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Comincia il super anno della biodiversità. Così è stato ribattezzato il 2020 dagli addetti ai lavori, in vista del grande summit di Kunming, in Cina, che dovrebbe riscrivere la cornice giuridica internazionale della conservazione. Nel frattempo, il principio-guida del summit spunta in occasione del World Wildlife Day del 3 marzo prossimo: ogni forma di vita sul Pianeta è degna di protezione.

Una dichiarazione di intenti nient’affatto superflua in un anno che la IUCN ha già definito “biodiversity super year”, il super-anno della biodiversità, per via del lungo percorso negoziale che dovrebbe portarci, il prossimo autunno, alla stesura di un accordo globale per gli ecosistemi e le faune analogo alla carta di Parigi per il clima del 2015. 

Ma ha davvero senso progettare un accordo del genere? O, invece, la Convenzione Mondiale per la Biodiversità non rischia di fare, presto, la fine della ben più illustre Convenzione per il Clima (UNFCCC), che è naufragata nel documento finale di Parigi 2015, non vincolante e del tutto inutile per arginare il cambiamento climatico?

La sensazione è che si cerchi, a tentoni, di costruire una architettura giuridica attorno a problemi complessi. La biodiversità è in spaventoso declino, ma può darsi che la stessa terminologia che ne descrive il declino sia prmai intuile e anacronistica.

C’è infatti anche una seconda questione aperta. Che cosa intendono i delegati per “natura selvaggia”, “natura integra” o “wilderness”? Oggi viviamo ancora nella concezione della natura sorta con il capitalismo industriale. Nel XIX secolo (il secolo della borghesia) ciò che è risparmiato all’agricoltura, all’industria e alla città è chiamato “natura”. “Fra i borghesi colti ed emancipati, cioè riusciti, le arti presero il posto della religione tradizionale – completate, naturalmente, dagli spettacoli tonificanti della natura, cioè del paesaggio” (Eric Hobsbawm). Da questa manipolazione della presenza del Pianeta fuori e dentro la civiltà umana emerge la suggestione delle terre selvagge. Nonostante tutto ciò che le gira attorno si sia dimostrato insufficiente a contenere lo spopolamento biologico della Terra.

Che cosa è davvero la wilderness? La wilderness è un ecosistema che contiene ancora il potenziale evolutivo ed è quindi ricca di comunità animali altamente diversificate. Non è una regione selvaggia perché disabitata, ma perché contiene la verità più remota e profonda della vita biologica, dei suoi meccanismi fondamentali racchiusi negli alberi, nel suolo, in ogni animali e nelle civiltà indigene. Una wilderness non è un habitat intatto, ma custodisce ancora due dimensioni geografiche ed ecologiche in rapida rarefazione, e cioè lo spazio e il tempo. 

Lo scopo della giornata del 3 marzo sarà diffondere consapevolezza sul legame imprescindibile tra le faune selvatiche e la nostra sopravvivenza. “Sustaining all life on Earth” è però soprattutto un richiamo politico e culturale. È giunto il momento storico di concedere alle faune della Terra il diritto alla prosperità.

E tuttavia non dobbiamo negare ha scritto Carl Safina sul magazine di informazione ambientale della Università di Yale, che i tempi sono lugubri. I numeri sulla biodiversità non ci restituiscono semplicemente una condizione generale di declino, ma più precisamente quelli di una catastrofe globale.

La defaunazione è, più ancora dell’estinzione, il nostro contesto quotidiano: l’assottigliamento progressivo dell’abbondanza numerica degli individui che compongono una singola specie. La defaunazione è un concetto ecologico fondamentale per capire cosa sta succedendo. Probabilmente addirittura più adatto di “estinzione” per capire cosa sta succedendo.

Il concetto di defaunazione dimostra infatti che vedere ancora in circolazione alcune specie non significa affatto che quelle specie non siano già in estinzione. Safina paragona l’estinzione ad una opera lirica suonata da una orchestra che va spegnendosi.

“Ogni specie, presa individualmente, non ha abbastanza voce per vocalizzare questa opera tragica. Ma, mentre la sofferenza cresce come in un coro di voci, le specie, insieme, cantano il dolore degli esseri viventi”, dice Safina. E a questo punto è essenziale riconoscere che “il diluvio universale siamo noi, i miliardi di persone che abitano la Terra, cresciuti sino a ingolfare il mondo”.

In un contesto di disperazione che pietrifica il sentimento orgoglioso che abbiamo di noi stessi, Safina ricorda però l’importanza assoluta dell’impegno del singolo. Ognuno di noi può rendersi partecipe di un gesto di guarigione e riconciliazione, per quanto piccolo.

Con ogni singola, benché apparentemente insignificante, azione a protezione di una specie locale, di un bosco, di un angolo di habitat lacustre vicino a casa che ancora pullula di animali e di piante. Infatti, “negli inizi incerti e traballanti di uno sforzo individuale, possono esserci in incubazione grandi cose”. 

Ecco alcune storie che racchiudono grandi speranze. 

Il 12 febbraio scorso, AFRICA GEOGRAPHIC ha reso noto che in Gabon, in una area contigua allo Ivindo National Park, le fotocamere a trappola hanno documentato la presenza di 4 tassi melanistici (Mellivora capensis).

I ricercatori che studiano le foreste tropicali del Gabon non pensavano che qui ci fosse questa specie, né tanto meno ne avevano mai visto degli esemplari neri.

La notizia ha fatto seguito a quella resa pubblica su Twitter lo scorso 11 agosto. Un leopardo fotografato con una foto-trappola in Guinea Equatoriale. La scoperta è stata segnalato dall’ecologo e primatologo David Fernandez della Università di Bristol. Benché ormai molto rari, i leopardi sembrano non essere ancora estinti del tutto neppure in Cameroon.

Sempre in Guinea Equatoriale è stata documentata la presenza dei gorilla di montagna e di alcuni scimpanzé nel Monta Alen National Park.

Ma perché tutto questo ci riguarda? L’Africa Occidentale ed Equatoriale è anzi hot spot importantissimo per le ultime foreste tropicali umide primarie. 

Andiamo avanti, e spostiamoci in Asia.

I più recenti studi genetici hanno scoperto che il lupo hymalaiano è una specie a sé stante di lupo. Perché questa notizia è importante: le popolazioni di una specie hanno caratteristiche genetiche uniche, adattative.

Ogni paesaggio potrebbe quindi ospitare una sottospecie o addirittura una specie a parte. La conservazione di tutti gli habitat ancora ecologicamente funzionanti è dunque cruciale. 

Lo scorso 28 gennaio (2020) la Corte Suprema in India ha deciso che si può tentare di reintrodurre su suolo nazionale il ghepardo africano. Il ghepardo asiatico è infatti stato spazzato via dal subcontinente il secolo scorso. Un geniale vignettista su Twitter (Green Humour at @thetoonguy) ha commentato l’assurdità di questa decisione.

Tigre e leopardo accolgono un ghepardo sullo sfondo di una metropoli industriale e gli dicono: “Benvenuto in India. Ti abbiamo preparato una pedana elettronica per esercitarci con lo sprint, perché non ci sono davvero abbastanza spazi aperti, qui, per il tuo savanna lifestyle”.

La vignetta è stat pubblicata il 29 gennaio. Morale della favola: la demografia umana è sempre più incompatibile con la presenza dei grandi predatori, soprattutto dei grandi felini.

Il 23 gennaio il brillante e giovane ecologo del Texas Jay Lombardi ha postato su Twitter una foto raccolta con foto-trappola di un avvistamento eccezionale: un bobcat con un pattern di strisce e macchie simile all’ocelotto.

L’esemplare, fotografato il 31 gennaio 2019, è stato avvistato nel Texas meridionale. Secondo Lombardi (@JayLombardi87), questo disegno inusuale del manto potrebbe essere prodotto da un gene recessivo.

Perché questa notizia è strepitosa: una volta queste specie di felini popolavano il sud degli Stati Uniti. In Texas c’erano anche i giaguari.

Oggi i felini sono in buona misura stati estirpati dai loro habitat americani, come accade all’ocelotto, rarissimo da queste parti. Una protezione più stretta concederebbe margini di recupero a specie estremamente resilienti e plastiche, come ovunque nel mondo sono i felini.

Secondo i dati raccolti dalla Landmark Foundation, Sud Africa, le province del Capo Occidentale e Orientale (Western and Eastern Capes) sono popolate ancora da circa 553 leopardi, divisi in 3 gruppi geneticamente distinti che però mostrano i primi segni di inbreeding.

Spesso i pastori perseguitano i leopardi così come uccidono i caracal, per evitare danni alle pecore. Perché questa notizia è importante: aumentare la connettività tra le aree protette o semi protette è indispensabile perché le popolazioni recuperino numericamente .

La connettività è uno degli obiettivi della conservazione al 2050, uno dei grandi temi in discussione in attesa del documento di Kunming. Soltanto enormi aree geografiche connesse su scala continentale potrebbero portarci indietro dalla soglia dell’abisso. Sono la vera wilderness, ricchissime di diversità filogenetica, “la miglior misura possibile della biodiversità”.

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