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Il sorgere del sole nel cratere di NgoroNgoro, in Tanzania, sembra portare con sé tutte le promesse dell’alba del mondo. La luce si spande sulle colline che circondano il cratere e accarezza le piccole capanne rotonde dei boma, i villaggi tradizionali dei Maasai. Ogni cosa è al suo posto, in una sorta di giustizia ancestrale e di pace cosmica. Ma nulla di questa estasi è davvero come appare. Il cratere di NgoroNgoro è denso di conflitti sempre più bellicosi. Ed è un falso Eden.

Da una parte i Maasai, che negli anni ’50 ottennero dall’autorità coloniale britannica il permesso di continuare ad abitare nel cratere e sulle sue pendici. Dall’altra parte il Governo centrale, che si sente addosso tutte le contraddizioni implicite in un modello di protezione ecologica che non regge più.

Un governo che vorrebbe ampliare e intensificare il turismo d’élite, che però è diventato un problema ambientale molto serio: nel 2000 entravano nel cratere 30.782 Land Rover da safari, diventate 113.423 nel 2018. Ora i Maasai reclamano più diritti di proprietà, e di insediamento, perché la loro comunità cresce di numero, ed è cronicamente affamata e povera.

Una infuocata domanda di giustizia, dunque, nel parco nazionale attraverso cui passa la grande migrazione di quasi un milione di gnu diretti alle pianure del Serengeti e del Masai Mara.

Una migrazione che rischia di scomparire entro qualche decennio, a causa della sempre più invasiva pressione umana. C’è molto che i turisti dovrebbero leggere in una guida di viaggio a NgoroNgoro.

Sotto scrutinio per una revisione che potrebbe avere implicazioni storiche, è il Multiple Land Use Model (MLULM). Il MLULM è la cornice amministrativa entro cui da sempre il Governo centrale regolamenta la pastorizia nomade e l’economia della wildlife dentro NgoroNgoro. Secondo i movimenti per i diritti civili dei popoli indigeni e la comunità Maasai, la strada intrapresa dal Governo è la progressiva espulsione dei Maasai.

Una politica su base etnica per favorire le organizzazioni internazionali bianche dedicate alla protezione degli animali. E l’industria del safari. Una accusa che non desta sorpresa nel fronte avanguardista della conservazione: gli ecologi e i sociologi che ritengono il modello dei parchi nazionali una forma di neocolonialismo militarizzato. 

Tornano a ribollire, dunque, i rancori mai sopiti filtrati dentro la Tanzania indipendente del 1961. Ma dall’altra parte della barricata c’è una voragine di governance della stessa conservazione della natura. La miseria di chi con la megafauna selvatica ci vive da secoli, stock genetici di intere specie in caduta libera, pressioni occulte lungo canali diplomatici impalpabili che, forse, hanno come obiettivo finale stoccare enormi riserve là dove è più facile bypassare diritti e leggi. Mentre avanza l’industrializzazione green e l’accaparramento delle risorse minerarie e naturali indispensabili per sostenerla. 

Il conflitto tra Maasai e governo centrale

Lo Oakland Institute (una ONG californiana che stende dettagliati report sulla violazione dei diritti umani dei popoli nativi) ritiene che la revisione del MLULM suggerisca che l’intenzione del Governo è il reinsediamento, la “deportazione”, dei Maasai fuori da NgoroNgoro. 

“Sviluppato per venire incontro alle preoccupazioni delle agenzie internazionali per la conservazione e generare proventi dal turismo, il piano è l’ultimo capitolo della storia di espulsione e distruzione dei mezzi di sussistenza dei pastori indigeni della Tanzania in nome della conservazione”. Caustico è l’attacco ai principali attori della protezione delle faune selvatiche, che avrebbero a cuore la pure wilderness, ossia l’ideale ottocentesco di una natura selvaggia senza esseri umani, intonsa, congelata in una sorta di perfezione incontaminata. La stessa natura offerta all’immaginazione dei turisti occidentali. 

La Tanzania non è nuova ad accuse di violazione dei diritti umani. Nel 2015, con l’elezione alla presidenza di John Magufuli, il Paese ha intrapreso una china secondo molti osservatori di stampo autoritario. Da allora, la repressione delle voci critiche si è intensificata. Dopo l’improvvisa morte di Magufuli lo scorso marzo (probabilmente per Covid), è diventata presidente una donna del suo stretto entourage, Samiaa Hassan. 

Le prime dichiarazioni ufficiali della Hassan sembravano incoraggianti. Oggi la stretta del Governo sui presunti dissidenti è invece ripresa. Ad agosto è stato annunciato il processo per Freeman Mbowe, il leader del partito Chadema, il principale partito di opposizione che chiede una revisione della Costituzione.

Tutto il Paese si trova quindi in uno stato di notevole fibrillazione interna, in cui il mantenimento dello status quo coincide con un rafforzamento degli orientamenti politici già consolidati. Anche nelle politiche ambientali.

L’ufficio stampa del Ministero dell’Ambiente non ha risposto ad una mail di chiarimento sugli scopi del MLULM.

Di certo, c’è consapevolezza che il mantenimento di NgoroNgoro si è fatto molto più complicato. Il Governo prospetta una crescita enorme delle mandrie dei Maasai dagli attuali 230mila capi (dato del 2017) a 800mila entro il 2038. Gli stessi Maasai potrebbero diventare 200mila. Non c’è dubbio che la questione demografica, qui come altrove, abbia una sua consistenza.

Si pensa dunque di allargare i confini dell’area protetta, mettendo un tetto al numero di bovini (non più di 117mila) e di persone (non più di 20mila Maasai). Bisognerebbe annettere a NgoroNgoro il Lake Natron, portando il totale dell’area protetta a 3.494 Kmq, a cui aggiungere una “conservation sub-zone” di 1.053 kmq per lo sviluppo turistico e infine una “transition zone” di 5.398 kmq senza villaggi, solo per il pascolo stagionale. Una decisione in questa direzione implica un decreto legislativo che cambia lo status giuridico di NgoroNgoro in vigore da 70 anni.

La questione ecologica è diventata perciò una questione umanitaria, e morale. Per dare più spazio alla protezione della fauna, bisogna concederne di meno ai Maasai. È giusto che sempre più turisti visitino il cratere mentre i nativi sono spinti ai margini delle zone cuscinetto del parco?

Il falso Eden di NgoroNgoro
(Il Gate di ingresso alla Ngorongoro Conservation Area)

Secondo lo Oakland (The Looming Threat of Eviction: The Continued Displacement of the Maasai Under the Guise of Conservation in Ngorongoro Conservation Area) il governo centrale avrebbe agito in maniera tale da  garantire al MLULM le informazioni di una missione investigativa condotta nell’intera regione (il distretto di Karatu) nel marzo del 2019 da una spedizione congiunta di esperti UNESCO WHC (Unesco World Heritage Centre), IUCN e ICOMOS (International Council on Monuments and Sites). 

La missione era chiamata a dare un parere sulla volontà del Governo di far inserire il sito paleo-archeologico di Laetoli (il Laetoli Hominin Footprints Museum) nella definizione di “luogo patrimonio dell’umanità” già accordato a NgoroNgoro nel 1972. La vicina Olduvai Gorge, “culla dell’umanità”, è sito UNESCO dal 1979. Qui, alla fine degli anni ‘60 gli scavi condotti da Mary e Louis Leakey portarono alla luce i resti dell’Australopitecus boisei e poi di decine di altri ominidi.

Anche Laetoli è un sito fondamentale per la ricostruzione della storia evolutiva umana. Nel 1979 la Leakey vi scoprì alcune ossa di un Australopitecus afarensis, un altro antenato del complesso “cespuglio” dei nostri progenitori. In un ipotetico futuro, la regione avrebbe tutte le potenzialità per diventare un parco archeologico da affiancare al parco naturale. Una esperienza totale della profondità temporale ed ecologica dell’appartenenza del genere umano al rift dell’Africa orientale. Un connubio che vale da solo intere strategie di marketing. 

Per Oakland Institute, nel rapporto finale della missione c’è una commistione di interessi tra gli esperti degli organismi internazionali e gli obiettivi del governo. “La NCAA (NgoroNgoro Conservation Area Administration) ha bisogno urgente di implementare politiche stringenti per controllare la crescita della popolazione e il suo conseguente impatto sullo spettacolare valore universale dell’area”, sostennero gli inviati speciali nel 2019.

La missione chiedeva pertanto al governo “di completare la revisione del MLUM e di condividerne i risultati con WHC (World Heritage Committee Unesco) e i gruppi di consiglio correlati, per dare indicazioni sul modello di uso del territorio più appropriato, inclusa la questione dello stanziamento delle comunità locali nelle aree protette”. L’accusa è dunque di dare man forte alla visione della “conservazione fortezza”, che esclude i nativi approfittando della questione demografica. 

IUCN è impegnata da anni nella valorizzazione dei popoli nativi nella protezione della natura. E nel XXI secolo non si può fare conservazione senza la IUCN. La stessa Red List, la più vasta catalogazione aggiornata delle specie in pericolo di estinzione, è compilata dagli esperti che collaborano con IUCN. La descrizione della natura nel XXI secolo dipende in buona misura dai rapporti (assessment) che la IUCN raccoglie per valutare il rischio di estinzione di migliaia di specie.

Raggiunta via email, la sede centrale di Ginevra, in Svizzera, ha così ribattuto alle accuse dello Oakland Institute: “la missione congiunta del 2019 organizzata da World Heritage Centre, ICOMOS e IUCN è stata condotta da esperti con molta esperienza di questa regione africana, due dei quali sono site manager del World Heritage. La missione aveva il mandato di valutare, e poi fornire raccomandazioni, su una serie di questioni che riguardano la protezione della NgoroNgoro Conservation Area World Heritage Site. Una di queste questioni era la sostenibilità degli stili di vita delle comunità locali”. La missione ha quindi consigliato il Governo di “continuare a confrontarsi con le comunità locali e tutti i soggetti coinvolti per esplorare soluzioni di stili di vita alternativi rispetto all’attuale schema di reinsediamento volontario”.

IUCN sottolinea anche che “in un nostro recente incontro con il Governo della Tanzania e la NgoroNgoro Conservation Autority (NCAA) siamo stati informati del fatto che non c’è nessuna pianificata espulsione dei Maasai”. 

Il falso Eden di NgoroNgoro
(La vista mozzafiato sulla Olduvai Gorge come appare dal Museo dedicato ai Leakey)

Il turismo è una minaccia sempre più seria

In realtà, leggendo il Rapporto Finale della missione, emerge non solo uno scenario molto più complesso di quello presentato dallo Oakland Institute, ma addirittura più drammatico. L’intreccio di rivendicazioni umanitarie e imminente fragilità ecologica ha creato una condizione esplosiva.

La missione doveva capire l’impatto di una nuova strada asfaltata, che il governo considera indispensabile, e di valutare una ulteriore spinta sul turismo. La presenza dei Maasai non è vista come un problema etnico di per sé. Ma come un sintomo del limite raggiunto nell’idea di sviluppo turistico che nessuno prendeva seriamente in considerazione fino a 10 anni fa.

“Con il cambiamento delle condizioni di vita, è imperativo intraprendere una ricerca etnografica per aggiornare le informazioni già esistenti sulle pratiche culturali e i sistemi di pensiero, inclusa la cultura materiale delle persone che vivono all’interno del possedimento (ndr, la NgoroNgoro è di proprietà nazionale)”, conclude il Rapporto Finale.

IUCN e Unesco osservano che “rispetto a quando venne definito l’assetto giuridico dell’area, e venne auspicata la coesistenza pacifica degli esseri umani e degli animali selvatici in un contesto tradizionale, entrambi questi elementi non sono rimasti statici nel corso dei decenni. Nel 2018 la NCA registrò 93.136 abitanti.

La proiezione è che la popolazione raggiunga i 161mila abitanti entro il 2027”. E poi c’è il clima: “con il cambiamento climatico e l’imprevedibilità delle precipitazioni, la siccità e la scarsità dei terreni da pascolo e delle risorse idriche all’interno dell’area designata alla conservazione hanno contribuito ad espandere gli insediamenti dentro la proprietà, perché le persone sono in cerca di opzioni per vivere”. 

Il Governo, da parte sua, dovrebbe monitorare l’impatto del turismo, ma non dispone di una “carrying capacity integrata”. La missione dice in sostanza che per decidere al meglio del futuro di NgoroNgoro in Tanzania è indispensabile avere in mano molte più informazioni sul tipo di attività umane che questa regione può reggere.

La “capacità di carico” di NgoroNgoro

La carrying capacity (letteralmente, “capacità di carico”) è una valutazione, fondata su dati scientifici, del numero massimo di animali e persone che un territorio circoscritto può sostenere. Ogni ecosistema ha un suo limite di carico. Le aree protette sono isole in un contesto ambientale che pullula di campi coltivati, villaggi, strade, impianti industriali. Sono di fatto ecosistemi chiusi. La capacità di carico garantisce la stabilità, che dipende dall’equilibrio tra le risorse naturali consumate e la capacità di rigenerazione delle vegetazione, il tasso di riproduzione degli animali selvatici e l’intensità della competizione con le attività umane.

Ecco perché oggi si discute di come allargare i grandi parchi nazionali su scala continentale, per recuperare ampie porzioni di natura in modo da garantire gli spostamenti degli animali e la funzionalità ecologica. Come farlo, è poi un altro discorso. Ed è la controversia in cui sta dentro anche il cratere di NgoroNgoro.

Per oltre un secolo, in questa porzione di Africa orientale, i Maasai sono stati accusati di mettere in pericolo la prosperità delle savane. Eppure, studi condotti tra il 1975 e il 2000 fornirono evidenze a favore delle rivendicazioni dei Maasai. Studi che mettevano a confronto Tanzania e Kenya, che condividono l’enorme ecosistema del Serengeti-Masai Mara. 

In quegli anni, il Kenya assistette ad un crollo vertiginoso del numero di animali selvatici. Alcune specie di erbivori come il kobo, la gazzella di Thompson e l’alcelafo rosso diminuirono del 60%. Le giraffe e i bufali fino all’88%. E gli gnu, protagonisti della grande migrazione, del 75%. Nulla di tutto questo accadeva intanto in Tanzania, dove i Maasai continuavano a lasciar pascolare le loro vacche dentro NgoroNgoro e nella Loliondo Game Controlled Area. 

La Loliondo è una zona a protezione naturalistica ridotta, con diritto di residenza per i pastori Maasai. Gli gnu in migrazione si disperdono anche in questo tipo di zone cuscinetto a ridosso dei parchi. Negli anni ’80 e negli anni ’90, in  Kenya, i ranch privati attorno al Masai Mara sfruttarono i buoni prezzi di mercato per convertirsi alla coltivazione meccanizzata del mais. 

E così mentre nelle terre Maasai della Tanzania gli gnu continuavano a migrare senza grossi ostacoli, in Kenya ne trovano di fatali. I campi. Secondo il Bureau of Statistics della Tanzania, tra il 1978 e il 1988 la popolazione dei Maasai di NgoroNgoro crebbe del 3.6% annuo e le mandrie rimasero più o meno sempre le stesse. Non stava lì il rischio per le specie selvatiche. 

Se Loliondo dovesse essere incluso dentro NgoroNgoro, ci sarebbero gli appoggi giuridici giusti per ampliare il turismo mettendo parte della riserva sotto regime di stretta conservazione naturalistica.

Il falso Eden di NgoroNgoro
(Una leonessa nell’erba alta del cratere di NgoroNgoro. Secondo una stima recente del gruppo di ricerca KOPE LIONS, i leoni di NgoroNgoro sono circa 80. Questi felini sono i discendenti di leoni su cui si hanno dati a partire dagli anni Sessanta)

Pressioni internazionali

Del tutto inutile, e fuorviante, è nondimeno il richiamo della Tanzania al pieno rispetto della firma apposta sulla UN Declaration on the Rights of Indigenous People. Molto più cogente è infatti la contraddizione sostanziale in cui è imbrigliata la conservazione in Africa. La protezione della natura africana dipende da un assetto politico-economico deciso fuori dal continente. Sono state la nazioni occidentali a stabilire che cosa era la natura africana e quindi ad attribuirle un significato che fosse ritagliato sulle esigenze dei propri cittadini, e dei propri elettorati. 

A partire dalla seconda metà del Novecento, durante la decolonizzazione, questo modello economico ha preso il sopravvento, poiché le nazioni africane erano ormai agganciate ai flussi di denaro, di finanziamenti e di commerci globali. Occorreva tempo per uscire dai vincoli micidiali della miseria e provare ad imporre la propria idea di esistenza umana.

Questo, in fondo, era il nobilissimo ideale contenuto nella Dichiarazione di Arusha del 1967, l’atto di fondazione della Tanzania come Stato libero, che ripudia lo sfruttamento degli esseri umani ed “è in guerra contro la miseria”. Oggi questo momento è arrivato. Ma ancora una volta dall’esterno.

Il collasso ecologico del Pianeta ha irrigidito e al contempo imbaldanzito i meccanismi di conservazione della natura inscritti nel DNA del capitalismo ultra-moderno. Bisogna allargare le aree protette, ma anche farlo in fretta, e appoggiarsi il più possibile sull’elaborazione scientifica disponibile nei ricchi Paesi occidentali. Non c’è dubbio che la diagnosi sulla crisi di estinzione e il collasso della biodiversità abbia un solido fondamento scientifico. 

La clamorosa perdita di habitat è però il frutto malato non solo della crescita demografica delle nazioni africane. Lo è altrettanto dell’industrializzazione moderna e del super-consumismo dei Paesi più ricchi. Non è più onesto parlare di conservazione della natura senza parlare dello spreco immane di vita biologica (piante, animali, risorse minerarie, vite umane) necessario a sostenere stili di vita deformanti, che producono diseguaglianze sociali, povertà esistenziale e miseria psicologica. In Occidente.

Questo modello economico, e la progressiva marginalizzazione degli Africani dal loro stesso patrimonio faunistico, ha fatto suo il vizio di forma della idea di conservazione della natura, che si sviluppò in conseguenza del boom industriale moderno in Europa e Stati Uniti. 

L’invenzione della natura protetta

Bram Büscher ha ricostruito in modo efficace questi passaggi storici: “la conservazione non viene a riempire un vuoto. È piuttosto parte, nella sua storia, di sviluppi politici ed economici. Uno di questi è l’emergere delle aree protette che mettono la natura da parte, intendendo proteggerla dal resto dell’umanità. Questo significa di fatto proteggerci da noi stessi o, in qualche modo, proteggere la natura dalla natura. 

Un pensiero del genere è stato possibile solo negli ultimi 200 anni. Ci siamo talmente abituati a questa impostazione che consideriamo del tutto normali le aree protette. Be’, non lo sono. Sono vecchie, per così dire, soltanto di 150 anni, e la maggior parte di quelle di cui parliamo non hanno più di 30 o 40 anni. La conservazione è sempre stata una risposta a sviluppi più grandi, che in un modo o nell’altro hanno cambiato il mondo attorno. Noi e anche la nostra capacità di vivere dell’ambiente naturale e con l’ambiente naturale”. 

La conservazione non è un sinonimo per “Pianeta vivente”. La protezione organizzata e burocratica della natura sostituisce il concetto di biosfera quando la Terra cessa di esistere se non all’interno di logiche di consumo e plus valore. Se insomma la natura è profitto, non può essere anche contesto ontologico per gli esseri viventi.

La conservazione è perciò una conseguenza culturale dell’economia moderna: “il capitalismo industriale nei secoli XVII, XVIII e XIX ha distrutto buona parte della natura non umana. Per proteggere gli ambienti naturali sorse così un contro-movimento, esattamente come il movimento operaio fu una risposta finalizzata a proteggere la società. 

Lentamente, tra il 1970 e il 1980, sotto la spinta soprattutto della rivoluzione neo-liberista, abbiamo assistito ad una forma di integrazione tra i due: la conservazione è stata intesa come una forma di sviluppo. Sempre di più liberalismo e conservazione sono andati integrandosi: capitalismo e natura sono visti fondamentalmente come una sola, identica immagine dominante”. 

È intuitivo che in questo vero e proprio assetto geo-politico alberga una contraddizione intrinseca. “Si cerca di rappresentare una forma economica e politica specifica, il capitalismo, che è di per sé totalmente insostenibile, all’inizio e alla fine di ciò che noi intendiamo per natura”, sostiene Büscher. 

La produzione di profitto attraverso la conservazione ha così scoperto di avere a disposizione un’arma infallibile per perseguire la messa a reddito degli ecosistemi ancora selvaggi del Pianeta: il turismo. Ma il turismo ha anche un carattere neo-coloniale.

Il turismo e l’economia neo-coloniale

È infatti l’umanità ricca, e bianca, del Pianeta, che può godere della natura in località remote ed esotiche. Il turismo di lusso coopta le risorse naturali ancora intatte (foreste, laghi, branchi di elefanti e di leoni) per dislocarne il valore monetario. I soldi, in definitiva, se ne vanno insieme ai voli di linea dei turisti. In un posto come NgoroNgoro rimangono i villaggi Maasai pieni di gente che ha fame, con i denti decalcificati dalla denutrizione.

Consumando la natura africana, la parte benestante del nord del Pianeta dà un contributo essenziale allo squilibrio ecologico.

“I Paesi ad alto reddito sono i principali attori della bancarotta ecologica globale. Il Nord del mondo è responsabile del 92% delle emissioni in eccesso rispetto ai limiti del Pianeta”, ha scritto l’antropologo dell’economia Jason Hickel. “Le conseguenze della distruzione del clima ricadono però in modo sproporzionato sul sud del Pianeta. 

In modo analogo, sono i Paesi ad alto reddito i responsabili dell’eccessivo uso di risorse globali, con una media di impronta materiale di 28 tonnellate pro capite all’anno – quattro volte la misura sostenibile. È cruciale capire che questi alti livelli di consumo dipendono dall’appropriazione netta dal sud del mondo attraverso uno scambio iniquo, che include 10.1 miliardi di tonnellate di materiali grezzi e di 379 miliardi di ore di lavoro all’anno. 

In altre parole, la crescita economica del nord si appoggia su schemi di tipo coloniale: appropriazione dello spazio comune che è l’atmosfera e l’appropriazione delle risorse del sud, e della loro fatica umana”.

La capacità di carico degli ecosistemi, quindi, non è condizionata solamente dall’uso delle risorse naturali intrapreso dalla gente locale. Anzi, è il risultato finale di una imponente e complessa equazione di sfruttamento combinato della bio-capacità di atmosfera e biosfera. 

Il turismo di lusso non è altro che uno degli addendi di questo gioco di interazioni economiche con ricadute ecologiche globali. Bisogna dunque vedere il peso del turismo, e della conservazione che si aggrappa al turismo, all’interno del disequilibrio dell’intero Pianeta.

Il Gruppo di Stanford (i massimi nomi degli studi sull’estinzione e il collasso ecologico che gravitano attorno alla Università di Stanford, ossia Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos, William Ripple e Paul R. Ehrlich) ha rimarcato di nuovo (Response – Commentary: Underestimating the Challenges for Avoiding a Ghastly Future) questo aspetto della crisi del XXI secolo. 

“Ci sono iniquità impressionanti nella distribuzione della ricchezza. Centinaia di milioni di persone sono già, disgraziatamente, sul confine apocalittico della perdita del proprio sostentamento. Noi non biasimiamo affatto per queste calamità i popoli indigeni, che vivono con redditi bassissimi. Il nostro studio (Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future) ha gettato una luce sul fatto che più del 70% degli esseri umani vivono in Paesi che sono dentro un deficit di bio-capacità, ma che non hanno le risorse finanziarie per compensare questo deficit accedendo alla bio-capacità di altri Paesi e quindi accrescendo la propria resilienza. 

In altre parole, quelli che hanno meno possibilità economiche sopporteranno il peso sproporzionato dovuto all’impatto dello sbilanciamento ecologico. Perciò, coloro che hanno amplificato il problema hanno la enorme, indiscutibile, responsabilità morale di affrontarlo. In mancanza di solidarietà con le persone più svantaggiate da un punto di vista politico ed economico, anche la parte privilegiata non sarà in grado di proteggersi dalla distruzione imposta dai trend globali”. 

Ciò non toglie, purtroppo, che le nazioni africane stesse siano inserite nel sistema di produzione capitalistico. E che lo assecondino. Alla fine degli anni ’60, la Tanzania indipendente ha deciso in piena autonomia di affidare al turismo il destino della propria ricchezza faunistica.

Il lento declino dei Maasai

Nulla di ciò che vediamo oggi in Tanzania nelle aree protette è intatto o identico alle condizioni ecologiche del Paese negli ultimi due secoli. Per capire il posto dei Maasai nella Tanzania di oggi bisogna tornare al XIX secolo, prima della colonizzazione europea. E poi spostarsi nei primi decenni del Novecento, quando gli Europei cominciarono ad elaborare la percezione dell’Africa selvaggia che dura ancora oggi. 

Negli anni ‘90 Adam e McShane ricostruirono “il mito dell’Africa selvaggia”. Gli Europei sognavano l’Africa perché da tempo l’industrializzazione aveva cancellato foreste, boschi e praterie dalla loro vita quotidiana. Una malinconia primordiale che sognava le origini dell’umanità e il principio del mondo, con branchi di animali che si muovevano liberi in spazi immensi e incontaminati. Negli Stati Uniti la nostalgia per la natura selvaggia aveva da tempo stretto un patto politico con i programmi di appropriazione della terra su base razziale sulla frontiera a Ovest, tra il 1850 e il 1890. 

Dopo decenni di caccia indiscriminata, il trauma di intere società civili che rinunciavano alla natura per costruire il benessere moderno si trasformò così nell’aspirazione a salvare le faune africane dall’Africa stessa. Un anelito alla redenzione della nostra specie, una teodicea ecologista che sacralizzò il Serengeti, in cerca di un sentimento di appartenenza. 

Poi vennero le straordinarie scoperte paleontologiche degli anni ’60 in Kenya e in Tanzania, che accesero un inedito interesse mediatico per la “culla dell’umanità”. L’Africa orientale diventava così un capitolo avventuroso in una storia di coraggio e ardimento (l’Out of Africa) e di commosso ricordo dell’epopea evolutiva di Homo sapiens

A pagare per le disfunzioni culturali dell’Europa, in Africa orientale furono soprattutto i Maasai. “La disintegrazione degli spazi condivisi dalla comunità dei Maasai ha portato ad un deterioramento delle strutture sociali delle tribù. La cultura Maasai sta morendo, e con essa un sistema di valori che ha sostenuto una comunità e un ecosistema per generazioni”, scrivevano Adam e McShane nel 1992.

La Tanzania cesellata da maestosi parchi nazionali e riserve gigantesche (il Ruaha e la Selous) è il prodotto di una pianificazione a tavolino decisa dal governo centrale all’indomani dell’indipendenza dalla corona britannica. Ma, prima dell’arrivo dei coloni tedeschi negli anni novanta dell’Ottocento, la Tanzania stessa non era isolata dal resto del mondo e incapsulata in una intonsa natura selvaggia. 

Thomas Hakanson ha ricostruito il commercio di avorio a metà Ottocento: più di 11mila elefanti ogni anno venivano uccisi per esportare avorio sui mercati europei e negli Stati Uniti. Le loro zanne servivano anche per cesellare i tasti dei pianoforti su cui veniva eseguita la magnifica musica europea nelle sale da concerto per la ricca borghesia di imprenditori, tycoon, politici liberali, filosofi e poeti. “Gli ambienti naturali in Africa orientale prima del colonialismo non possono essere compresi senza un riferimento alle più vaste reti e connessioni del commercio che ruotava attorno all’oceano indiano. Per duemila anni il commercio di avorio e di altri beni ha collegato le coste africane alla Cina, all’India, al Medioriente e all’Europa”.

La decimazione sistematica degli elefanti aveva già allora ridotto le grandi distese di erba, favorendo invece l’espansione della vegetazione di arbusti e di alberi, oltre alle mosche tse-tse, vettori della famigerata malattia del sonno. Le tse-tse, però, portavano anche patologie che colpivano le mandrie dei pastori nomadi Maasai. Intanto, le carovane di mercanti a caccia di avorio avevano bisogno di viveri e stimolavano così l’espansione dell’agricoltura di sussistenza. Il nord-est del Paese è una fonte netta di beni di lusso dal 1850 a metà degli anni ’90 del secolo. 

Mentre i mercanti battevano le savane in cerca di elefanti, i Maasai erano in movimento. Spostandosi a sud del Kilimangiaro entrarono in conflitto con i Kwavi, un’altra etnia endemica della regione. I Kwavi occupavano queste terre dai primi dell’’800. Da questi scontri periodici derivarono diverse guerre, le cosiddette lloikop, che spinsero i Kwavi sulle colline. 

Anche le epidemie contribuirono a modellare l’aspetto del paesaggio.

Attorno al 1892 le pianure centro-orientali erano vuote: le mandrie dei Maasai erano state decimate dalla peste bovina. Il vento, però, aveva preso un’altra direzione anche per le potenze mondiali. Al termine della Prima Guerra mondiale il Reich tedesco cedette la Tanzania all’Impero Britannico. “Gli inglesi cercarono subito di tenere alcuni gruppi, i Maasai, entro particolari territori  e contemporaneamente tentarono di separarli dai Maasai che risiedevano in Kenya”, scrive Dan Brockington. Nonostante questo, la corona inglese decise di porre un limite all’alienazione della terra a favore dei coloni. 

Il falso Eden di NgoroNgoro
(Un branco di gnu al pascolo di prima mattina nel cratere di NgoroNgoro)

Mettere a reddito il patrimonio biologico della nazione

Questo stato delle cose tenne fino al 1961, anno della dichiarazione indipendenza della Tanzania. Poi furono gli anni della attuazione della Dichiarazione di Arusha del 1967, ossia il piano di sviluppo economico del Paese ispirato agli ideali del socialismo. 

Dopo la politica di auto-sufficienza degli anni ’70 e ’80, decenni in cui il Paese dipendeva fortemente dagli aiuti internazionali, negli anni ’90 comincia una liberalizzazione economica in cui la bio-economia delle risorse naturali ha un posto centrale. Il governo punta decisamente sulla estrazione mineraria, sui biocarburanti e soprattutto sul turismo d’élite. 

Da questo momento, secondo James Giblin, “la fauna selvatica e gli scenari naturalistici diventano una inesauribile fonte di consumo ricreativo per il mondo esterno”. E la direzione del Paese è chiara: “questo Paese ora vende servizi al mondo industrializzato sotto forma di parchi nazionali e di riserve”. 

Per i Maasai il posto disponibile si restringe sempre di più: “i Maasai sono stati rimossi dalle loro precedenti terre attraverso la definizione di nuovi parchi nazionali per i grossi animali, la diffusione di grandi fattorie commerciali e dell’appropriazione della terra da parte dello Stato per concessioni minerarie e concessioni di caccia”. 

Bisognava virare, e in fretta, dagli ideali del 1967 e fatturare sull’unico bene che il Paese aveva già a disposizione in abbondanza senza impianti industriali e catene di montaggio: la biodiversità. 

A nord, il destino dei Maasai si fondeva con le decisioni prese dal governo del Kenya. Perché i due Paesi avevano in comune le pianure del Serengeti. Di fatto, la Tanzania adottava il modello di area protetta formulato dagli Inglesi.

Sin dagli anni ’30 del Novecento gli Inglesi vanno imponendo un modello di gestione del territorio che non ha precedenti storici in Europa, ritagliato apposta sulle colonie, ossia i “game parks”. Riserve per gli animali selvatici ad uso esclusivo dei bianchi. 

Nel 1931 Richard W.G. Hingston giunge in Kenya su mandato del governo inglese e della Society for the Preservation of the Fauna and Flora of the Empire. Il compito di Hingston è valutare l’opportunità di aree speciali in cui confinare le specie selvatiche per preservarne la sopravvivenza a vantaggio dei cacciatori di trofei. E Hingston dice apertamente quello che pensa sia appropriato allo sviluppo moderno dell’Africa: riserve naturali piene di animali non domestici disposte come sporadiche isole in un paesaggio convertito all’agricoltura. 

Sulla scorta di queste idee, nel 1957 una commissione d’inchiesta britannica propose di dividere il Serengeti in 2 regioni. Una sarebbe diventata l’attuale Serengeti, in Tanzania, dove sarebbe stato proibito abitare. 

La seconda regione sarebbe stata la Ngorongoro Conservation Area, che diventava così una “multiple-use area”, un territorio dedicato alla conservazione delle risorse naturali, alla protezione degli interessi dei nativi Maasai e alla promozione del turismo di lusso.

NgoroNgoro è quindi una sorta di macro-compromesso, che limita e regolamenta la vita tradizionale dei Maasai, ma ha l’obiettivo principale di tenere l’ecosistema NgoroNgoro-Serengeti sotto un rigido controllo governativo. 

Alla fine degli anni ’90 la Tanzania ha ormai sposato in pieno un modello di business basato sui safari fotografici. La conservazione della natura è semplicemente strumentale a qualcosa di molto più prosaico. 

Secondo uno studio uscito su INTERNATIONAL OF AFRICAN HISTORICAL STUDIES nel 2008, nel 2003 la Tanzania aveva già messo da parte il 31% del suo territorio in parchi nazionali, riserve di caccia e riserve forestali. 

Anche i villaggi in prossimità delle aree protette hanno il permesso governativo di vendere diritti di caccia o di stringere rapporti d’affari con i tour operator. 

“Benché l’iniziale spinta per la conservation estate derivi da una visione coloniale dei paesaggi africani, la ragguardevole crescita del numero di aree protette in Tanzania riflette il vigoroso supporto fornito dallo Stato per la conservazione (rafforzato dai provenenti che essa offre), in combinazione con una potente lobby internazionale della conservazione. Ma considerando come è avvenuta l’espansione della conservation estate, è difficile immaginare che possa finire”. 

La posta in gioco oggi

E quel turismo che doveva essere la soluzione a tutti i problemi è diventato una metastasi forse fuori controllo. Nel 1979 i turisti erano circa 20mila all’anno. Nel 2018 quasi 650mila. 

Se il nuovo MLUM verrà approvato, verrà posto un limite al numero di Maasai residenti, perpetuando il loro status di intrusi, di presenza scomoda e fastidiosa, mentre un mare di turisti entra in area protetta con abiti di poliammide, bottiglie di plastica, su Land Rover a motore Diesel. Per Arudhna Mittal dello Oakland Institute sta in questo atteggiamento politico la violazione dei diritti umani dei Maasai.

“Senz’altro bisogna capire chi sono gli immigrati che entrano in NgoroNgoro, queste persone che reclamano una residenza. È una area speciale, e serve una analisi dettagliata per individuare i componenti della comunità. Ma occorre anche onestà su un altro fronte”, spiega la Mittal via Skype dalla California. 

“Se i Maasai devono andarsene, quale sarà la loro destinazione? Con quali opportunità? Stiamo parlando di persone a cui manca tutto. Scuole, centri di assistenza medica, sicurezza alimentare. Vivono nel vuoto lasciato loro dalle promesse mai mantenute fatte al tempo della chiusura del Serengeti. Un vuoto che si propaga e si ripete ancora, procedendo in questo modo”.

È vero che la domanda di abitazioni e di stanziamento dei Maasai non è quella degli anni ’60. C’è bisogno di case moderne, in muratura, di elettricità, di scuole, di strade percorribili anche in stagione umida. Il rapporto della missione del 2019 insiste sul problema abitativo dei Maasai. 

“La missione nota con preoccupazione l’impatto visivo dei nuovi edifici che sorgono velocemente come risultati di un incremento della popolazione umana. Le comunità dentro la proprietà stanno costruendo case di tutte le grandezze e di ogni tipo di design, usando differenti materiali di costruzione, che risultano fuori contesto. 

Il passaggio da case tradizionali a case molto grandi, in stile moderno, alcune protette da recinzioni (…) è anche una erosione del legame tra le comunità e il loro ambiente. I boma sono un testamento vivente di questa armonia. Mentre l’architettura moderna e il comfort sono indispensabili per vite migliori e lo status sociale, c’è bisogno anche di essere creativi e innovativi attraverso forme architettoniche e di progettazione che non si limitino ad abbracciare la modernità”. 

Bisogna pensare qualcosa di nuovo “con l’aiuto di affermate scuole di architettura del continente africano. Nozioni come modernità e cambiamento sono accettabili, ma dovrebbero essere intese in modo tale da preservare l’integrità e l’autenticità del paesaggio, la sua gente e le loro cultura”.

Eppure la Mittal ritiene che qui, sotto la superficie diplomatica, ci sia un vizio di logica. “Queste organizzazioni spingono per soluzioni partecipate, ma di fatto sostengono un modello di conservazione che non funziona così. Non possono chiedere più democrazia nei processi decisionali quando il loro interlocutore è un Governo che va avanti con lo stesso schema discriminatorio di sempre nei confronti dei Maasai”. 

Come può un governo centrale sempre più accentrato e autoritario garantire l’equità di decisioni controverse già da decenni?

Si può anche auspicare un “approccio armonico” sul futuro di NgoroNgoro. Lecito mettere sul tavolo delle trattative la capacità di carico. Ma, forse, sarebbe più onesto ammettere dove stanno le responsabilità dei conflitti che avvelenano questa regione. “Io credo nel concetto di capacità di carico, certamente, e la crisi climatica è qui per ricordarci che i limiti di carico esistono e dobbiamo considerarli”, dice Arudhna Mittal. 

“Ma chi ne discute? Non certo noi, in Occidente, dove nessuno vuole rinunciare al suo stile di vita. E dove si sogna la Tesla, o il nuovo iPhone. Parliamoci chiaro, nessuno viene a casa nostra, negli Stati Uniti o in Italia, a dirci, ehi, ho le migliori soluzioni per i tuoi problemi ecologici. Fatti da parte, e le implementerò per te. Eppure, è ciò che avviene in Africa. Si mantiene vivo da decenni un doppio standard”.

Per Mittal sarebbe ingenuo pensare che grandi e prestigiose organizzazioni internazionali parteggino apertamente per piani espliciti contro interi gruppi etnici. La distorsione della realtà sociale del cratere di NgoroNgoro è più sottile. “È questo su cui vogliamo insistere per i Maasai. Il loro impatto rispetto all’impatto del turismo. Lo sviluppo economico tramite il turismo, va bene, ma a favore di chi? Tutti siamo per la conservazione, ma la conservazione deve essere un processo partecipativo, nato dal basso della società civile. E non si tratta neppure di puntare il dito contro qualcuno. 

Ci sono ottime persone anche nelle ONG. Però è ancora operativo, dentro queste organizzazioni, un modello coloniale di protezione della natura, nonostante l’indipendenza di queste nazioni dalle potenze coloniali. La conservazione così come è oggi è una atteggiamento mentale strutturale, datato, dal fascino antico”. 

Una visione lacunosa

L’intera vicenda svela una lacuna di progettazione nella visione della nazione che la Tanzania decise di adottare negli anni ’60. La separazione netta tra uomini e animali, e la marginalizzazione delle persone, hanno dato l’effetto opposto di quello previsto, e non solo a NgoroNgoro. 

“La creazione dei parchi non ha creato floride popolazioni di animali selvatici, che migrano oltre confine. Questi parchi hanno semplicemente facilitato lo spopolamento degli animali selvatici al di fuori dei loro stessi confini. Finendo con il rafforzare le loro stesse linee di demarcazione. La fondazione dei parchi accelera la classificazione del paesaggio dentro le categorie di territorio sviluppato e territorio selvaggio immaginato da Hingston”. 

Un dualismo manicheo che, tra le altre cose, rigurgita in superficie la nozione di sviluppo, e quindi di barbarie, risalente all’Illuminismo del ‘700. Da una parte agricoltura e villaggi, o città, e dall’altro quel che resta della natura. La civiltà, moderna, giusta, non sarebbe altro che una separazione netta tra natura e cultura.

La sensazione è, quindi, che l’opposizione più estrema e tagliente non sia tanto tra Maasai e governo centrale, ma tra i diritti dei Maasai e la cornice ideologico-economica che ha risucchiato, insieme a NgoroNgoro, anche le loro vite. 

Se i Maasai avessero più diritti dentro NgoroNgoro, nulla cambierebbe nella configurazione istituzionale della loro terra, che da mezzo secolo non ha più un valore di per sé. 

I parchi nazionali, sotto la superficie delle loro indubbie virtù, sono soltanto le enormi aree di divertimento del capitalismo avanzato. “Ancora più importante dell’influenza esercitata dalle organizzazioni stranieri (ndr, le ONG) è il ruolo dei governi africani stessi. Essi sono soltanto un altro dei canali attraverso i quali i desideri dei turisti fanno sentire la loro voce”, scrive Dan Brockington. 

“Messa in termini semplici, gli Stati africani sono ben felici di creare spazi dove i turisti possano recarsi. I turisti pagano soldi sicuri. E quindi sono molto più affidabili nel pagare le tasse rispetto ai cittadini residenti che il governo scaccia dalle loro terre. Ma c’è anche di più. 

I miti dei turisti sono in felice accordo con la visione degli Stati di ciò che uno Stato moderno dovrebbe essere. I parchi nazionali forniscono uno strumento per spostare e modernizzare i popoli indigeni che sono percepiti come primitivi e vengono dopo i loro governi. 

Un sistema ben rodato di aree protette è inoltre percepito come buono di per sé, una misura riconosciuta di progresso messo lì a mostrare gli indicatori del successo degli obiettivi di sviluppo del millennio. Le aree protette ancora selvagge possono anche essere una invenzione coloniale, ma sono state abbracciate con entusiasmo dai governi post indipendenza”. 

Il falso Eden di NgoroNgoro
(NgoroNgoro: un Eden per i turisti occidentali. Una regione controversa dal futuro incerto per i Maasai)

Le mega-riserve

E dopo averci creduto fino in fondo in questi obiettivi di sviluppo sostenibile del millennio, e in quelli di ambiziosa protezione naturalistica, adesso la comunità internazionale ammette che essi non bastano. Sono insufficienti. Mal progettati. Non hanno portato a nulla.

Da oltre un anno sono in corso in seno alla Convezione Mondiale sulla Biodiversità (CBD) le trattative per arrivare ad un accordo globale sulla protezione della vita biologica su questo Pianeta. La Tanzania possiede alcune delle “aree chiave per la biodiversità” indispensabili per consolidare la soglia massima di protezione degli habitat rimasti ancora integri. 

Come a dire, ciò che è già protetto non si tocca. Poi viene il resto, che seguirà le stesse regole viste fin qui. E adesso la massima attenzione è sulla connettività dei parchi nazionali.  Pur con un certo imbarazzo, è stata abbandonata la concezione delle aree protette incastonate nel paesaggio. Oggi quasi tutti ammettono che le specie animali hanno bisogno di spazio per muoversi e prosperare. Gli Inglesi si sbagliavano, nel Kenya degli anni ’30. 

Eppure, ed è paradossale, il mindset degli Inglesi del tempo della Regina Vittoria è ancora oggi un punto di riferimento politico ed economico. Parchi nazionali più grandi, ma sempre avulsi dal contesto circostante.Natura più protetta, ma pur sempre enorme riserva. Possiamo anche essere a favore di una ritirata parziale degli umani a vantaggio totale delle altre specie, è un argomento che ha solide basi filosofiche. Ma sul fatto che i parchi nazionali a isola non siano la soluzione alla sesta estinzione non si può discutere. 

Le specie animali hanno bisogno di spazio.

Ecco perché il governo della Tanzania ha solidi appigli per riorganizzare NgoroNgoro senza toccare l’impianto generale delle sue politiche ambientali. La direzione politica generale sembra orientata su enormi riserve all’interno dell’imperante schema economico globale.

Il governo nutre infatti l’ambizione di unire “NgoroNgoro, Selela e il corridoio del Manyara Ranch per connettere il Serengeti-Mara con il Lake Natron e l’ecosistema Lake Manyara – Tarangire (ndr, entrambi parchi nazionali)” e quindi “per aumentare la funzionalità degli ecosistemi”. Perché, in sintesi, “cambiare i confini di NgoroNgoro arricchirebbe il flusso di geni tra differenti popolazioni di animali selvatici e tra gli stessi ecosistemi”. 

Nei negoziati internazionali della CBD, aumentare la protezione per la biodiversità significa dichiarare protetto il 30% del Pianeta entro il 2030.

Il 30% di Pianeta protetto entro il 2030

La soglia del 30%: un numero magico, una panacea simile al limite di + 1.5 °C spacciato nel 2015 a Parigi come soluzione alla crisi climatica. Una similitudine che dovrebbe metterci paura. 

Dal 1992, la CBD è la piattaforma di accordo e discussione sovranazionale più importante per la protezione della natura. 

È il tavolo a cui, nel bene e nel male, si siedono i governi del mondo che hanno firmato la Convenzione per discutere del declino degli ecosistemi e dell’estinzione del regno animale. 

Quindi il fatto che la CBD abbia adottato la soglia del 30% significa questo, che il 30% di Pianeta protetto è una unità geografica scientificamente motivata. Non è un numero a caso, è un numero che viene fuori da studi, ricerche, raccolte dati lunghe anni. 

Nel 2016 è la IUCN, insieme alle organizzazioni che ne fanno parte, a proporre la protezione totale per il 30% degli ecosistemi marini. Nel 2018 un editoriale su SCIENCE (J.Baillie, Y-P Zhang, Space for Nature, SCIENCE 361, 1051) sostiene che la stessa percentuale debba valere per gli ecosistemi di terra ferma. 

Poi, nel 2019, un lungo articolo su SCIENCE ADVANCES (A global Deal for Nature: Guiding Principles, milestones, and targets) svela tutte le carte della proposta. Diventando di fatto il punto di riferimento sostanziale del futuro accordo globale per la natura, il cosiddetto “global deal for nature (GDN)”. È un vademecum che si regge su alcune evidenze molto forti.

Clima e biodiversità sono interdipendenti e siamo ormai vicini ad un punto di non ritorno: “la biodiversità è parte attiva del flusso del carbonio in atmosfera”. Infatti “oltre la soglia del 1.5 °C (ndr, di aumento delle temperature medie globali) la biologia del pianeta sarà gravemente danneggiata perché gli ecosistemi cominciano letteralmente a collassare”. 

Quindi, non basta proteggere le foreste primarie rimaste, bisogna ripristinare gli ecosistemi danneggiati “per creare emissioni negative” e avviare una “conservazione aggressiva degli habitat rimasti”. 

Il GDN è  “un piano vincolato alle scadenze temporali, basato su evidenze scientifiche, per salvare la diversità e l’abbondanza della vita sulla Terra”. Al 30% protetto dovrebbe essere aggiunto un “20% designato come aree di stabilizzazione climatica” per stare sotto + 1.5°C. Sono le CSAs (Climate Stabilization Areas)”. Per stabilizzare il clima, arginare il declino della biodiversità ha una importanza strutturale.

Gli obiettivi del GDN sono più ambiziosi degli Obiettivi di Aichi al 2020, perché seguono una stringente logica evolutiva: “mantenere popolazioni vitali di tutte le specie native entro la dimensione naturale della loro abbondanza e distribuzione” e “affrontare i cambiamenti ambientali mantenendo i processi evolutivi e adattandosi così agli impatti del cambiamento climatico”. 

La connettività  tra aree protette è fondamentale in questa prospettiva: “assicurare la creazione di network di aree protette che rappresentino il più vasto assortimento di habitat e, per estensione, conservare il più vasto assortimento di specie e i loro adattamenti unici ai loro ambienti”. Il ruolo dei popoli indigeni viene citato, ma in un paragrafo decisamente marginale. 

Il 12 luglio scorso, infine, la bozza del GDN presentata alla stampa sanciva ufficialmente l’inclusione del 30% nella cornice su cui lavora la CBD: “l’obiettivo numero 2 della bozza di accordo recita: entro il 2030, proteggere e conservare, attraverso un sistema di ben connesse ed effettive aree protette e altre misure di conservazione basate sul territorio, almeno il 30% del pianeta”. SURVIVAL INTERNATIONAL ha subito definito l’obiettivo del 30% “il nuovo imperativo coloniale verde”.

I finanziatori privati

Intanto, però sono usciti allo scoperto i pesi massimi della natura del XXI secolo. Lo studio pubblicato da SCIENCE ADVANCES ha messo in movimento alcuni degli ambienti più prestigiosi non solo della protezione della natura, ma anche del giornalismo ambientale. 

È stata così lanciata una petizione online voluta da ONE EART, un progetto che unisce LEONARDO DI CAPRIO FOUNDATION, AVAAZ, RESOLVE e NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY. 

La Fondazione HALF EARTH insiste per una soglia ancora più alta, del 50%, e ha come manifesto e ispirazione Half Earth, il saggio di E.O.Wilson del 2016. 

Perché il 50% ? Perché la causa numero uno del collasso delle specie è la perdita di habitat. Più estesa è una riserva, più è alto il numero di specie che ci abitano. Quali riserve proteggere? Le moderne tecnologie per individuare la presenza degli animali permettono di costruire mappe molto precise per capire le regioni del mondo che meritano priorità. 

Questi i principi guida della Fondazione. Le comunità indigene devono essere “onorate” e rispettate. Ma la crisi è tale da imporre scelte geografiche altrettanto drastiche. 

Identica è la posizione del collettivo NATURE NEEDS HALF, nato nel 2009 dalla WILD FOUNDATION. Tra i co-fondatori c’è Harvey Locke, un pioniere del concetto di connettività tra grandi parchi transfrontalieri nel Nord America con il progetto Y2Y, “Yellostowne to Yukon”

Sul sito del gruppo sono disponibili materiali scientifici per verificare la concretezza delle posizioni proposte sul disastro ecologico. “Siamo impegnati a connettere gli spazi naturali e le persone, per avere paesaggi più sani, animali che si muovono più efficacemente da un posto all’altro, e vite più ricche di significato per le persone”. E anche qui i popoli indigeni figurano come imprescindibili protagonisti del difficile futuro.

Non c’è dubbio che chi ha molti soldi, per una ragione o per l’altra, ne stia investendo nelle riserve e nei parchi nazionali. Un esempio fulgido di investimenti privati è la Ngo AFRICAN PARKS

E soprattutto la loro scintillante iniziativa LEGACY LANDSCAPES FUND lanciata il 19 maggio scorso nel cuore dell?Europa, a Berlino. AFRICAN PARKS è responsabile del recupero e della gestione di alcuni dei progetti più importanti degli ultimi 20 anni, come Akagera in Rwanda (dove è stato reintrodotto il leone, localmente estinto, grazie ad esemplari del Sudafrica), Zakouma in Chad (parco dove, sempre con animali nati in Sudafrica, si prova a reintrodurre il rinoceronte) e Matusadona in Zimbabwe. A Berlino, alla presentazione di LEGACY LANDSCAPES, c’era addirittura la presidente della CBD, Elizabeth Maruma Mrema. 

LEGACY LANDSCAPES è un fondo in cui ricchissimi finanziatori privati e Governi bonificano il loro contributo in dollari per “fermare la perdita di biodiversità”.

Il fondo è “una iniziativa congiunta del Ministero per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica della Repubblica Federale tedesca, della Agence Française de Développement (AFD), di Campaign for Nature (CfN), della Frankfurt Zoological Society (FZS), della IUCN, dell’UNESCO World Heritage Centre e del WWF. Il Governo francese ha dichiarato che comincerà a contribuire nel 2022”. 

L’obiettivo è fornire ad almeno 30 Paesi (su almeno 60mila Kmq) abbastanza denaro da proteggere negli anni a venire le loro terre selvagge. La Germania di Angela Merkel ha già staccato un assegno da 82.5 milioni di euro.

La Gordon and Betty Moore Foundation altri 5 milioni di dollari. Si punta a raggiungere il miliardo di dollari di donazioni il prima possibile. I nomi delle località africane coinvolte parla da solo: North Luangwa NP Zambia, Iona NP Angola, Gonarezhou NP Zimbabwe, Odzala-Kokua NP DRC (Repubblica Democratica del Congo). 

Chi si batte per i diritti dei Maasai in Tanzania e dei popoli nativi denuncia questo modus operandi. Ne critica l’impostazione ideologica, ma anche la reale efficacia nel fermare l’emorragia di biodiversità. 

Per questo il 2 settembre scorso il fronte alternativo della conservazione ha organizzato a Marsiglia un convegno per “decolonizzare la conservazione”: OUR LAND, OUR NATURE. 

In aperta polemica con la IUCN, che pur ha indetto per il 3 settembre il “World Summit of Indigenous People and Nature schierandosi a favore della questione più generale dei diritti di uomo e natura: “i diritti della natura e i diritti verso la natura: quali nuovi principi e strumenti sono necessari nel diritto ambientale internazionale? (…) Entro il 2030 dobbiamo raggiungere un equilibrio armonico tra l’integrità ecologica del paesaggio naturale, una prosperità condivisa e la giustizia per i custodi degli ecosistemi ancora funzionanti. Lo dobbiamo fare entro i limiti che la natura è in grado di sostenere”.  

Il falso Eden di NgoroNgoro
(Il cratere di NgoroNgoro al tramonto in stagione secca)

Decolonizzare la conservazione

A Marsiglia è intervenuta tra gli altri Rosaleen Duffy della Sheffield University (UK). In un vasto contributo uscito il 2 luglio scorso sulla rivista ENVIRONMENT: SCIENCE AND POLICY FOR SUSTAINABLE DEVELOPMENT, Duffy ha co-firmato con alcuni colleghi una analisi spietata della conservazione, della finanza green, del neo-liberismo e della militarizzazione su base razziale dei parchi nazionali africani. 

Gli obiettivi di protezione delle aree protette e degli animali selvatici propagherebbero “una forma neo-coloniale di conservazione, che è ritagliata apposta su potenti interessi globali. Da una lato una memorializzazione della natura e dall’altro il furto di terra (green grabbing)”. 

Il lavoro della stessa CBD avrebbe quindi un impianto coloniale: “la contemporanea espansione del network globale di aree protette è il prodotto di una coalizione potente di donatori, istituti di ricerca e gruppi di pressione uniti a istituzioni multilaterali che hanno esteso il loro peso politico ed economico sulla conservazione ad aree protette esclusive”. 

Tra questi attori più o meno occulti ci sarebbero i giganti della conservazione: Conservation International, The Nature Conservancy, e il WWF.

Secondo questi ricercatori, ridurre la natura rimasta a una fortezza protetta da militari addestrati da bianchi e armati contro i bracconieri serve per aprire la strada a meccanismi di monetizzazione della biodiversità, come i green bond o il carbon market. 

Che in questo approccio ci sia qualcosa che non va lo dimostrerebbe il peggioramento, ben documentato e per ora inarrestabile, di tutti gli indicatori bio-ecologici. Ed anche questo è un fatto.

Insomma, recintare gli habitat non serve: “mettere sotto chiave la natura in blocchi sicuri di natura selvaggia non eviterà la sesta estinzione di massa, perché gli aggiustamenti istituzionali allo status quo aiutano a perpetuare sistemi politici ed economici che sono alla radice della distruzione della biodiversità. 

Ma, cosa ancora più importante, la conservazione-fortezza non risolverà neppure il cambiamento climatico. La crisi climatica in atto minaccia di travolgere le aree selvagge da decenni, come appare evidente negli incendi in Amazzonia, in Australia, nel Canada Occidentale e nell’Ovest americano”. 

Oggi, pur nel dissesto economico globale e nel caos della pandemia, queste voci cominciano a conquistare la platea internazionale. Rivendicando per il pensiero africano sugli animali selvaggi un posto centrale. E quindi quella nuova etica della conservazione che nel 1992, anno dello Earth Summit di Rio e della nascita della CBD, era ancora una utopia. 

“Per fare la cosa giusta, prima di dipingere le pareti di un colore che ci piace, dobbiamo cambiare la struttura. Dobbiamo ripensare i tipi di Aree Protette esistenti e cercare un modello più sofisticato di protezione della biodiversità. È qui che le grandi organizzazioni si trovano in difficoltà, perché fanno molta fatica a cambiare le loro stesse sovrastrutture”, ha detto Mordecai Ogada, ecologo e specialista in carnivori fondatore di CONSERVATION SOLUTION AFRIKA. E filosofo della conservazione. 

“Le pratiche della conservazione colonialista implicano violenza e disonestà. I media non mostrano mai immagini di Africani che convivono pacificamente con la fauna selvatica”, ha dichiarato Ogada. “Perché vogliono rimuovere gli Africani neri dalle loro terre, anche se conviviamo con la fauna selvatica da milioni di anni”. 

OUR LAND, OUR NATURE ha avuto il coraggio di dire che la crisi della biodiversità è una crisi esistenziale. Umanitaria. Un futuro spaventoso per gli animali e le foreste significherà un abisso per l’umanità.  E cioè fine della nostra esperienza estetica ed emotiva di un Pianeta biologicamente vivo. 

Questa condizione del XXI secolo non è una faccenda che riguardi quindi solo i Paesi che ancora oggi, con disprezzo e supponenza, definiamo “in via di sviluppo”. 

A Marsiglia, Guillaume Blanc, docente di storia ambientale alla Università di Rennes 2 (Bretagna, Francia), ha sintetizzato il dramma della nostra civiltà attuale: “la naturalizzazione è una forma di de-umanizzazione”. Vale a dire che la pretesa occidentale di ridimensionare la natura selvaggia sui bisogni della industrializzazione ha snaturato il contesto biologico del Pianeta. Uomini compresi. 

NgoroNgoro undici anni fa

Sono passati undici anni da quando visitai NgoroNgoro. Il giorno prima dell’ingresso nella conservation area pernottammo in una locanda nel distretto di Karatu, che distava in jeep circa un’ora dal gate di accesso al parco nazionale. Eravamo in pieno inverno e la nebbia acuiva il freddo pungente e sferzante. 

Ma non erano il cielo grigio e il tramonto precoce a lasciare una cortina di amarezza e disagio sugli edifici in lamiera, cartone e mattoni della strada principale. La povertà mordeva gli occhi, seccava la parola, inquinava lo spirito. 

Cenammo nel nostro albergo. Uno stuolo di ragazze servizievoli, dal volto triste e rassegnato, ci servì patate e carne arrosto in un silenzio di tomba. Ricordo che ciò che più mi colpì furono i loro abiti. 

Indossavano gonne e camice degli anni Settanta. Come se lì a Karatu il tempo si fosse fermato. Come se il tempo fosse una trappola, un inganno, una menzogna. Da cui i turisti avevano il privilegio di evadere in qualunque momento lo avessero voluto. Pagando in dollari il carburante diesel delle loro Land Rover. 

Noi eravamo i bianchi che la mattina successiva sarebbero partiti per vedere, e toccare, e sentire dentro l’olfatto e il gusto, la polvere dei luoghi in cui i nostri progenitori avevano passeggiato sulla lava vulcanica di 2 milioni di anni fa. 

A quelle ragazze spettava l’eredità sporca, contaminata, della storia successiva. 

Non ero mai stata in Africa prima. Ero entusiasta, ma quella sera provai anche vergogna. Mi vergognai di aver mangiato quelle patate, di aver acconsentito a respirare anche io l’ossigeno globale del razzismo moderno. 

Sentivo che qualcosa non funzionava, ma non ero in grado di dare un nome al sentimento di disintegrazione che non riusciva ad andarsene. 

Il falso Eden di NgoroNgoro
(La strada principale di Karatu, non lontano dal quartiere degli alberghi per i turisti)

Oggi penso che la vergogna sia un buon alleato per provare a capire che cosa succede in Africa e che cosa non va nel nostro mondo. Il turismo è quasi sempre fuorviante. È un agente corruttore. È uno spietato seduttore. 

Migliaia di persone pensano di amare la natura soltanto perché raggiungono posti come NgoroNgoro. La maggior parte di loro non sa nulla del cratere, non conosce il nome preciso delle specie animali che incontrerà, ignora la storia di discriminazione razziale e di “sviluppo” forzato che ha stuprato le civiltà endemiche di questa regione. 

I Maasai, costretti a recitare la loro parte e ad accogliere i turisti nei loro boma, sono diventati gli ospiti dell’atmosfera elettrizzante cucita addosso ai bianchi stranieri. 

Questa ignoranza ha un peso politico cruciale. In Tanzania, e in nella società civile occidentale, che pretende di costruire il futuro di NgoroNgoro postando foto sui social media.

Con la forza di livellamento psicologico di un rullo compressore, il turismo industriale ha strappato all’opinione pubblica l’idea di biosfera. E così i diritti degli Africani, che spuntano tra leoni ed elefanti come camerieri, valletti, guide, autisti, sono semplicemente fuori equazione. Non esistono.

Ma anche la biosfera, se esiste solo nelle aree protette, allora non è più una biosfera, ma un terreno di coltura di qualcos’altro, che innesta in noi e nei Maasai, anche se non ce lo siamo mai detti, anche se nessuno di noi lo sa ancora, lo stesso disagio, lo stesso disadattamento emotivo, la stessa angoscia. 

Leggendo le storie dei Maasai, i report scritti su di loro, ma non da loro, rimane addosso un sentimento oscuro di tradimento. Come se il contesto generale sfuggisse continuamente, vanificato dallo splendore degli animali e del paesaggio, oggi, come undici anni fa. La sensazione che qualcosa di enorme, mal accordato, l’unica cosa che conti davvero, ci sfugga completamente. 

Io, come tantissimi altri, salii a NgoroNgoro per scoprire le radici della nostra umanità. Ma il dolore di questo posto, di uomini e animali, entrambi confinati dentro confini ristrettissimi, mi ha fatto infine trovare un essere umano molto diverso dal sogno della paleontologia. 

Il nemico della natura non è Homo sapiens, ma il modello economico-esistenziale di matrice europea ormai vecchio di 5 secoli che noi chiamiamo capitalismo. Non c’è nessuna relazione primaria con la natura, ma solo una relazione con il vivente, uomo o animale che sia. 

Capirlo è l’esperienza più selvaggia che ciascuno di noi possa intraprendere. Anche a migliaia di chilometri di distanza dalle savane orientali della Rift Valley. 

(Foto in copertina: I Maasai di un boma tradizionale in prossimità della Olduvai Gorge, NgoroNgoro Conservation Area).

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