Home » Europa » L’ecodogmatismo? Simile alla nostalgia per l’URSS

L’ecodogmatismo? Simile alla nostalgia perl’URSS. Nelle ultime tre settimane i palinsesti televisivi hanno proposto ben due documentari sul crollo dell’Unione Sovietica. Herzog incontra Gorbacev, firmato da un veterano del cinema di altissimo spessore, come è, appunto, Werner Herzog, è un ritratto encomiastico di un uomo sconfitto dalla storia e incapace di autocritica.

Rocky – L’atomica di Reagan funziona, invece, come una analisi ironica, ancorché serissima, dello strapotere dei miti di Hollywood nel forgiare la politica contemporanea, i sogni della gente comune e quindi i canali attraverso cui scorre la linfa vitale del consenso a regimi consumistici e manipolatori.

Rocky divenne un mito anche in Unione Sovietica, dove il cinema americano era sostanzialmente proibito. Tra gli esperti di costume intervistati del documentario figura anche il celebre critico cinematografico Tom Shone, che arriva al centro della questione senza girarci troppo intorno. Secondo lui l’Unione Sovietica si disintegrò perché la sua dimensione psicologica collettivista, socialista ed egualitarista è un assurdo antropologico.

La gente ha fame di eroi, di individui singoli, solitari e coraggiosi, che riescono a emergere contro tutto e contro tutti. A fare soldi, a fare carriera, a vincere. Questa è la storia di Rocky. Lo dimostra il fatto che l’unica scena del cinema russo che tutti conosciamo è la carrozzina che scende la scalinata, abbandonata al moto inerziale della caduta, nella Corazzata Potiomkin di Eizenstein (1926). L’URSS era un gigante che poggiava su una concezione totalmente irrealistica dell’essere umano.

La forza del capitalismo, come impresa collettiva, sta sostanzialmente nella sua forza umanistica. L’espansione dei mercati corrisponde alla onnipotenza della capacità progettuale della cultura occidentale, che ha introiettato gli schemi di distruzione ecologica. Genocidio ed ecocidio sono strumenti di affermazione politica.

C’è una forte analogia tra l’atteggiamento di chi, ancora oggi, si ostina a vedere nel modello sovietico una occasione mancata e l’ecologismo sentimentalista che domina il discorso sul Pianeta sui social media. Questo tipo di ecologismo ha una decisiva componente dogmatica, che rifiuta di osservare il modo – schifoso, siamo d’accordo – in cui ragiona e sente l’individuo comune.

L’ecologismo dogmatico è una ideologia, non una forma di attivismo. E’ avverso alla scienza e pretende di parlare di emissioni serra, estinzione delle specie animali, cambiamenti climatici e aree protette senza fondare le proprie opinioni sui dati scientifici in peer review.

É una disposizione d’animo, e una posizione intellettuale, che si è già rivelata nefasta, ma che persiste, alimentata dal funzionamento degli algoritmi dei social media, Facebook in testa, che spingono i post ad alto contenuto di lacrime, indignazione e stereotipi (sulla caccia, sul veganismo, sulle pale eoliche, sulle foreste). Gli ecologisti dogmatici non sono solo poco competenti sulle questioni ambientali, sono anche pericolosi. Sono degli agenti inconsapevoli della cattiva informazione.

I dogmatici che prendono di salvare ogni cosa (specie animali, porzioni di territorio, foreste, biomi, oceani), ignorando i dilemmi intrinseci ad ogni azione pianificata di mitigazione climatica e di conservazione biologica, non sanno nulla delle due leggi fondamentali del discorso ecologico nel XXI secolo.

La prima recita: niente è senza prezzo. Non esistono scelte in cui la bontà trionferà al 100%. Non esiste una fonte energetica che non ha impatto o non richiede materie prime, che sia il litio, l’acqua, il sole, il vento o il carbone. La Seconda legge dell’ecologia in Antropocene: negoziare il minore dei mali, sempre. E in mezzo, che ci piaccia o no, una immensa zona grigia.

Quindi bisogna scegliere a che tipo di informazione ambientale affidarsi. L’utopia, iper-reattiva sui social media, inconcludente perché radicata nell’emotività, che cerca solo conferme alle proprie convinzioni aprioristiche; oppure il giornalismo scientifico, che è fondato sulla ricerca, sui dati analizzati dai protocolli di validazione, sulle valutazioni interdisciplinari di problemi complessi, come sono tutti i problemi ecologici posti all’interno di una civiltà globale capace di elaborare cultura.

Il giornalismo scientifico ha ben chiare le contraddizioni della nostra epoca, ma non ha intenzione di ridurle a banali dicotomie bianco/nero, che, anziché spiegare la realtà, la occultano dietro semplificazioni manichee. 

Il dolore per la biosfera non è mai una buona scusa per sostituire una legittima afflizione ai fatti nudi e crudi, alle dinamiche biologiche ed evolutive, al racconto nitido della storia delle idee che riflette e rappresenta, lungo i secoli, l’avventura di noi Sapiens. 

È questo il metodo con cui raccontare il XXI secolo.

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