetticismo civile.

Abbiamo bisogno di non credere che l’estinzione sia reale, per rimanere noi stessi. Ed è dunque questa identità (il portentoso IO Occidentale) che dovrà, un giorno, essere messo in discussione.

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