Home » Tracce » La rassegnazione è la migliore opzione?

Sapevo che le condizioni ambientali non sarebbero state delle più propizie, ma ho deciso di tentare ugualmente. Con un po’ in ritardo rispetto all’inizio della tradizionale stagione della semina, il 3 di giugno ho piantato 4 piante di pomodoro sul balcone, interrandole nel terriccio, non trattato con fertilizzanti o erbicidi, di una fioriera in legno lunga un metro e profonda 50 centimetri.

Vivendo al terzo piano di una via ad alto traffico su gomma, dove il boato dei motori a scoppio ha stretto alleanza con il cigolio industriale del tram, il mio balcone è letteralmente ricoperto da un pulviscolo onnipresente, nerastro, che, come ho scoperto nel corso degli anni, contiene una percentuale di particolato metallico, che si fissa sulle foglie di piante e fiori, compromettendone la fotosintesi.

Qualunque vegetale arrivi qui, settimana dopo settimana, sviluppa una sindrome da esaurimento: sulle foglie compaiono macchie bianche o gialle, che si allargano sino a inghiottire quasi tutta la clorofilla, lasciando così la pianta indifesa, cachettica, incapace di assorbire la radiazione solare. A giugno mi sentivo incoraggiata dal fatto che, stranamente, gli ortaggi hanno dato prova di riuscire a fronteggiare la sindrome da esaurimento con più energia rispetto a gerani, margherite e salvia.

Il pomodoro coltivato sul balcone mi sembrava anche una risposta guerresca, direi legittimamente altezzosa, all’imperativo di un ritorno alla normalità pre-pandemia. Il tentativo di tenere vivo il pensiero, germogliato durante il lockdown, di una vita alternativa al rumore assordante e traffico eterno che sembra essere, a Milano, la massima aspirazione civile. Le quattro piante hanno dato il massimo per un paio di mesi, crescendo con vigore e determinazione, sviluppando un fogliame denso, di un verde indubitabile.

Ventisei pomodori sono spuntati sulle cime più alte. Tutto procedeva per il meglio, quando, due settimane fa, le piante sono entrate in crisi. Macchie marroni si allargavano sotto i pomodori, compromettendone la maturazione. Le foglie sbiadivano, mordicchiate da chissà quale insetto straniero. La diagnosi è stata semplice: mancanza di calcio, marciume apicale. Serve un fertilizzante, possibilmente non sintetico. Perfetto: dove lo compro?

La risposta è fin troppo facile. In tre giorni, biologico, consegna sicura: Amazon. Una bottiglia di Pomosano a 9 euro e 90 centesimi. Nessun vivaio aperto in agosto, accessibile con i mezzi pubblici. Nessun fiorista nelle vicinanze, che avesse prodotti per l’orto urbano. Ed è stato così che, mio malgrado, mi sono trovata di nuovo ostaggio del colosso americano, del business più disinvolto che abbia messo il campo del suo esercito di opzioni, vantaggi e semplificazioni nel cervello e nel portafoglio dell’umanità intera.

Con Amazon hanno una relazione tossica (quel tipo di innamoramento a senso unico, autodistruttivo che più consuma le sue vittime più pompa di serotonina i loro neuroni) soprattutto gli indigenti occulti, e cioè quelle persone che non possono davvero scegliere come compare, o come muoversi nel fluttuante ecosistema del business on line (scialuppa dei prossimi anni ?).

Gli indigenti occulti lo devono benedire Amazon, perché il signor Bezos offre loro ipotesi di guadagno e di vie di uscita (salvare i pomodori e urlare il proprio Merde! In faccia al potere) che nessuna autorità statale o para-umanitaria sembra essere in grado di dispiegare. Chi non può scegliere ha mezze scelte a disposizione, scelte grottesche o sarcastiche, che gli danno la mezza illusione di poterla sfangare. 

Io i miei pomodori biologici li volevo salvare. Non volevo morissero, come se non li avessi amati abbastanza o mi fossi presa cura di loro in modo insufficiente. Non volevo dimostrassero che un orto urbano è una altra bella fola, ottima per chi, di opportunità di scelta, ne ha moltissime e quindi immagina ciò che non può esistere. Insomma, non volevo che i pomodori fallissero, perché avevo sperato di non poter fallire io come avanguardista contraria al ritorno alla normalità.

Ma, di fatto, i pomodori mi stavano dicendo, con la loro carenza di calcio, che un terriccio passabile non basta. Non può bastare. E non può bastare perché anche le piante e gli ortaggi, come le foreste, per prosperare, hanno bisogno di una epoca geologica favorevole. Una città asfittica è nefasta per i pomodori, ma il posto dei pomodori, si potrebbe obiettare, non è la città, e se l’intero landscape di cui siamo circondati e permeati non fosse consunto al punto da generare una crisi biologica globale, nemmeno io avrei sentito il bisogno di piantare pomodori su un balcone nero di fuliggine, roso dalla ruggine, in un appartamento in affitto, in un palazzo vetusto in classe energetica G. 

Ed è così che, nella trepidante attesa che Amazon consegni il mio flacone di Pomosano al punto ritiro del Carrefour di CityLife, m’è venuta tra le mani una frase di Max Scheler: “nella plurimillenaria storia dell’umanità noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato un enigma a se stesso; in cui non sa più chi è, sapendo tuttavia di non saperlo”. Scheler scriveva questo al tempo della Prima Guerra Mondiale, un’epoca che, oggi, ci appare forte, sicura di sé, ancorché poco consapevole dei rischi micidiali impliciti nei giochi di potere imperiale tra le grandi potenze europee. É credibile che i borghesi in cappello e bastone del 1910 sapessero di non conoscersi a fondo? Non sono in grado di dirlo. Però Scheler aveva intuito il giusto asserendo che l’uomo moderno è un enigma. Non sa dove finisce l’intelligenza e dove comincia l’istinto. Si osserva compiere azioni delle cui conseguenze non gli sono chiari i confini e le implicazioni. Oggi, invece, l’enigma è stato risolto? Direi di sì.

Dai tempi felici del lockdwon in cui il rumore raccapricciante del traffico era sparito dal mio condotto uditivo, ho la sensazione di vivere in un’epoca che sa praticamente tutto di se stessa senza però sapere di sapere tutto; un’epoca che si ignora, pur guardandosi in faccia tutti i giorni. Le evidenze scientifiche del collasso biologico sono così numerose che è diventato noioso leggerne sui giornali. Ogni ricerca conferma la precedente, aggiungendo un micron di paura, orrore e devastazione al quadro generale.

Questa settimana abbiamo saputo che le microplastiche sono ormai anche nei tessuti dei nostri organi (lo studio è stato presentato mercoledì 19 agosto alla American Chemical Society). Ebbene, non ci possiamo fare nulla. Se anche la finissimo domani con la porcata della plastica, quello che è in circolo è ormai là fuori e state certi che farà il suo sporco lavoro. Non sappiamo in che cosa consisterà la sua partita con la chimica organica, ma sarà una partita inarrestabile.

Anche le estati saranno sempre più calde, pur nella fantascientifica ipotesi che da il minuto dopo aver finito di scrivere questo pezzo il mondo rinsavisca e viri verso la decresciuta energetica. Noi sappiamo tutto di ciò che dovremmo sapere per salvarci la pelle, ma non sappiamo di questa nostra conoscenza pur avendola elaborata, testata e conquistata. Saremo sempre più infelici, ma non sappiamo il perché anche se la causa della nostra infelicità è già stata diagnosticata.

E questo avviene perché la costruzione del principio di realtà non è scontata. Avere un principio di realtà non è automatico. Ciò che appare scontato nasconde insidie. Ciò su cui facciamo conto per star bene ( la “normalità”: andare al cinema, andare in palestra, prendere l’aperitivo) è un congegno economico che stupra le nostre doti cognitive sino a farle marcire.

Non siamo mai stati soli in questa disfunzione della coscienza, anzi, forse dovremmo essere più ematici e compassionevoli con i poveri disgraziati che non sanno neppure che cosa è l’estinzione delle specie animali o l’effetto serra. Di fronte all’abnorme (pranzare con un dittatore che bercia in pubblico sulla distruzione auspicabile degli ebrei, sapere che quando mangi un trancio di tonno butti più nel fegato plastica) l’essere umano può non capire un accidente, se non che si trova bene così come è. 

Maria von Below, moglie di Klaus von Below, aiutante di campo di Hitler dal 1937 al 1945, ricordando i primi anni del Nazionalsocialismo, disse a Gitta Sereny: “Capisce, non ho mai capito perché, per accettare il fatto di essere state stregate da lui, le persone dovessero svalutare i talenti che Hitler indubbiamente possedeva. Dopo tutto, non si guadagnò la fedeltà di uomini intelligenti e perbene dicendo loro che il suo progetto era l’omicidio e consentendo loro di vedere che era moralmente un mostro.

Li persuase perché era affascinante. Ma dirlo oggi è una bestemmia (…) Adesso è facile deridere, criticare. I miei figli continuano a chiedermi come ho potuto io – come abbiamo potuto noi – sopportarlo. Ma, mio Dio, era un mondo diverso”. Tra qualche decennio, i nipoti interrogheranno i nonni su questi nostri anni e porranno domande che ora sembrano tanto impossibili quanto inopportune. 

Il giorno in cui ho capito che i pomodori non ce l’avrebbero fatta senza Amazon, ho letto una amara riflessione sul ritorno alla normalità di Omar Sakr, un poeta di origine libanese naturalizzato australiano: “Il mondo è cambiato, eppure il suo peggio persiste. Ci viene ancora chiesto di riconoscere che questa è una situazione eccezionale, che richiede un cambiamento totale dei nostri comportamenti per adattarci e sopravvivere, ma soltanto per il tempo necessario a cambiare per tornare indietro, allo stile di vita che non è soltanto fatto a pezzi dalle sue stesse diseguaglianze, ma che gli esperti hanno già capito contiene imperfezioni fatali per la società umana. Quale è questa normalità a cui siamo costretti a ritornare?

Il mio normale è la vita precaria di un poeta della working-class in un paese che odia lui, la sua cultura e le sue comunità. Il mio normale sono i commenti razzisti sul mio lavoro, le minacce di morte e i professionisti dell’odio on line. Il mio normale è il corpo devastato di mia zia, il cancro del mio prozio, l’affitto insostenibile di mia madre. Il mio normale sono i cugini in carcere, assuefatti soltanto alla povertà, alla punizione e all’aggressione della polizia. Il mio normale è la vita su una terra rubata, dove le richieste autodeterminate delle Prime Nazioni e delle loro comunità cono ignorare e le loro morti in custodia continuano.

Morte è una parola passiva in questo caso. Il mio normale è il privilegio autentico di sapere in anticipo qualunque condizione sia imposta a me o alla mia famiglia, e che va peggio ai nostri parenti in Libano e in Siria, e che noi abbiamo contribuito a questo. Il mio normale e il vostro normale è una marcia senza sosta verso un clima distrutto, la liquidazione e il ridimensionamento del parere degli scienziati lungo questi decenni che abbiamo alle spalle, la mancanza di leadership e di una visione che osi immaginare qualcosa di sopportabile nella strada davanti a noi”. 

Ho l’impressione che questo “sopportabile” equivalga ad una sorta di matura rassegnazione. Rassegnazione per le opzioni che non ci sono, per le vie d’uscita che non esistono e che molti di noi hanno favoleggiato durante il lockdown perché abbiamo bisogno di pensare ad una soluzione anche quando la vita ci ha detto di NO con la massima chiarezza, un miliardo di volte.

È abbastanza evidente che un vaso non può sostituire un campo aperto per delle piante di pomodoro. La normalità fa schifo, ma quasi sempre è semplicemente tutto ciò che abbiamo. 

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