Home » Biopolitiche » Sudafrica, è fuori controllo l’esportazione illegale di rettili e anfibi

In Sudafrica prospera il traffico di rettili. E di anfibi. In una compiacente illegalità. Indisturbato, quindi, il rischio epidemiologico da circolazione di specie selvatiche senza controlli giuridici affidabili. Da tempo il Sudafrica ne è protagonista. Ma non solo per quanto riguarda il destino dei mammiferi, come i grandi felini. Anche nel traffico internazionale di anfibi e rettili selvatici, attraverso una rete di compratori e rivenditori che commerciano migliaia di animali prelevati dai loro habitat wild senza nessuna regolamentazione profilattica.

C’è di che allarmarsi, leggendo il report Plundered: South Africa’s Cold-Blooded International Reptile Trade, la terza parte di The Extinction Business, l’enorme investigazione delle due Ngo sudafricane Ban Animal Trading e EMS Foundation dentro il lato infame e oscuro del traffico di specie selvatiche di cui il Sudafrica è, purtroppo, diventato un big player.

Il traffico di specie selvatiche – non solo di rettili – prospera in tutto il mondo.

Il business dell’estinzione, di cui ho parlato diffusamente su questo magazine (a proposito dell’allevamento in batteria di leoni, nel 2018: South Africa’s Lion Bone Trade) e su LA STAMPA (per il traffico di ghepardi verso la Cina, quest’anno a maggio: Breaking Point: Uncovering South Africa’s Shameful Live Wildlife Trade with China), è una minaccia sanitaria su scala globale, che è stata debitamente tenuta sotto silenzio in questi mesi di pandemia e che svela invece un trend economico in ascesa.

Un trend che si può riassumere, come emerge anche in questo lavoro di BAN ed EMS, nella volontà politicamente pianificata di sfruttare le risorse biologiche nel modo più indiscriminato possibile, impoverendo ancora di più nazioni – come appunto il Sudafrica, il Benin, il Ghana – già povere, che sono avviate a ritrovarsi con un patrimonio biologico gravemente compromesso negli anni a venire, a tutto vantaggio di flussi di denaro che avvantaggiano Paesi in una posizione di “parassitismo ecologico” sempre più spietato. 

Il solo Sudafrica possiede qualcosa come 400 specie native di rettili. Una miniera d’oro per una classe politica che non riesce a imporre una svolta etica nella propria gestione di una eredità ecologica straordinaria. 

Probabilmente migliaia di anfibi e rettili, spiega il report, finiscononel circuito globale della carne selvatica (bushmeat): tartarughe e anche rane (come ad esempio la rana toro africana, Pyxicephalus adspersus, che gli investigatori hanno trovato in scatole di vetro, ancora vive, nello street market di Tianjin nel 2018). 

Naturalmente questo è un fenomeno non certo solo asiatico o cinese. Tra il 2013 e il 2018 l’Angola ( uno dei mercati di carne selvatica più grandi al mondo) ha importato esemplari di 25 specie di rettili sudafricani listati in CITES (per lo più serpenti).

Nonostante i rischi intrinseci allo spostamento, tra continenti, di specie animali fuori dal contesto selvatico di origine, “la scala del commercio globale di animali selvatici, benché enorme, è poco documentato e la sua estensione non completamente chiara. Il commercio di specie selvatiche stimola ormai l’uccisione di animali selvatici nei loro habitat, portando allo loro estirpazione, a perdita di biodiversità e infine al collasso degli ecosistemi”. 

L’ennesima riprova della correlazione fatale tra defaunazione, rischio epidemiologico e crisi ecologica.

Un aspetto ancora più inquietante, tuttavia, è che l’unica arma attualmente disponibile per controllare e regolamentare il commercio di animali, e cioè l’accordo CITES, è una lancia spuntata, come già avevano dimostrato le investigazioni del 2018 e dell’estate del 2020: “entrambi i report discutono diffusamente come buchi e controlli inefficaci nel sistema dei permessi, che include CITES, di fatto rendono possibile il riciclaggio internazionale e il contrabbando di animali selvatici vivi. Una situazione analoga si applica al commercio, anche questo globale, di rettili e di anfibi vivi”. 

Il Sudafrica è, purtroppo, un paese modello in questo senso: “almeno 4500 rettili e anfibi esotici e indigeni sono stati esportati dal Sudafrica fra il 2013 e il maggio 2020”. Tra questi un numero non rintracciabile di 262 serpenti è finito anche nei pet café, caffetterie che tengono, a scopo ornamentale e ricreativo, animali esotici vivi, come in Corea del Sud.

“Il commercio internazionale nella maggior parte dei rettili, degli anfibi e delle aracnidi è sostanzialmente non regolato, spesso illegale e costituisce una industria in crescita in Sudafrica.  I dati sul commercio di queste specie sono inaffidabili e insufficienti, perché la maggior parte dei Paesi non tiene registrazioni o raccolte dati, benché le specie siano listate nelle Appendici della CITES. 

Una causa di questo è che, a differenza delle specie cosiddette carismatiche come leoni, elefanti, tigri e primati – percepiti come animali con un più alto valore intrinseco – i rettili, che includono specie come serpenti, lucertole, testuggini, tartarughe, alligatori e coccodrilli, sono considerati e percepiti dal pubblico come creature meno desiderabili, oggetto di stereotipi negativi, e quindi mancano dell’appeal di specie sentite come più vicine all’uomo”. 

Eppure, i rettili sono gli animali che patiscono più crudeltà nel wildlife trade. I rivenditori e gli allevatori tengono in conto tassi di mortalità inconcepibili per i mammiferi: fino al 70% di perdite lungo i diversi passaggi della filiera. Il 50% dei rettili in vendita come pet sono stati catturati in the wild e poi passati per animali nati in cattività.

É il crescere della domanda che spinge il mercato a catturare esemplari selvatici, una via più rapida rispetto al mettere in piedi un allevamento. Gli habitat vengono così svuotati, come ha documentato un articolo uscito nel 2018 su BIOLOGICAL CONSERVATION: “analizzando il commercio di specie di serpenti listate in CITES dal 1975 al 2018 questo studio ha trovato che la maggior parte degli animali sono ancora oggi di origine selvatica”.

E negli allevamenti vige lo stesso regime di sfruttamento biologico invalso per i mammiferi del Sudafrica: “per rifornire di pet il mercato, chi lavora per gli appassionanti seleziona geneticamente animali che hanno un certo colore e una certa forma”. 

In Sudafrica, le ambiguità e le carenze legislative che consentono agli imprenditori di fare soldi in questo settore sono sfacciate.

Ad esempio, nel distretto del Gauteng, a cui appartiene anche la municipalità di Johannesburg, quando un animale è confiscato dal Dipartimento dello Sviluppo Agricolo e Rurale e consegnato ad uno zoo, o portato in uno zoo da gente comune, questo animale viene immediatamente classificato, da un punto di vista giuridico, come animale “nato in cattività”.

E può quindi essere venduto ed esportato. BAN e EMS hanno raccolto prove che indicano che lo Johannesburg Zoo  “è il più grande fornitore di tartarughe leopardo ai commercianti di wildlife del Sudafrica con destinazione mercato internazionale di animali da compagnia”.

Ma non è il solo: “I National Zoological Gardens (ossia il Pretoria Zoo) sono stati e probabilmente ancora sono il principale fornitore di tartarughe leopardo per il rivenditore di specie selvatiche Mike Bester. La maggior parte delle leopardo sono state esportate a pet shop, allevatori e online trader di Hong Kong e Germania e come animali da compagnia e cibo a Taiwan e Tailandia”. 

Ma in che modo l’accordo CITES è insufficiente ? 

Intanto, c’è una scappatoia per far passare le dogane anche ad animali listati in Appendix I, cioè le specie a rischio di estinzione che non potrebbero essere commercializzate in nessun modo, intere e vive, o fatte a pezzi (pelle, denti, unghie, pelliccia).

Ciò può avvenire, come già aveva spiegato il report Breaking Point lo scorso giugno, se questi animali “sono allevati in cattività in una struttura registrata con CITES e se il commercio avviene per scopi non commerciali”. E cioè, ad esempio, a scopo di conservazione della specie, come sostengono molti zoo.

Ma il punto debole è nel modo in cui funzionano i regolamenti CITES per importare ed esportare specie selvatiche: “Sotto la regolamentazione CITES, il Paese che esporta non è tecnicamente tenuto a controllare se gli indirizzi di esportazione sono legittimi. I permessi CITES funzionano ancora con un sistema manuale, soggetto a vaste frodi.

Le dichiarazioni false fornite da commercianti, agenti ed esportatori sono dappertutto e anche una volta scoperte non c’è ad oggi una singola violazione che sia stata perseguita. La trasparenza e la responsabilità, due degli elementi di base della governance, sono notoriamente assenti dal sistema di regolamentazione.

La tracciabilità, che ha una funzione critica per monitorare e verificare, è, in modo simile, assente e inaffidabile. In altre parole, identificare la vera origine di un qualsiasi animale è di fatto impossibile. Una volta che gli animali lasciano il Sudafrica, non si può più sapere dove vadano a finire”. 

Una seconda carenza di CITES è che “CITES non classifica gli zoo come strutture a scopo commerciale o come imprese”.Gli animali registrati come “nati in cattività” possono quindi tranquillamente essere venduti, perché  la Convezione (CITES) non attribuisce agli zoo la funzione di venditore o di intermediario con i compratori e i broker. Anche se di fatto in un Paese come il Sudafrica, ricchissimo di biodiversità, ce l’hanno eccome. 

Terzo punto, il disallineamento tra i propositi e i principi fondativi di CITES e le regolamentazioni nazionali, che possono bypassare CITES o sfruttarne i punti deboli per favorire gli interessi dei wildlife trader. “La maggior parte delle specie indigene di tartarughe esportate come pet e come cibo sono listate in Appendix II, eccetto che per la tartaruga elmetto.

L’Appendix II include specie che non necessariamente sono minacciate di estinzione, ma il cui commercio deve essere rigorosamente controllato e regolato, in modo da evitarne un utilizzo incompatibile con la loro sopravvivenza”, spiegano BAN ed EMS.

“Il commercio di tartarughe non è neanche lontanamente  controllato con serietà in Sudafrica. Le destinazioni finali degli animali per lo più sono sconosciute prima dell’esportazione.

L’Autorità scientifica sudafricana non ha messo a punto un NDF completo per le specie di tartarughe indigene, con lo scopo di determinare quale possa essere l’effetto della rimozione di esemplari catturati allo stato selvatico sulla popolazione selvatica. Un NDF è il documento di “non-detriment finding” previsto da CITES per le specie listate in Appendix II, necessario prima del rilascio di un permesso di esportazione”. 

Scenario analogo per i serpenti. “La maggioranza delle specie indigene di serpenti e di lucertole del Sudafrica non sono classificate in CITES. Gli animali possono quindi essere esportati senza che i wildlife trader siano tenuti a dichiarare se quegli animali sono stati catturati allo stato selvatico o allevati in cattività, e lo scopo dell’esportazione non è richiesto”.

Di conseguenza, “le autorità sudafricane hanno una scarsa conoscenza del tipo di esportazioni internazionali che coinvolgono specie indigene di serpenti”. Nell’arco temporale preso in esame (2013-2020) il 70% dei serpenti sudafricani è così giunto nelle mani dei pet shop, di siti on line che li hanno rivenduti e di pet café. Uno dei maggiori compratori è stato il Pakistan. 

E, infine, non è inusuale che chi traffica in rettili fuori e dentro le cornici giuridiche ufficiali si occupi anche di mammiferi. 

Il report descrive l’attività di Shakeel Malkani, proprietario e direttore di una impresa denominata Animal and Birds Exporter South Africa. Malkani è un pakistano che vive in Sudafrica. È conosciuto per aver esportato una lunga lista di animali oltre confine: uccelli esotici e scimmie in Bangladesh e Pakistan, fennec in Bangladesh e Oman; cuccioli di leone africano, procioni, licaoni, kinkajou, coatis, sciacalli dal dorso nero e serval in Bangladesh. Nel 2019 Malkani ha impacchettato e venduto anche rettili del Madagascar. 

Ma, come dicevamo all’inizio, quel che è massimamente rilevante è che il traffico di animali è internazionale e nessun Paese, neppure nel compiaciuto Occidente, può dirsi innocente. 

L’Unione Europea è “la destinazione principale dei rettili esportati e contrabbandati dal Sudafrica, per lo più come pet. In Cecoslovacchia gli animali sono al terzo posto nella lista dei beni di contrabbando, dopo droga e armi, con le tartarughe tra le vittime più frequenti”. L’Olanda è uno dei big player nel Vecchio Continente.

L’Africa Occidentale (Benin, Togo e Ghana) è la regione del mondo che esporta più rettili, dopo l’America Centrale e Meridionale. Il Ghana ha come mercato di riferimento l’Europa.

La Corea del Sud è il principale importatore di pelli di coccodrillo e di pitone e di rettili non listati in CITES. Gli “animal café” allevano i rettili e li rivendono. 

Il Giappone è il più grande consumatore di animali da compagnia esotici e un punto di ritrovo riconosciuto per i trafficanti di tartarughe. 

I mercati di Karachi, in Pakistan, sono il posto con il più alto numero di specie listate in CITES in vendita in tutto il Paese, alla luce del sole. 

La Russia traffica in rettili rari, anche perché gli zoo privati sono “un status symbol per la gente molto benestante e quindi l’allevamento e il commercio in animali esotici è un business che rende molto bene”. Inoltre, gli zoo russi permettono, del tutto legalmente, di rifornirsi di animali selvaggi quando necessario. 

Taiwan è leader nell’esportazione di rane e di rettili verso il Giappone, ma traffica anche in tartarughe-stella provenienti dall’India ed è naturalmente un “transit hub” con la Cina. Rane, tartarughe e serpenti sono mangiate comunemente a Taiwan. 

Come ha riferito di recente THE ATLANTIC cominciano a non essere poche le voci di coloro che criticano l’impostazione di CITES, per un motivo o per l’altro. Sabri Zain, di TRAFFIC, ritiene che “CITES dipende troppo dal sistema dei divieti, mentre dovrebbe invece aiutare ad assicurare un uso sostenibile delle specie selvatiche che vada incontro ai bisogni delle persone salvaguardando la natura”.

Michael ’t Sas-Rolfes, un economista specializzato in sostenibilità e wildlife trade che lavora ad Oxford, definisce CITES “un paziente malato terminale che ha bisogno di seria attenzione”. Se i divieti possono innescare un effetto rebound, e cioè aumentare il bracconaggio e il prelievo illegale, secondo alcuni esperti CITES non è efficace perché, riferisce sempre THE ATLANTIC, il trattato è semplicemente ormai inadeguato per l’ampiezza del problema che dovrebbe regolamentare.

Nel 2010 il bando sul commercio dell’anguilla europea già criticamente minacciata “a causa della domanda gastronomica dalla Cina e dal Giappone”, ha motivato la pesca illegale a lavorare ancora meglio. Ogni anno, secondo una stima del 2019, vengono contrabbandate dall’Europa all’Asia 350 milioni di anguille.

Brett Scheffers, un ecologo della Università della Florida, è convinto che la wildlife economy è destinata a crescere nei prossimi anni, pandemia o non pandemia: “allo stato attuale delle cose, più di 7.600 specie di uccelli, mammiferi, anfibi e rettili vengono commerciati su scala globale, ma Scheffers ritiene che altre 4000 potrebbero aggiungersi in futuro”.

In questo contesto internazionale, in un tipo di crisi biologica di questo tipo, acquista ancora maggiore rilevanza la proposta avanzata lo scorso giugno da Gerardo Ceballos, Paul R. Ehrlich e Peter H. Raven, ossia i tre massimi esperti di estinzione al lavoro oggi (in aggiunta a Rodolfo Dirzo della Stanford) nello studio “Vertebrates on the brink as indicators of biological annihilation and the sixth mass extinction”, uscito sulla PNAS.

La proposta è chiara. La prima cosa da fare è classificare come “criticamente minacciate” in Red List tutte le specie sotto i 5mila individui, e quindi, di riflesso, escluderle tutte dal commercio. La seconda proposta è, visto il silenzio dei grandi media, ancora più sensazionale: elevare la crisi di estinzione a emergenza mondiale e quindi inserire la conservazione delle specie in un accordo globale vincolante entro questo decennio. Commercio compreso. 

Al principio del 2021, mentre l’uscita dal tunnel della pandemia viene sbandierato dai Governi come punto di approdo di una deriva ormai alla fine, la verità è purtroppo un’altra. Manca, su scala internazionale, una cornice giuridica in grado di arginare lo sfruttamento della risorsa biologica, che rappresenta una minaccia sanitaria ed ecologica di portata immane. CITES “non è adeguata al suo scopo (not fit for purpose)”, concludono BAN ed EMS, al termine di un lunghissimo viaggio che, in maniera appropriata, hanno definito sin dal 2018 the extinction business.

Per approfondire: WILDLIFE ECONOMY – Dove e perché mangiamo animali in via di estinzione.

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