C’è un nuovo negazionismo climatico

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C’è un nuovo negazionismo climatico. Il negare la complessità della crisi ecologica. Questa la conclusione a cui è arrivato il primo rapporto onnicomprensivo sullo stato del Pianeta, e delle società umane, di questo 2020, firmato da FutureEarth, un network di scienziati e istituti di ricerca tra i migliori nel definire scenari ecologici.

Hanno collaborato a questa edizione – Our Future on Earth – 222 top scientist di 52 Paesi. 

Le minacce alla sopravvivenza del Pianeta sono tutte correlate e possono essere riassunte in 5 macro aree di rischio.

Esattamente come fu per il rapporto Ipbes del maggio 2019, anche questo vastissimo studio punta su un concetto finora sottovalutato nella informazione mainstream, e cioè la interconnessione tra aspetti diversi della crisi globale: il fallimento nella implementazione di politiche efficaci sui cambiamenti climatici, gli eventi meteorologici estremi, il collasso della biodiversità globale, la disponibilità di acqua potabile e la disponibilità di cibo e infine l’emergere del populismo di destra.

Secondo gli autori, è fondamentale che l’opinione pubblica comprenda che tutti questi aspetti della nostra realtà ecologica del XXI secolo hanno un equivalente sociale sempre più visibile: “l’erosione della fiducia e dei valori condivisi da una società; il deterioramento delle infrastrutture sociali; la diseguaglianza, che è in crescita; l’intensificarsi del nazionalismo politico; la sovrappopolazione; il declino della salute mentale”.

Non è solo il populismo di destra a coltivare ciò che Our Future on Earth definisce il “negazionismo della complessità”: l’abitudine ad analizzare i problemi ecologici in compartimenti stagni, senza una visione complessiva della crisi.

L’aspetto più preoccupante di tutto questo è tuttavia la difficoltà di pensare i problemi sul tavolo adottando una visione complessiva delle crisi: “nonostante le connessioni tra questi aspetti siano ubique, molti scienziati e politici lavorano in istituzioni che sono abituate a pensare e ad agire su singoli indici di rischio isolati, uno per volta. Questo atteggiamento deve cambiare, bisogna cominciare a pensare ai rischi uno correlato all’altro”. 

Non è dunque solo il populismo di destra a coltivare ciò che Our Future on Earth definisce “il negazionismo della complessità”.

Dopo decenni di impostazione ingegneristica nella descrizione e nella analisi della catastrofe ecologica ci troviamo, vien da dire, finalmente, nella condizione di ammettere che, in assenza di un approccio antropologico, non saremo in grado di approntare neppure una delle misure indispensabili per affrontare il duro futuro che ci attende.

Per tradurre in azione obiettivi veri di sostenibilità economica è infatti indispensabile un radicale cambiamento di mentalità nel tessuto stesso delle società civili, cambiamento che dovrà intaccare abitudini consolidate, priorità esistenziali e progetti personali. 

Ma è molto importante comprendere che ci troviamo all’interno di un esperimento biologico globale del tutto inedito. E questo aumenta esponenzialmente il rischio potenziale. 

Se osserviamo i processi di estinzione, le attività umane hanno prodotto effetti domino dalle conseguenze ancora sconosciute.

“Quando l’umanità cambia i suoi schemi di consumo, differenti porzioni di terra vengono convertiti all’agricoltura e differenti rotte commerciali vengono stabilite sui mari. Le politiche governative intendono procedere in una direzione, sostenendo magari la produzione agricola, e finiscono con il nuocere alla biodiversità.

Questi fattori di cambiamento non agiscono in maniera isolata: interagiscono l’uno con l’altro e l’impatto di questi fattori combinati è spesso più grande della semplice somma delle parti.

In parte a causa di questa complessità, non è semplice predire come gli ecosistemi cambieranno in risposta a fattori del tipo del cambiamento climatico.

I modelli attuali che prevedono alterazioni su larga scala agli schemi vegetazionali presenti oggi, come l’espansione delle foreste boreali dentro la tundra Artica, non possono però predire i cambiamenti nella composizione delle specie nelle comunità di piante e alberi, su una scala più ridotta.

Su scala locale, infatti, altre cose sono più importanti, come il tipo di suolo e la presenza o la assenza di erbivori e impollinatori”. 

A questo va a sommarsi un’altra questione molto dibattuta: che cosa succederà alle specie native di ogni singolo habitat, per quanto degradato o già in parte modificato dalla presenza di agricoltura intensiva, industrie, impianti di diffusione e produzione di energia?

Queste specie saranno soppiantate dalle specie invasive appartenenti però allo stesso contesto geografico, cioè da quelle specie che sono già in movimento verso nord a causa dell’aumento delle temperature?

Oppure saranno queste specie, i nuovi “profughi” del mondo animale, a venire eliminati dai legislatori perché entreranno in competizione con specie più utili dal punto di vista economico? O meglio tollerate dai cittadini?

Entro quest’anno aspettiamo dalla CBD (Convention on Biological Diversity) la revisione degli Obiettivi di Aichi (fissati nel lontano 2010) che avrà luogo il prossimo autunno a Kunming, Cina, un nuovo trattato globale per la protezione delle specie animali.

Il Global Deal for Nature, annunciato su SCIENCE ad aprile del 2019, si prefigge di riconsegnare allo stato naturale il 50% delle terre degradate e degli oceani iper-sfruttati entro il 2050. 

Entro il 2020 le Nazioni Unite dovrebbero definire una nuova cornice giudica che regolamenti anche l’uso degli oceani oltre le giurisdizioni nazionali.

Tre miliardi di persone dipendono dagli ecosistemi marini come primaria fonte di proteine. E l’inquinamento, i commerci via nave, il prelievo eccessivo dagli stock ittici sono quasi raddoppiati negli ultimi 10 anni.

Rimane come sempre aperta la domanda di tutte le domande: come conciliare una protezione maggiore del Pianeta (tradotto: lasciare agli altri esseri viventi una porzione di mondo tutta per loro) con una demografia umana in continua crescita?

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