Ragazzini tedeschi a Berlino nell'estate del '45. In tempi eccezionali il principio di realtà dovrebbe prevalere. Le proteste degli studenti per ritornare a scuola nonostante l'epidemia rampante dimostrano invece l'insufficienza psicologica di una generazione cresciuta con aspettative irrealistiche e grandiose, incompatibili con lo stato reale del Pianeta.
Ragazzini berlinesi nell’estate del 1945

La scuola non è indispensabile. Non sempre, quanto meno. E non lo è soprattutto in tempi di crisi biologica. Il conato volontaristico degli studenti che pretendono di tornare in aula a qualunque costo non esprime nulla se non la totale incomprensione, da parte loro, della situazione storica in cui si trovano.

Questi studenti, che, intervistati, commettono crassi e insopportabili errori di grammatica e sintassi, soffrono non solo di un insufficiente principio di realtà. Patiscono anche le distorsioni di un insoddisfacente principio di realtà.

Per quanto auspicabile, frequentare la scuola non è sempre possibile. Ci sono situazioni straordinarie in cui le lezioni non possono tenersi a causa, ad esempio, della guerra. Si va avanti fin tanto che i bombardamenti lo permettono, e poi ci si rassegna. E si sopporta, con il cuore gonfio di angoscia.

Diventa indispensabile attingere ad altre fonti di apprendimento, e di sopravvivenza. Si impara a fare una minestra di patate, si impara a spalare le macerie, si impara a cercare, giù nel profondo, qualche pensiero di resistenza e di pace che tenga vivo l’essere umano.

Ma, da un anno, è entrato nel novero delle situazioni straordinarie un tipo di conflitto totale che gli studenti non sono stati educati a considerare, meditare e contemplare. Ossia la pandemia, che è l’ultimo, raccapricciante sintomo della crisi biologica globale, che è solo un altro nome con cui descrivere l’Antropocene. 

Durante una pandemia le regole del comune sentire saltano. E non perché c’è il lockdown o sono chiusi i ristoranti. Le certezze si sbriciolano perché è improvvisamente chiaro che sono inutili, insulse e insufficienti.

Ci siamo svegliati dal sonno del giusto, ci siamo accorti che sul Pianeta accade qualcosa e nessuno, ahimè, lo aveva detto agli studenti. Non lo hanno fatto i genitori, non lo hanno fatto gli insegnanti e non lo ha fatto neppure la politica. 

Ecco da dove viene fuori, allora, quella notevole e inedita forma di paralisi emotiva che io chiamo “insoddisfacente principio di realtà”. La realtà si rivela molto più dura di quanto prospettato dai mercanti di sogni (influencer, politici, profeti della crescita).

E di fronte a questo dismagamento la coscienza drogata da aspettative madornali e immotivate non reagisce con un esame delle cose finalmente realistico, no; la coscienza si rivolta contro se stessa e continua a pretendere, a chiedere, a invocare. Non siamo noi comuni mortali a doverci adeguare alla realtà, è la realtà del XXI secolo che non si confà ai nostri desideri. Non ci soddisfa. 

I giovani di oggi sono radicalmente diversi dal giovane protagonista del capolavoro di Jacob Wasserman, Il caso Maurizius. Etzel Andergast a tredici anni è pronto a sfidare il mondo intero, per dare giustizia ad un uomo che non ha mai visto. Studia il greco, studia Goethe. Pensa, e proprio perché pensa contesta suo padre.

Joachim Fest, il valente storico tedesco del Nazismo, era un ragazzo durante gli anni del consolidamento del potere di Hitler. Viveva a Berlino, con genitori che non hanno mai preso la tessera del partito.

Nel suo libro La disfatta svolge una riflessione di sensazionale spessore sulle motivazioni della gente comune a lasciarsi scivolare nella dittatura: “le adesioni che Hitler e il suo movimento registrarono furono, più di ogni altra cosa, uno scriteriato e precipitoso modo di prendere le distanze dall’infelice Repubblica di Weimar, dallo Stato ‘con il berretto da pagliaccio’, come lo definì uno dei suoi disperati difensori: spintonato dall’esterno e, all’interno, oggetto delle irrisioni di troppi avversari uniti solo dal disprezzo e dall’odio per le istituzioni esistenti”.

“Questo è uno dei fattori che hanno impedito di capire la profonda cesura morale che molti odierni osservatori, conoscendo i successivi orrori del regime, colgono nell’anno 1933. I contemporanei non la percepirono se non raramente. Ma per una precisa comprensione degli avvenimenti va anche considerato che quasi nessuno di coloro che vissero quei momenti aveva un concetto anche solo approssimativamente chiaro e preciso della dittatura totalitaria che si stava profilando”. 

Ecco, il punto è esattamente questo. Se si comprende per bene in quale diavolo di situazione ci si trova, quanto meno si rimane sbigottiti e impotenti e immobili. Ma se il quadro complessivo delle cose sfugge, si mettono in atto comportamenti inadeguati e assopiti. 

L’insoddisfacente principio di realtà è una caratteristica storica dell’Antropocene. Ci siamo abituati a vivacchiare ossequiando i nostri desideri inconsci (sicurezza, comfort, accesso illimitato all risorse biologiche), perdendo completamente di vista le origini della nostra realtà storica attuale. 

Moltissimi ragazzi, e moltissime ragazze, vivono precisamente in questo modo. In una dorata apatia.

Lo scollamento dalla realtà è un fattore di consenso politico tanto a destra quanto a sinistra. E’ ormai una tabe psicologica collettiva.

Concentrandosi sui suoi effetti politici, l’insoddisfacente principio di realtà lo aveva analizzato con la consueta maestria nel 2017 – riprendendolo il 20 gennaio scorso in prima pagina –  Ta Nehisi Coates, su THE ATLANTIC. Ta Nehisi decripta il fenomeno Trump (il titolo del pezzo era The first White President), che contiene un evidente “reality drift”, una deriva della realtà e dalla realtà.

Da sempre la presa di distanza dalla realtà è uno strumento di affermazione politica, quando cade nelle giuste mani: “Nelle ultime due settimane mi sono trovato a pensare al libro di storia medievale di Barbara Tuchman, a Distant Mirror. Il libro è un capolavoro di una lettura storica anti-romantica, di uno sguardo freddo su come generazioni di aristocratici e di loro fedeli scatenarono le guerre più lunghe mai registrate nella storia umana, tutte sotto la pretesa del volere divino”. 

“Nella sua introduzione, la Tuchman esamina l’ideale cavalleresco e scopre che, sotto la poesia e il codice d’onore, c’era poco più che mito e delusione. I cavalieri medievali ‘si supponeva che, in linea teorica, difendessero la fede, fossero i sostenitori della giustizia e i campioni degli oppressi’, scrive Tuchman”.

“‘Di fatto, erano loro stessi gli oppressori e, a partire dal XIV secolo, la violenza e la mancanza di legge degli uomini della spada divenne uno dei maggiori fattori di disordine sociale”. Per Ta Nehisi questa deformazione della propria missione ideale proveniva dalla struttura stessa del potere: “quando hai abbastanza potere, la realtà puoi anche tenerla al palo”.

“E continuare, quindi, a sentirti o una vittima o un benefattore dell’umanità per volontà divina. E però la realtà continua ad esistere, nuda e cruda: ‘quando lo iato tra ideale e reale diventa troppo grande, scrive la Tuchman, il sistema si spacca in due‘.

“Possiamo sperare che questo momento sia arrivato per l’America”, conclude Ta-Nehisi, “che alla fine sia esploso sotto i nostri occhi, che vedono come i poliziotti guardavano la bandiera confederata durante l’insurrezione del 6 gennaio, la loro canzonatura di George Floyd e la gentilezza invece mostrata dalla polizia del Campidoglio. Tutto questo non è un caso. Direi di più. Il trumpismo non comincia con Trump”. 

Quel che mi sembra essenziale nel ragionamento di Ta Nehisi, e utile ben al di fuori dei confini americani, è che la società americana sembra esseri accorta di botto, in una sorta di evento epifanico, di qualcosa che, invece, era già esposto, vivido, scarnificato.

Il genere di pericolo sociale personificato da Trump poggia infatti sulle colpe storiche della nazione della nazione, che negli ultimi decenni non hanno fatto che replicare se stesse, riproporsi e rigenerarsi. 

“Non basta constatare ciò che appare ovvio in Donald Trump: che egli è un bianco che non sarebbe mai diventato presidente se non fosse stato bianco. Con una sola eccezione, i predecessori di Trump si sono fatti strada nel più alto ufficio attraverso l’esercizio passivo del potere bianco, l’insanguinato patrimonio ereditato che non può assicurare in automatico che ogni evento sia possibile, ma di certo dà il vento in poppa per la maggior parte di queste felici circostanze”.

“Il furto della terra e il saccheggio di vite umane hanno pulito il terreno ai bisnonni di Trump e tagliato la strada ad altri. Una volta in gioco, questi uomini divennero soldati, statisti e accademici; frequentarono le corti, a Parigi; furono presidi a Princeton; avanzarono nelle terre selvagge (wilderness) e alla fine fin dentro la Casa Bianca (…) Donald Trump è il presidente che, più di ogni altro, ha reso questa spaventosa eredità esplicita”. 

Non illudiamoci che i nostri affari non abbiano nulla a che vedere con Trump. Non illudiamoci che Hitler sia roba passata, e con lui i sentimenti e le frustrazioni mitologiche di milioni di tedeschi. Non inganniamo i giovani, che disinteressandosi alla realtà la realtà li premierà.

Il fatto che un singolo episodio – l’elezione di un tycoon razzista o l’esplosione di una pandemia – appaia come una epifania, una eccezione, una distorsione dalla norma è una allucinazione collettiva, una forma di auto-assoluzione con cui si tiene lontana dalla coscienza la propria responsabilità storica.

La verità sta altrove, non nella sfortuna improvvisa o nella straordinarietà di un evento unico nel suo genere, bensì nella profondità storica del corso del mondo, che ha spinto a galla quell’avvenimento. 

Se ai nostri studenti fosse stato insegnato, e mostrato, che viviamo nel XXI secolo, in pieno Antropocene, avrebbero compreso che facciamo esperienza di una catastrofe globale e che in tempi di catastrofe non si fanno i capricci, si trovano strade alternative per rimanere umani, sopravvivere e articolare risposte adattative fuori scala.

E cioè intelligenti, astute, inusitate e brillanti. Ci sono intere biblioteche da leggere, e da cui imparare che cosa è la vita. Per poi inventarne una nuova seria, vitale e rivoluzionaria. Mettersi a leggere libri è la risposta matura alla sospensione delle lezioni. 

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