La fine del leggendario West americano

La “apocalisse climatica” della costa ovest degli Stati Uniti (la definizione è del LOS ANGELES TIMES), dell’Oregon e della California, segna anche la fine di un mito. Quel sogno americano da esportazione, che è stato uno dei propellenti naturali del consumismo globale: spiagge, sole, surf, ragazze sempre in bikini, maschi alla Point Break (era il 1991), ville in collina, estate perenne. La fine del leggendario West americano.

Decine di film, a partire da American Gigolò (1980) hanno nutrito questo sogno edonistico tanto quanto le pellicole più nobili che narravano la caccia all’oro, alle pellicce pregiate e alla libertà in stile Jack London. Noi, in Europa, abbiamo mangiato queste finzioni californiane west come manna nel deserto, pascendoci della imbeccata secondo cui la vita vera, la vita post 1945, la vita del benessere, non potesse non assomigliare alla routine californiana.

Insieme a New York (“la città in cui tutti vorrebbero vivere”), la California è stata fino ad oggi un simbolo di tutto ciò che di desiderabile c’è sul Pianeta. 

Ancora oggi, il “selvaggio west” è percepito come un mito assoluto, che tiene in vita, fino alle contrade esauste della vecchia Europa, i cui giorni di gloria risalgono alle imprese oceaniche di spagnoli e portoghesi, anche nelle nostre coscienze la possibilità, in realtà tarpata e annichilita nei tempi contemporanei, di raggiungere e conquistare una indipendenza anarchica, che ha tagliato i ponti con tutte le costrizioni salvavita (antibiotici, riscaldamento, casa in proprietà, pensione) della borghesia industriale.

C’è un film che questo mito californiano lo ha rappresentato con una tale sfacciataggine da risultare addirittura stomachevole: Play misty for me, del 1971, con Clint Eastwood. Se sei un vincente californiano dormi in una camera da letto che è di fatto un dehors all’aperto. Il clima è così mite, accondiscendente e favorevole al tuo torso nudo che non hai bisogno di comodità da impiegato europeo. Un film che avrebbe potuto pubblicizzare La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (1979).

Oggi tutto questo ciarpame – non c’è vita senza sprechi ed esibizioni, la vita è solo divertimento, l’estate perenne è la stagione del cuore – si è rivelato per quello che è. Una menzogna politica, il cui prezzo spaventoso viene ora pagato prima di tutto dalle decine di migliaia di persone che dal 7 settembre ( Oregon Departement of Forestry: All state forests are at extreme fire danger as of Monday, Sept. 7) vivono sotto la minaccia di roghi di proporzioni e intensità mai viste nello Stato.

L’unico paragone possibile è con gli wildlfire di un anno esatto fa in Australia, che hanno ucciso 3 milioni di animali selvatici. Lo stesso cielo arancione, la stessa notte che invece è giorno, a causa della cenere e della fuliggine da combustione dei boschi, del bush e delle foreste; la stessa disperazione nel constatare che, come hanno notato numerosi commentatori, il cambiamento climatico è qui, non accadrà in futuro. Lo stiamo già subendo. 

Vista dall’altra parte dell’Atlantico, questa apocalisse segna un punto di non ritorno. È evidente che nei prossimi decenni intere comunità dovranno essere evacuate a causa di impossibili condizioni ambientali. Domenica 13 settembre, se ne discuteva alle 6 di mattina al World Service della BBC. E qualcuno faceva notare, molto opportunamente, che migliaia di persone non possono trovare facilmente casa e sostentamento nelle città come Los Angeles, che già contano migliaia di senza tetto (americani) e un costo della vita altissimo.

A sgretolarsi è un intero castello di carta di “a priori”: che ci sia abbastanza acqua per sostenere una popolazione in crescita in uno Stato che patisce sempre più siccità estreme (le mega-drought, che coinvolgono anche Colorado, Arizona e New Mexico), che lo Stato possa reggere una emergenza ambientale prolungata per mesi, con displacement di interi villaggi e costi assicurativi alle stelle.

E, soprattutto, che nella urgenza di salvare vite e di spostare persone ci sia abbastanza spazio per abbandonare le contee in fiamme e non sovraccaricare metropoli già esauste per i conflitti e le diseguaglianze sociali. 

Sulle future migrazioni interne agli Stati Uniti Abrahm Lustgarten ha scritto un saggio spettacolare, per quantità di dati e di riferimenti, su PRO PUBLICA ( in collaborazione con The New York Times e con il supporto del Pulitzer Center): Climate Change Will Force a New American Migration.

Ascoltando decine di esperti (architetti, assicuratori, scienziati, climatologi) Lustgarten ha costruito una mappa “delle zone pericolose che chiuderanno in una morsa gli Americani nei prossimi 30 anni”.

A partire da questo settembre pandemia e roghi si sono sovrapposti in uno “schema di disperazione” che non è più episodico, ma è già perfettamente distinguibile ovunque nella nazione: “La siccità minaccia già regolarmente i campi che producono cibo in tutto l’ovest, mentre devastanti inondazioni allagano le città e i campi dal Dakota al Maryland, causando il collasso delle dighe nel Michigan e l’innalzamento delle linea di costa dei Grandi Laghi”.  

Il cambiamento imposto dal clima (climatic change) è ormai un parametro fondamentale per definire come e dove “la nazione si trova sulla soglia limite di una enorme trasformazione”. Quel che si prospetta è una migrazione interna che muterà tutti gli equilibri geografici, ecologici ed economici del Nord America: “In tutti gli Stati Uniti, circa 162 milioni di persone – quasi 1 su 2 – probabilmente farà esperienza di un declino nella qualità del proprio ambiente, soprattutto in termini di calore e di minore disponibilità di acqua.

Per 93 milioni i loro, i cambiamenti potrebbero essere particolarmente severi ed entro il 2070, suggeriscono le nostre analisi, se le emissioni di carbonio continueranno a salire ai ritmi attuali, almeno 4 milioni di Americani potrebbero trovarsi a vivere al limite, in luoghi decisamente al di fuori della nicchia climatica ideale per l’uomo. Il costo della resistenza ad ammettere la nuova realtà climatica sta montando.

Le autorità della Florida hanno già riconosciuto che difendere alcune strade ad alta percorrenza contro l’avanzare dell’oceano sarà insostenibile. E il programma nazionale di assicurazione per le inondazioni, per la prima volta, richiede ora che alcuni dei programmi di pagamento siano ritirati a causa della minaccia climatica. Presto, mantenere lo status quo sarà semplicemente troppo costoso”. 

Decisioni nient’affatto semplici si profilano all’orizzonte, dopo decenni di sottovalutazione del rischio: “I politici, che hanno lasciato l’America impreparata, adesso fronteggiano scelte brutali su quali comunità salvare – non di rado a costi esorbitanti – e quali invece sacrificare. Le loro decisioni renderanno inevitabilmente la nazione ancora più divisa al suo interno, con coloro che saranno tagliati fuori relegati a un futuro da incubo, in cui non resterà loro che cavarsela da soli”.

Le proiezioni parlano di 28 milioni di persone esposte a mega-incendi anche in Texas, Florida e Georgia. Almeno 100 milioni persone (nel bacino del fiume Missisipi e quindi dalla Louisiana al Wisconsin) sperimenteranno livelli di umidità e calore tali che “lavorare all’aperto o fare sport a scuola potrebbe causare un evento cardiaco”. Un crollo nella produzione agricola si verificherà in Texas, Alabama, Oklahoma, Kansas e Nebraska. 

Dietro questo disastro continentale ci sono convinzioni culturali radicate nel comune sentire americano, non solo tra i Repubblicani o le grandi compagnie petrolifere. Rispetto ai contadini e ai piccoli produttori agricoli dell’Africa “gli Americani sono più ricchi, spesso molto più ricchi, e quindi più protetti dagli shock imposti dal cambiamento climatico, come fossero avvolti in un cappotto termico.

Stanno a distanza dalle fonti di cibo e acqua da cui pur dipendono, e sono parte di una cultura che identifica nel denaro la soluzione ad ogni problema. E così, ad esempio, la portata d’acqua media del fiume Colorado, la fonte d’acqua per 40 milioni di Americani occidentali e la spina dorsale della produzione agricola e dell’allevamento di vacche da carne del Paese, è in declino da 33 anni, ma la popolazione del Nevada è raddoppiata.  

Contemporaneamente, oltre 1 milione e mezzo di persone si sono spostate nella area metropolitana di Phoenix, nonostante questa città dipenda dallo stesso fiume e abbia temperature che regolarmente arrivano a 115 gradi (Farenheit). Dai tempi dell’uragano Andrew, che devastò la Florida nel 1992, e benché la Florida sia diventata un simbolo della minaccia dell’innalzamento del livello dei mari, più di 5 milioni di persone si sono spostate sulle coste dello Stato, innescando un boom storico nell’edilizia e nel settore del real estate”. 

A disintegrarsi sono anche i simboli della geografia culturale degli Stati Uniti. 

Neppure l’Oregon è più lo spazio aperto, la frontiera della west coast, che per due secoli ha nutrito le speranze e la capacità di costruzione di una intera nazione. Questo sentimento è stato descritto perfettamente su THE ATLANTIC da Emma Marris: “Il west americano porta il peso di ogni sorta di bagaglio culturale, in buona misura un insieme di luoghi comuni sulla brutalità dei coloni-colonialisti, che in un batter d’occhio si trasforma nel culto, pericolo e tossico, di un duro individualismo e del saper contare solo su se stessi, i miti, insomma, delle opportunità infinite.

Eppure, una parte dell’ethos del west, a cui sono sempre stata attaccata, come chiunque nato a Seattle e che ora viva nell’Oregon meridionale, è che a ovest ci sia spazio – spazio per rimanere da soli, per stiracchiarsi ed esprimere se stessi, o per spostarsi e reinventarsi. Quando vivevo sulla East Coast, i tavoli dei ristoranti mi sembrano sempre troppo vicini. I parchi erano troppo affollati. L’orizzonte era soffocato da edifici e da alberi.

Tornando ad ovest i miei occhi sono stati di nuovo capaci di mettere a fuoco le montagne, lontane, e la vastità del Pacifico. Se ero annoiata o avevo bisogno di pensare, potevo sempre guidare finché sulla strada ci sarei stata solo io”. Dal 7 di settembre questo non è più possibile a causa dell’assedio del fuoco. La claustrofobia ha sostituito la gioia degli spazi aperti e immensi.

Non si può più scappare e nemmeno al chiuso si è al sicuro, perché in circolazione c’è un virus sconosciuto che ha già fatto migliaia di vittime: “l’aria all’interno dello spaccio di alimentari sembra viva per la presenza di migliaia di virus microscopici; l’aria all’esterno, nel parcheggio, è visibilmente densa di pini e abeti inceneriti.

Ogni respiro è un problema. In tutto l’ovest chi lavora nell’agricoltura, nell’edilizia e nei servizi è obbligato a respirare fumo e le esalazioni potenzialmente pericolose dei propri clienti. Non hanno un posto sano, pulito per lavorare. La regione dei grandi cieli e di una seconda chance è improvvisamente diventata piccola, affollata e soffocante”. 

Ora nessuno, qui in Europa, oserebbe dire che gli piacerebbe vivere in California o in Oregon. Come in un enorme sussidiario globale, il contesto americano ci restituisce il passaggio epocale, di questo 2021. È arrivato il momento di pagare il conto delle devastazioni ecologiche su scala planetaria. David Attenbourough lo ha sintetizzato nel titolo nel suo ultimo, radicale, documentario per la BBC: “Extinction: the facts“. Fatti e non opinioni.

Di botto, la zoonosi e una stagione di distruzione che, diciamo la verità, abbiamo sempre relegato al ventaglio di possibilità ecologiche tipiche del terzo, quanto, quinto mondo ( i Paesi da cui preleviamo risorse naturali senza scrupolo da 5 secoli), sono addosso a noi.

Da questo momento in poi le cose non andranno meglio o un po’ meglio, e nemmeno saranno riparate o riaggiustate. Da questo momento in poi sperimenteremo le conseguenze della nostra condotta moralmente apatica. Perché, se anche saremo a decine di migliaia di chilometri dalle zone rosse a 50 gradi e muri di fuoco, o da chissà quale altra sventura climatica a venire, comune sarà la certezza di vivere nell’epoca della distruzione. 

ORA CHE SEI QUI – La maggior parte di noi non sa di vivere nel tempo della sesta estinzione di massa, eppure siamo testimoni di una ecatombe biologica. Tracking Extinction è un magazine indipendente, che lavora sempre su dati scientifici in peer review e non riceve finanziamenti occulti o in conflitto di interesse. Ma anche la scelta etica di fare informazione libera deve rispondere ad un business plan e ha dei costi. Sostenere economicamente Tracking Extinction significa agire da persona libera, dotata di capacità critica e di un evidente principio di realtà.

Scegli un importo

€10,00
€15,00
€100,00

Oppure scegli tu la cifra:


Grazie di aver scelto il giornalismo indipendente !

Fai una donazione

Rispondi