Home » Europa » Società incompetenti eleggono governi incompetenti

Società incolte eleggono incompetenti. L’incompetenza, però, è il risultato di una scarsa conoscenza della propria epoca storica. Il 2 febbraio 2021 il Governo inglese ha reso pubblica la Dasgupta Review, ossia un Rapporto di 600 pagine sul posto della biodiversità nella economia della civiltà globale del XXI secolo. Nel XXI secolo l’affermazione che, abitando la Terra, l’integrità ecologica del Pianeta è una condizione essenziale per la nostra sopravvivenza non è affatto vera o scontata. A dispetto della sua logica intrinseca. E inoppugnabile.

Dunque fatichiamo a comprendere il nostro tempo, pur vivendolo. Ed anche a ben inquadrare i segnali che provengono dall’attualità.

Convinti di abitare società ed economie dotate di una perfezione intrinseca, garantita da sistemi democratici in buona salute, usiamo infatti la memoria di un passato neanche troppo lontano (il periodo tra il 1933 e il 1945) per rafforzare i nostri pregiudizi sulla giustezza e resilienza della civiltà umana, e di quella occidentale in particolare. Dopo il 1945 l’umanità ha imparato la più terribile delle lezioni su stessa. Adesso non ci resta che crescere.

Il 2 febbraio 2021  il Governo inglese ha reso pubblica la Dasgupta Review, ossia un Rapporto di 600 pagine sul posto della biodiversità nella economia della civiltà globale del XXI secolo.

Il  27 gennaio è diventato un giorno di autocompiacimento collettivo, che anziché stimolare la riflessione storica ne fa mercimonio, con l’obiettivo propagandistico di svilire e snellire sempre più robustamente proprio quella capacità di analisi storica di cui c’è enorme bisogno in campo politico. 

Anche il 6 gennaio 2021 è una data su cui si è detto molto, finendo con il non capire quasi nulla. Per definire il pericolo di una insurrezione armata di suprematisti bianchi, i giornali americani hanno pubblicato lunghi essay ed interviste ad un eminente storico, il professor Timothy Snyder di Yale. Il suo saggio per il New York Times ha un titolo inquietante: The American Abyss.

Ebbene, Snyder è uno storico del nazismo. Il motivo per cui Snyder ha dimostrato di essere autorevole, a partire dal 2017, nell’analizzare il trumpismo, non è solo la sua familiarità con le dinamiche della propaganda politica, l’implosione del parlamentarismo e la malleabilità delle ideologie razziste in periodi di crisi sociale.

Snyder è un umanista di enorme cultura, che discute degli schemi ricorrenti nell’agire storico, con una particolare attenzione agli schemi culturali. E lo schema su cui ha scritto con più fervore negli ultimi 4 anni è la dimensione collettiva della verità in questo nostro XXI secolo.

Cosa è, oggi, la verità? Le persone cercano la verità quando prendono in mano il loro iPhone? Quale atteggiamento psicologico verso la verità motiva una condotta politica consapevole?

Il nostro atteggiamento verso la catastrofe ecologica non solo svela la nostra somiglianza con i simpatizzanti di Trump, ma rivela anche la poco confortante familiarità con il modo di pensare degli europei di nazionalità tedesca che scelsero Hitler. Siamo, oggi come allora, completamente in balia di un “reality shift”, che rende l’assunzione di principio del Gruppo di Stanford – “numbers don’t lie”, i numeri non mentono – socialmente disattivato. 

L’incompetenza politica coincide infatti con l’incompetenza sociale. Se guardiamo all’Italia, il 2 febbraio esprime con la massima forza un fallimento sociale condiviso. Pessimi cittadini si danno pessimi governanti. Perché non li sanno scegliere. E non li sanno scegliere perché hanno scarsa intimità con la brutalità degli eventi, in cui vagano a tentoni.  

Secondo il professor Snyder, “essere un cittadino significa essere coinvolto nel mondo, con le altre persone e anche con la verità. Ti sottometti alla tirannia quando rinunci alla differenza tra ciò che vuoi sentirti dire e ciò che effettivamente è (…) la post-verità è l’anticamera del fascismo (“pre-fascism”), ossia: abbandonare i fatti equivale ad abbandonare la libertà”. 

L’analisi di Snyder è centrata sulla responsabilità di vivere consapevolmente una vita da cittadino, ben piantata nei fatti e non nei desideri o nelle narrative rassicuranti: “la storia conta, è dalla storia già consumatasi che dobbiamo partire e non dai miti confortanti ed elusivi che magari ci siamo formati sul passato. A questo proposito, quella che io chiamo una politica della inevitabilità è una idea ampiamente diffusa negli Stati Uniti sin dal 1989″.

“Secondo questa visione delle cose il passato è disordinato, violento e caotico, ma siamo inesorabilmente in cammino verso un mondo più libero, più sicuro e più progressista. Ci sarà più globalizzazione, più vita, più prosperità, più democrazia. Ma tutto questo è semplicemente non vero”.

“Nessuna grande narrativa o storia grandiosa di questo tipo è mai vera, e il fatto che ciò nonostante queste narrative abbiano un potere di accecamento pone esattamente il tipo di pericolo molto reale che torni il genere di cose che, si dice, non potranno più accadere”.

È evidente che la certezza di un miglioramento continuo scritto nel destino (la “crescita”) non può arrivare a concepire la gravità della crisi ecologica. Non solo la ignora. La considera proprio impossibile. Questa disposizione spirituale delle società occidentali, non solo americana, è stata spericolatamente sottovalutata dai movimenti ambientalisti tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. 

Una visione politica di questo tipo è molto pericolosa, quando una società civile attraversa una catastrofe ecologica. Come ad esempio una epidemia da zoonosi. Sotto la cappa protettiva della politica della inevitabilità, la crisi di governo, proprio perché è così dannatamente grave, non può perdere tempo con valutazioni di sistema su clima, biodiversità ed estinzione.

L’epidemia è un interludio, un intermezzo, una parentesi. Risolverla con successo ci servirà per confermare che disponiamo dei mezzi e dei poteri per rimanere in controllo della situazione. Il mito del progresso è ancora oggi un cemento a presa rapida nell’opera di costruzione del consenso sul mantenimento dello status quo. 

Questo modo di pensare non è alieno al fascismo, come spiega Snyder: “siamo in una relazione di lungo periodo con il disastro. La  domanda è se ne usciremo in tempo. Direi che ci sono due passaggi da considerare qui. L’intera idea sui fatti alternativi e la post-fattualità, con cui ci confrontiamo oggi, era abbastanza familiare agli anni Venti del Novecento. È una visione molto simile alla premessa centrale della visione fascista. Questo è molto importante, perché senza una adesione ai fatti viene meno il ruolo della legge. E rimosso il ruolo della legge non esiste più la democrazia”.

Il downplaying compiaciuto del disastro ecologico tratta le evidenze scientifiche alla maniera fascista. Le ignora, perché alla realtà preferisce sostituire una narrativa rassicurante e deresponsabilizzante. Snyder: “quando la gente vuole farla finita con la democrazia e la legge lo fa perché viene proposta una visione alternativa. La quotidianità è noiosa, si dice. Dimenticati dei fatti. Gli esperti sono noiosi. Aderiamo invece ad un mondo fittizio, ma decisamente più attraente”.

Ma quando un individuo cede nell’impegno a capire che cosa accade attorno a lui “si apre la strada per il grande sogno e per la fine della libertà nel suo significato più pieno. I sociologi sostengono che la fede (belief) nella verità è il fondamento dell’autorità. Senza questa fiducia, senza rispetto per i giornalisti e per i politici, una società non può stare in piedi. Nessuno si fida di nessuno, e la società rimane aperta al risentimento e alla propaganda, e di certo anche ai demagoghi”. 

Anche Yanis Varoufakis fa una analisi simile a quella di Snyder. Secondo Varoufakis, che si concentra sulla struttura economica delle nostre società attuali, la tecno-economia globale ha plasmato sistemi politici autoreferenziali. La capacità di scelta, la libertà di azione e il pensiero critico non hanno più cittadinanza in un ecosistema economico in cui il potere economico replica se stesso in totale distacco dalla realtà umana del Pianeta.

Nella voragine di una società civile che non è più tale la pragmatica del disastro ecologico cade nel silenzio, pur contenendo essa stessa forti stimoli politici. Così è andata il 2 febbraio anche con la Dasgupta Review – The Economics of Biodiversity, commissionata nel marzo 2019 dal Ministero delle Finanze e del Tesoro del Governo Inglese e condotta da Sir Partha Dasgupta, accademico di Stanford e Cambridge.

Dasgupta è un luminare di economia della povertà e della nutrizione, di economia ambientale e di economia della conoscenza. La Dasgupta Review ha lo stesso peso specifico del fu Rapporto Stern sui cambiamenti climatici del 2006.

Anche questa Review, infatti, aveva lo scopo di definire i benefici economici della protezione della biodiversità in funzione del danno già inflitto al Pianeta e dei rischi di un peggioramento. La Review, infine, avrebbe dovuto essere presentata al Summit di Kunming, in Cina, fissato ad ottobre 2020 e saltato a causa della pandemia.

A prescindere quindi da valutazioni nel merito (voci di critica e dissenso non sono mancate, martedì scorso, neppure nel mondo ambientalista) la Dasgupta Review mette in chiaro, così come già era accaduto per il cambiamento climatico, che non può esistere economia senza biodiversità. 

Jason Hickel, ad esempio, economista e antropologo di fama esperto di diseguaglianze sociali ed ecologia, vicino ad Extinction Rebellion, ha espresso molte perplessità, sostenendo che la Review non riesce a liberarsi dello schema ideologico “pagare per proteggere la natura”, che contiene una impostazione ultra liberale suicida.

Kate Rawort dello Environmental Change Institute di Oxford ha pesantemente criticato David Attenbourough, che è parso entusiasta di un approccio giudicato squisitamente economico: 

Di fatto, la Review ruota attorno ad una valutazione nient’affatto scontata della biodiversità come patrimonio esistenziale dell’umanità e solo per questo di valore economico. Non è tutto quello che ci saremmo aspettati, ma è nella sostanza un programma politico che dovrebbe figurare nei talk show sulla consultazioni del Governo Draghi. 

I principi di fondo della Review possono essere considerati come la vera svolta nel modo in cui la attuale governance mondiale sulla biodiversità definisce i problemi del XXI secolo, una svolta che è cominciata con il Rapporto IPBES del 2019.

Questi principi devono ora entrare anche nell’agenda politica delle nazioni occidentali e dell’Unione Europea: “Mentre la maggior parte dei modelli economici basati sulla crescita e lo sviluppo riconoscono che la natura è capace soltanto di produrre un flusso finito di beni e di servizi, il focus della Review è stato orientato a mostrare che il progresso tecnologico può, almeno di principio, superare questo limite di esaurimento. Ma immaginare questo scenario equivale, in definitiva, a considerare l’umanità come esterna alla Natura”.

“La soluzione comincia, invece, con il comprendere e con l’accettare una semplice verità: le nostre economie sono cooptate dalla natura (embedded) e non esterne ad essa”. 

Il cambiamento “trasformativo” di cui stiamo parlando, termine questo già impiegato dall’IPBES, richiede “il livello di ambizione, coordinazione e volontà politica del Piano Marshall, e forse anche di più”. La World Bank, qualche giorno fa, ha pubblicato i dati sulla povertà globale dopo il primo anno della pandemia: nel 2020 sono scivolate nella povertà estrema tra gli 88 e i 115 milioni di persone; tra i 119 e i 124 milioni di persone sono diventate, invece, povere.

Gli indicatori convergono nel disegnare uno scenario internazionale che, se pur con macro-differenze enormi, mostra l’inarrestabile disintegrazione della fisiologia occupazionale a capitalismo avanzato. E quindi l’urgenza di un Piano Marshall, non solo in Europa, ma senz’altro anche in Europa. 

Se la biodiversità produce economia, nel senso che, per mantenersi, le forme di vita elaborano, processano e metabolizzano le risorse organiche e naturali a loro disposizione, allora il capitale umano, la natura stessa e la cultura della nostra specie sono “asset”, ossia valori contabilizzabili su scale di misurazione qualitativamente differenti, che però concorrono a costruire, tutte insieme, il patrimonio biologico. 

Data questa realtà di fondo, la Review puntualizza che biodiversità significa diversità biologica e cioè ricchezza di forme di vita e biomi: “la biodiversità rende la natura produttiva, resiliente e adattabile. Proprio come la diversificazione degli asset in un portfolio finanziario riduce il rischio e il margine di incertezza, nello stesso modo un portfolio di asset naturali aumenta la resilienza della natura agli shock, riducendo il rischio di perdere i servizi forniti dalla natura”.

“Ridurre la biodiversità mette quindi in sofferenza l’umanità”. Questo vuol dire preservare la funzionalità di un ecosistema, ossia il numero di specie vegetali e animali che lo popolano e quindi la capacità di questo stesso ecosistema di “rispondere” al rischio, ad esempio allo stress climatico. 

Un punto molto importante della Review è la valutazione complessiva sulle responsabilità di ciascuno di noi, in quanto soggetti politici delle società civili che negli ultimi 30 anni non hanno prodotto un cambio di passo nell’economia e nella cultura.

“Abbiamo fallito collettivamente nell’amministrare il nostro portfolio di asset globali in modo sostenibile. Le stime mostrano che tra il 1992 e il 2014 il capitale prodotto pro capite è raddoppiato e il capitale umano pro capite è cresciuto del 13%, ma lo stock di capitale naturale a disposizione di ciascuno è declinato di quasi il 40%”. Questo è accaduto perché abbiamo avvalorato un sistema economico e finanziario in cui “il valore reale dei vari beni e dei servizi forniti dalla natura non è rispecchiato nei prezzi di mercato”. 

Questa “distorsione” è stata politica nella misura in cui è stata appannaggio di governi e istituzioni regolarmente eletti: “questo non è solo un fallimento dei mercati: è un ben più esteso fallimento istituzionale. Molte delle nostre istituzioni si sono dimostrare inadeguate (unfit) a gestire le esternalità (le esternalità sono i veri costi, occulti, dello sfruttamento di una risorsa come gli stock ittici, il legname delle foreste, i minerali, NDR)”.

“Quasi dappertutto i governi peggiorano il problema pagando gente più per distruggere la natura che per proteggerla e per mettere in cima alle priorità attività economicamente insostenibili. Una stima conservativa dell’ammontare complessivo, su scala globale, dei sussidi che danneggiano la natura è dell’ordine dei 4-6 trilioni di dollari americani all’anno. Non disponiamo degli strumenti istituzionali per proteggere i beni pubblici, come gli oceani e le foreste tropicali umide del mondo”.

Un programma politico coerente con il XXI secolo deve quindi essere consapevole che “non possiamo fare affidamento solo sulla tecnologia: gli schemi di consumo e di produzione dovranno essere fondamentalmente ristrutturati”.

Primo: “far entrare la natura nei processi decisionali economici e finanziari alla stessa stregua di edilizia, macchine, strade” e quindi “modificare il modo in cui misuriamo il successo economico. Il Prodotto Interno Lordo non include gli asset ambientali e va riformato. 

Secondo: la ricchezza deve essere valutata in base alla sua capacità di tener conto degli asset naturali e quindi del suo impatto, positivo o negativo, sulle prossime generazioni e il loro benessere. 

Terzo: ristrutturare i meccanismi di finanziamento della protezione della natura selvaggia, un punto che era già stato discusso l’estate scorsa, in altra sede, da un team di ecologi che lavorano in Africa (Il Covid potrebbe essere la tempesta perfetta per l’Africa).

“Ci sono due grandi tipologie di casi da esaminare. Per quegli ecosistemi (biomi, nello specifico) che si trovano all’interno di confini nazionali (ad esempio le foreste tropicali), dovrebbe essere esplorato un sistema di pagamento per la protezione alle nazioni che posseggono questi biomi”. 

“Invece, per gli ecosistemi che sono al di fuori dei confini nazionali (ad esempio gli oceani al di fuori di zone esclusivamente economiche) bisognerebbe instituire tasse o formule di usufrutto (rent) per il loro uso (traffico oceanico su nave o attività di pesca) e proibirne l’uso in aree ecologicamente sensibili”. Il flusso di revenue così generato potrebbe sostenere la governance internazionale e generare un circolo virtuoso di ulteriori finanziamenti. 

E infine: spingere su una riduzione della popolazione mondiale attraverso campagne vastissime di uso di anticoncezionali che “accelerino la transizione demografica”. Finora, questi programmi sono stati sotto-finanziati.

È intuitivo che per mettere in piedi governi di tale caratura serve un elettorato consapevole. Un elettorato, appunto, competente. Una economia moderna ( e cioè coerente con la sua epoca) non dipende solo da una biodiversità ormai compromessa, che quindi non può essere esclusa dai giochi. Dipende anche dalla cultura di coloro che scelgono a chi affidare la gestione del disastro.

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