Home » Biopolitiche » Il Sudafrica vieta l’allevamento di leoni in cattività

Il Sudafrica vieta l’allevamento in cattività dei leoni. Il 2 maggio scorso il Sudafrica ha compiuto un passo importante verso il bando totale dell’allevamento in cattività dei leoni. Il Ministro dell’Ambiente, Barbara Creecy, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale a integrazione della presentazione pubblica dello High Level Panel Report, una indagine estremamente approfondita sulla “wildlife economy” del Paese da lei richiesta nell’ottobre del 2019. Il Panel aveva il compito di descrivere nel dettaglio le attività economiche attorno alla caccia su predatori cresciuti in cattività (canned hunting), l’allevamento, il commercio di parti del corpo, e la gestione in strutture ad hoc, di elefanti, leoni, leopardi e rinoceronti. L’impegno del Governo, quindi, va ben oltre lo spinoso problema, diventato un caso internazionale, dei forse 12mila leoni tenuti in facilities dalla dubbia reputazione, destinati, una volta macellati, al lucroso mercato della medicina tradizionale cinese.

Stavolta, vagliando le posizioni ufficiali, le reazioni delle Ngo impegnate da anni contro lo sfruttamento biologico dei leoni, e lo Executive Summary del Panel Report si ha la sensazione che il Sudafrica abbia deciso di prendere molto sul serio il proprio ruolo di “global leader in conservation”. In questa definizione, ormai, rientra anche la wildlife economy, cioè i molteplici modi in cui il Paese ha messo a profitto il suo immenso capitale biologico, di cui i big five sono la punta di diamante. 

Alla fine di un enorme lavoro di consultazione, che ha analizzato 70 analisi specifiche preparate da specialisti di alto profilo scientifico, economico ed esperti nelle relazioni etniche tra le molte comunità della nazione, il verdetto sui leoni è chiaro: “il Panel ha preso in esame tre differenti approcci sui leoni in cattività: per la maggioranza in futuro il Sudafrica non dovrà allevare leoni, tenerne in cattività o usare leoni in cattività e il loro derivati a scopo commerciale”. 

Due anni fa, il rapporto The economics of captive predator breeding in South Africa, commissionato dalSouth African Institute of International Affairs (SAIA), calcolava che il danno di immagine causato dalla caccia su commissione su leoni allevati potrebbe far perdere alle casse dello Stato 54 miliardi di Rand nel prossimo decennio, con un declino del volume di turisti del 44,9%. Secondo BORN FREE FOUNDATION nel Paese ci sono 6000-8000 leoni in cattività. La cifra esatta è sconosciuta. 

Sulla base di quanto emerso dal Panel, il Ministro Creecy ha quindi dichiarato: “Il Panel ha evidenziato che l’industria dei leoni tenuti in cattività pone rischi alla sostenibilità della conservazione dei leoni selvaggi, rischi che provengono dall’impatto negativo sull’ecoturismo che finanzia la conservazione del leone e la conservazione in senso più esteso, dall’impatto negativo sulla caccia vera e propria in condizioni selvatiche (autentic wild hunting industry), nonché il rischio che il commercio di parti di leoni rappresenta come stimolo al bracconaggio e al traffico illegale. Il Panel raccomanda dunque che il Sudafrica non allevi più leoni in cattività, non tenga più leoni in cattività o usi parti dei leoni e loro derivati a scopo commerciale. Ho chiesto al Dipartimento di agire in accordo a queste osservazioni e di assicurare le necessarie consultazioni perché  sia condotta una loro implementazione”. 

Creecy ha inoltre chiarito che questo passaggio, l’adozione di una visione aggiornata sul captive breeding, va inserito nel contesto più generale della “economia basata sulla biodiversità”, in cui il Sudafrica ha negli ultimi venti anni messo in piedi un modello unico al mondo: “ora che queste raccomandazioni sono state approvate, e sono quindi pronte per essere implementate, andranno a costituire un cambiamento significativo, con i conseguenti vantaggi per la nostra posizione e reputazione. Fondamentale per la trasformazione del settore è dare rinnovato vigore alla economica della biodiversità attraverso un focus sull’ecoturismo che ruota attorno ai Big Five e alla vera caccia ad esemplari selvatici. Lavoreremo in collaborazione con il Dipartimento del Turismo per riuscirci”. 

Il Ministro ha di fatto annunciato una ristrutturazione per intero del settore della wildlife economy: “Credo che questo rapporto fornisca una piattaforma di lavoro non soltanto per raggiungere una chiarezza nelle politiche attuative, ma anche per sviluppare un New Deal per le persone e per gli animali selvatici in Sudafrica”. 

In questo New Deal dovrebbero funzionare, su di un piano non meno giuridico che pratico, le raccomandazioni uscite dallo High Panel: lo sviluppo di una visione chiara e condivisa (sul ruolo della wildlife nel futuro economico e sociale del Sudafrica); una base legislativa adeguata, in molti casi da scrivere ex novo (mancano riferimenti legislativi ben definiti sul benessere degli animali, fermi al 2004, così come non  ci sono norme e standard per i controlli nelle strutture di allevamento e per la riabilitazione degli animali, mentre proliferano i conflitti nell’applicazione della legge tra distretti regionali e governo centrale); la valorizzazione delle comunità che vivono a stretto contatto con le specie selvatiche, in prossimità di riserve e aree protette, e che però ne ricevono pochissimi benefit economici (oggi la maggior parte della terra destinata alla wildlife è in mano a proprietari bianchi o di proprietà dello Stato); la fine di “pratiche disumane e irresponsabili” che danneggiano seriamente la “reputazione del Sudafrica”. 

Forte, tra gli attivisti, e nel mondo della ricerca sui grandi felini, la soddisfazione per una decisione non scontata, e attesa da almeno un decennio.

Paul Funston,  Senior Director del Lion Program di PANTHERA CATS, uno dei massimi esperti della Panthera leo melanochaita, il leone del Kalahari nell’estremo nord del Sudafrica, ha sottolineato in un comunicato stampa che la svolta del ministro Creecy è a favore di tutte le popolazioni di leoni rimaste sul continente: “Salutiamo con favore l’evidenza che lo High Panel Level è sintonia con le crescenti prove che mostrano che l’allevamento in cattività dei leoni non contribuisce alla conservazione dei leoni selvaggi e che il commercio legale di parti del corpo di questi leoni rischia di funzionare da stimolo per la domanda di derivati del leone e del traffico illegale, un rischio ancora più grande per le popolazioni di leoni ancora wild del Sudafrica e per le popolazioni wild, vulnerabili, in tutti i Paesi in cui il bracconaggio è in crescita.

Adottando le raccomandazioni dello High Level Panel, attraverso il prossimo passaggio, fondamentale, di renderle definitive entro una cornice giuridica, il governo del Sudafrica farà la scelta razionale e saggia di investire sulla sua wildlife e sul futuro, infondendo nuova vita alla economia nazionale e all’ecoturismo focalizzato sul leone, restaurando così la reputazione del Paese come simbolo degli straordinari leoni della nazione e del continente. Il percorso verso questa trasformazione richiederà un impegno convinto con la scienza e con politiche di conservazione formate sulle evidenze scientifiche”. 

Ian Michler di BLOOD LIONS, raggiunto via email, esprime uguale ottimismo e sorpresa : “è davvero un salto di livello nel modo di pensare il problema. Certo, ci sono ancora molte preoccupazioni, però dobbiamo celebrare la volontà del Ministro di chiudere con l’allevamento in cattività e lo sfruttamento dei predatori. Speriamo che questo sia l’inizio della fine per la caccia controllata (canned hunting), il cube petting (ndr, il turismo che permette di coccolare, nutrire con il biberon e giocare con i piccoli di leone nati in cattività) e il traffico di ossa”. 

Smaragda Louw, di BAN ANIMAL TRADING, la Ngo che nel 2018 aveva pubblicato il rapporto “The Extinction Business” e da anni denuncia lo sfruttamento biopolitico delle risorse biologiche del Paese, sentita via email: “noi pensiamo che l’essenziale c’è. È un grande passo nella giusta direzione e un modo di intendere la questione, per come è stato presentato, che non deve essere preso alla leggera, considerate le implicazioni economiche insite nella fine di un business del genere”. 

Più cauti alla EMS Foundation, altra Ngo di peso in Sudafrica, in prima linea sulla questione dei leoni in cattività. In una dichiarazione ufficiale si legge: “salutiamo con cautela la dichiarazione del Ministro secondo cui l’allevamento, l’accudimento turistico e la caccia di leoni nati in cattività, nonché il commercio di loro derivati, non rientra nella linea del Governo. È dal 2018 che il Governo afferma di non volere questa industria, da quando cioè il Parlamento accettò le conclusioni del Portfolio Committee on Enviroment che chiedere la chiusura dell’industria dell’allevamento e la fine del commercio di ossa di leone. Pur non contestando il bisogno di ulteriori passaggi procedurali e la effettiva adozione di una politica che metta fuori legge l’industria, quello di cui abbiamo bisogno è di passare all’azione. E quindi chiediamo con urgenza al Ministro di prendere misure correttive rapide e di intraprendere passi concreti in modo che questa industria aberrante sia chiusa una volta per tutte e senza escamotage”. EMS aggiunge anche che i leoni non sono gli unici predatori in gabbia, in Sudafrica: nessuno sa con esattezza quante tigri, ad esempio, ci siano nelle fattorie. 

La campagna della EMS Foundation per un Sudafrica senza leoni in gabbia, allevati in cattività e destinati al macello
(Campagna EMS Foundation contro il captive breeding, Facebook)

EMS fa riferimento a quanto successo negli ultimi due anni, quando le speranze di una presa di posizione forte da parte del Governo sono state sistematicamente disattese. Il 6 agosto 2019 l’Alta Corte di Giustizia di Pretoria aveva emesso una sentenza storica di importanza costituzionale prendendo posizione contro l’allevamento in cattività. La sentenza definiva infatti “illegali e anticostituzionali” le quote di esportazione di carcasse di leoni stabilite dal Governo per il 2017 e per il 2018, rimarcando il fatto che il Dipartimento per gli Affari Ambientali (DEA) aveva mancato nel garantire il benessere dovuto ai felini tenuti negli allevamenti.

Un anno prima, tra il 21 e il 22 agosto 2018, il Ministero aveva ospitato una audizione di due giorni sull’allevamento in cattività dei leoni. Il successivo 12 novembre il Portfolio Committee on Enviroment si diceva pronto ad adottare il report finale uscito da questa audizione ( Colloquium on Captive Lion Breeding for Hunting in South Africa: harming or promoting the conservation image of the country) e inviava al Ministero degli Affari Ambientali una raccomandazione: “ il Dipartimento degli Affari Ambientali dovrebbe, sotto il profilo dell’urgenza, iniziare misure politiche e una revisione dell’allevamento in cattività dei leoni per la caccia e il commercio di ossa, tenendo come obiettivo di porre fine a questa pratica”. L’allora Ministro dell’Ambiente ad interim,  Derek Hanekom, scriveva su Twitter: intendo formare un gruppo di lavoro per rivedere le politiche e la legislazione su un certo numero di questioni collegate all’allevamento di animali, alla caccia e alla loro manipolazione. Il Dipartimento sta attualmente preparando i riferimenti e i termini’.”

Leggendo l’Executive Summary del Panel emerge l’intenzione di inserire la revisione della bio-economia del Paese in una cornice giuridica aggiornata, in parte ancora da scrivere, che però sia coerente con il dettato costituzionale, che molti, finora, hanno avvertito come tradito. L’articolo 24 della Costituzione, che impegna la società civile a mantenere intatto per le generazioni future il patrimonio naturalistico del Sudafrica, è già parte del Piano Nazionale di Sviluppo al 2030 (National Devolopment Plan, NDP 2030): “il Paese deve proteggere l’ambiente naturale in tutti i suoi aspetti, lasciandolo alle generazioni a venire in condizioni almeno identiche, per valore”.  Con il passaggio del 2 maggio si è implicitamente riconosciuto che l’allevamento in cattività di leoni, leopardi, rinoceronti è incompatibile con l’ispirazione e la visione della Costituzione.

D’altronde, l’Executive Summary è anche un documento di ampio orizzonte, che riconosce la complessità della situazione, in cui una industria priva di costrizioni morali e di vincoli scientifici è proliferata in modo abnorme negli ultimi 20 anni facendosi forte di una legislazione altamente insufficiente. 

Il “modello Sudafrica” contiene e presuppone la wildlife economy. Questo significa che il Paese ha aree protette e parchi nazionali che appartengono allo Stato, un numero notevole di riserve private in cui la conservazione degli habitat e della fauna è prioritaria e infine una costellazione di ranch, fattorie e strutture per l’allevamento che, su più livelli, si intersecano con la cornice più accreditata della conservazione ambientale ufficiale. Tutte e tre queste tipologie di luoghi deputati ad avere a che fare con specie simbolo sono inserite in schemi economici che, sul fronte dell’allevamento in cattività, hanno assunto le dimensioni di una industria. Per questo la wildlife economy è ormai parte del sistema produttivo del Paese : uscirne significa rimodulare l’idea complessiva che il Sudafrica ha del mantenimento della sua natura selvaggia, delle faune autoctone e del modo in cui questo stesso patrimonio biologico deve essere amministrato. 

Questo significa anche che la conservazione deve essere economicamente sostenibile e inclusiva: deve poter generare profitti, che poi ricadono sulle comunità rurali che vivono a stretto contatto con la wildlife e che, in un circolo virtuoso, sostengano le stesse aree protette. Le riserve, i parchi nazionali, le porzioni di territorio non statali devote alla conservazione hanno bisogno di risorse economiche. Anche nella prospettiva di un loro ampliamento, quando cioè si decida di non destinare all’agricoltura o all’industria enormi estensioni di territorio. 

Si legge infatti nello Executive Summary: “considerando che il Sudafrica è un Paese in via di sviluppo con davanti a sé immense sfide socio-economiche, abbiamo bisogno di comprendere il ruolo e il contributo che il settore della wildlife riveste nel Prodotto Interno Lordo, nello sviluppo socio-economico, nella conservazione, nella protezione e nel benessere della società e dell’ambiente nel loro complesso (…) il Sudafrica è un leader mondiale nella conservazione delle porzioni di territorio di proprietà non dello Stato, laddove promuove la conservazione  devolvendo i diritti di proprietà e i diritti di uso delle risorse per assicurare che la wildlife sia una opzione di uso del territorio economicamente competitiva, in grado di mettere fuori gioco opzioni di uso del territorio meno desiderabili (come il rewilding). Questo ha portato and una molteplicità di usi del territorio costruiti sulla wildlife, che vanno dalle aree protette statali e private, ai grandi ranch per specie selvatiche, alle strutture per l’allevamento intensivo, ai santuari, ai centri di riabilitazione (…) senza combinare i due modelli della conservazione pubblica e privata il settore della wildlife e la conservazione sui grandi spazi è a rischio di declino in termini di restringimento dello spazio ad esso concesso e di riduzione dei finanziamenti”. 

Il documento illustra dunque alcuni punti nevralgici dello sforzo giuridico che è necessario mettere in movimento per riscrivere i limiti, gli scopi e i confini etici dell’uso delle risorse biologiche del Sudafrica. 

La visione su cui lavorare, innanzitutto: “paesaggi (landscape) sicuri, ripristinati, di nuovo selvaggi con popolazioni prospere di elefanti, leoni, rinoceronti, e leopardi, come indicatori di un settore wildlife vivo, responsabile, inclusivo, trasformato e sostenibile”. 

Tenendo ferma la Costituzione come principio base, occorrerà chiedersi “come il benessere degli animali si collega all’articolo 24 della Costituzione, se l’uso sostenibile è, di fatto, un diritto, se il diritto di proprietà e i diritti culturali sono anch’essi da considerarsi inclusi nell’articolo 24”.

Ci sono interrogativi al confine tra etica, diritto, economia ed ecologia: “la proprietà delle specie selvatiche e della terra; il concetto di “selvaticità (wildness)”, le diseguaglianze nell’accesso alle risorse naturali, la scarsa conoscenza dei costi ambientali nascosti, l’approccio ormai vetusto al conflitto uomo-animali selvatici, gli obiettivi della bio-economia, le quote di caccia, la addomesticazione di animali selvatici e quindi la compromissione del loro status selvatico, l’enorme bisogno di rafforzare le aree protette nel contributo che possono dare allo sviluppo socio-economico”. 

Sono questioni su cui, almeno questa è la sensazione, il Sudafrica è di nuovo, dopo la fine dell’apartheid, al centro dell’attenzione mondiale, perché ha l’opportunità di elaborare un sistema di interazione e coesistenza con la wildlife senza precedenti, per proporzioni e qualità delle scelte in campo. Come rileva lo stesso Summary, infatti, il Paese è costretto a rispondere agli impegni sottoscritti con i Trattati internazionali come CITES, ma deve anche risponde agli interessi contrapposti di gruppi di pressione e  interessi geopolitici interni ed esterni. La gestione del patrimonio biologico è, di fatto, una questione da cancellerie e diplomazie. Una sfida enorme, il cui potenziale, tuttavia, è altrettanto notevole proprio perché il Sudafrica vanta numeri biologici straordinari e potrebbe, nel tentativo di uscire dalla sue stesse contraddizioni, fungere da guida per il resto del mondo. 

Analogo ragionamento, in un anno, questo 2021, che si è aperto con il forte richiamo ad ascoltare le comunità indigene, native ed etnicamente svantaggiate per disegnare insieme il futuro del Pianeta Vivente, riguarda il coinvolgimento dei non bianchi nella stesura dello High Panel: “una attenzione particolare della consultazione è stato comprendere le preoccupazioni, i punti di vista, le opzioni, le aspirazioni e le opportunità sul tavolo per i membri delle comunità che vivono accanto alle specie iconiche. A questo scopo, il Panel ha incontrato la House of Traditional Leaders, il Congress of Traditional Leaders of South Africa, le associazioni dei Traditional Healer, People & Parks e ha condotto 6 incontri con le comunità che vivono adiacenti alle riserve con tutte e 5 le specie: nel Northwest, nel Limpopo Mpumalanga, Kwazulu-Natal e lo Eastern Cape. Durante questi incontri, il Panel ha invitato le autorità preposte a fornire la loro documentazione sulla conservazione e la gestione delle specie in queste riserve”. 

Infine, il  4 maggio, il Ministro Creecy ha detto a SAfmRadio: “è importante che noi si prenda le distanze dalle pratiche di addomesticazione e di familiarità in cattività (habituation) con le specie iconiche”. Una dichiarazione che è molto di più di una ripresa delle sue parole del 2 maggio. Bisogna delimitare in modo rigoroso che cosa è selvaggio e che cosa è addomesticato, e questa distinzione deve avere una cornice legislativa. E questo perché il Sudafrica non può più permettersi di ignorare che cosa significhi una sub-popolazione di leoni che conta forse 12mila individui, geneticamente imparentati e quindi compromessi.

A gennaio 2020 la South African Hunters and Game Association insieme ad un gruppo di ecologi e biologi  aveva pubblicato il documento “The implications of the reclassification of South African wildlife species as farm animals”: “a causa della mancanza di trasparenza e di dettagli, non sappiamo effettivamente come queste specie saranno gestite e, perciò, quali saranno le implicazioni ecologiche. L’approdo finale e logico di questa legislazione è tuttavia che noi avremo 2 popolazioni per ciascuna specie: una selvatica e una addomesticata. A nostro parere mantenere questa distinzione sarà molto costoso, ammesso che si riveli possibile. Quindi, le varietà addomesticate di animali selvatici rappresenteranno una nuova minaccia, di tipo genetico, per le faune selvatiche indigene del Sudafrica, minaccia che a quel punto sarà virtualmente impossibile prevenire o rendere reversibile”. 

A riprova che le implicazioni genetiche di pratiche spericolate di abuso di alcune specie selvatiche non sono né innocue né politicamente neutre. Il Sudafrica ha molto da perdere, ma ancora più da guadagnare dalla sua “lion politics”. 

Special Thanks : Stefania Falcon for EMS FOUNDATION

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