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Segnali positivi dalle tigri della Yai Forest. Nella foresta del Dong Phayayen-Khao Yai Forest Complex della Tailandia (a nord di Bangkok e confinante, all’estremo est, con la Cambogia) 22 forse 30 tigri riescono ancora a riprodursi.

La conferma viene dalla pubblicazione sulla rivista Biological Conservation dei risultati di una ricerca effettuata da tre team: Panthera, il Dipartimento per la conservazione delle specie selvatiche e delle foreste della Thailandia (Department of National Parks, Wildlife and Plant Conservation, DNP), la Freeland Foundation (che si occupa di contrastare il traffico di animali selvatici e il bracconaggio) e WildCRU (il think tank della Università di Oxford per i grandi predatori). 

Qui, la densità demografica delle tigri è di 0.63 ogni 100 chilometri quadrati: “questo studio è stato condotto nel Thap Lan-Pang Sida Tiger Conservation Landscape (TCL) dello Yai Forest Complex che ha una estensione di 4445 chilometri quadrati e si pensa possa sostenere un habitat sufficiente per una media di 50 tigri adulte”.

I dati sono stati raccolti con fototrappole collocate in 88 punti strategici; le tigri sono state identificate e quindi contate grazie al particolare disegno di strisce nere che caratterizza in modo unico il manto di ciascun individuo. 

Anche la tigre indocinese è ad un passo dall’estinzione. Ce ne sono solo 221 ancora allo stato selvaggio nel mondo, in due soli Paesi dell’Asia: la Tailandia e il Myanmar.

Per capirci, stiamo parlando di una sottospecie di tigre, la Panthera tigris corbetti. La corbetti abitava un secolo fa tutte le foreste a latifoglie del sud est asiatico.

Ne ho vista una impagliata al museo di storia naturale di Hanoi, in Vietnam, nel 2015. Un esemplare rarissimo anche per il tachidermista che le ha regalato l’eternità. 

Ma le tigri della Yai Forest hanno davvero un futuro?

Perché futuro significa che la popolazione deve crescere e quindi allargare il proprio habitat.

“Le chance di aumentare numericamente dipende sostanzialmente dalla nostra abilità nel ridurre le minacce. In questo contesto geografico, per queste tigri, ciò significa lavorare a livello delle comunità locali, del governo e degli stakeholders, che devono mettere risorse economiche e volontà politica nel combattere il bracconaggio degli animali che sono le prede della tigre”, sostiene Chris Hallam, Monitoring Advisor Panthera.

Le premesse sono buone secondo Abishek Harihar, Population Ecologist nel Tiger Program sempre di Panthera: “Al momento, il governo della Tailandia è molto impegnato nella protezione di questa popolazione di tigri. E un supporto di questo tipo spesso si rivela decisivo per cominciare e sostenere un recupero numerico.

Il DPKY Landscape si estende su 4000 chilometri quadrati e il nostro studio era focalizzato su circa 500 chilometri quadrati. Sì, c’è spazio per le tigri qui”. 

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Ho chiesto ad Abishek Harihar se tutto questo ha un riscontro anche nella genetica.

Se cioè un gruppo così ridotto di individui può essere sufficiente per un incremento demografico funzionale: “22 individui è un numero molto piccolo, Da un punto di vista strettamente genetico si raccomanda sempre che una popolazione di circa 25 femmine in età riproduttiva.

Tuttavia, questa considerazione è basata sulla esperienza diretta più che sulla teoria. Anche se studiamo il corredo genetico di questa popolazione, non possiamo dire con certezza se 22 è un numero di tigri coerente con un recupero.

Detto tutto questo, questo paesaggio geografico ha il potenziale per sostenere più tigri di quante ce ne siano ora. Per questo, gli sforzi di conservazione devono essere indirizzati ad aiutare questo recupero in un contesto che ha importanza globale”. 

Questo studio sulle tigri della Yai Forest è rilevante anche per un altro motivo. 

I censimenti dei grandi predatori sono diventati una faccenda politica in tutto il mondo.

Nel 2010 tredici nazioni si sono incontrare a San Pietroburgo, in Russia, per il Global Tiger Summit. Obiettivo: pianificare interventi di conservazione che raddoppino i numeri della specie, da 3200 rimaste a 6400 entro il 2022. Un obiettivo di enorme ambizione, forse addirittura eccessiva. Perché le tigri aumentino, serve spazio. 

Lo scorso novembre è stato pubblicato sul magazine PHYS.ORG un articolo firmato da Biarne Rosjo dell’Università di Oslo dal titolo preoccupante: “Indian authorities may have exaggerated claims of rising tiger numbers”.

L’articolo è circolato su Twitter attraverso la rete di biologi e conservazioni che si occupano di grandi carnivori, dei grandi felini e dei problemi di conservazione delle popolazioni isolate, una condizione tipica, ormai, di tutte le tigri rimaste.

Le autorità indiane, scrive Rosjo, sostengono che il numero complessivo di tigri sia raddoppiato dal 2006, ma “è quasi impossibile che una popolazione di tigri cresca a questa velocità senza una spiegazione precisa”.

L’India dichiarava 1411 tigri nel 2006, mentre lo scorso luglio ha reso nota la cifra di 2.967 tigri. Secondo il dottor Arjun Gopalaswamy della Wildlife Conservation Society (WCS) questi numeri sarebbero il risultato di errori metodologici e matematici. 

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La tigre potrebbe essere già entrata nel novero di specie che il geografo ed ecologo Chris Darymont (nel 2015 coniò il termine di “super predatore” per Homo sapiens) insieme ad altri colleghi ha definitopolitical populations.

“Considerando il conflitto politico che circonda la protezione o la riduzione delle popolazioni di carnivori, avanziamo l’ipotesi che le stime sulle popolazioni (abbondanza e trend) e le politiche ad esse associate siano eccezionalmente sensibili proprio all’influenza politica.

Ipotizziamo che alcuni governi e altre organizzazioni giustifichino politicamente le loro preferenze per rapporti o sovra o sotto dimensionanti sulle popolazioni di carnivori senza giustificazioni empiriche, creando così ciò che noi definiamo political population”.

Un discorso che secondo gli autori vale già per orsi bruni, lupi e lince euro-asiatica. 

I predatori di vertice o di media taglia hanno ampi home-range ed entrano perciò in conflitto con le esigenze abitative, economiche e demografiche degli esseri umani. Ovunque: in Europa (pensiamo al Trentino), in Africa, in Nord America e a maggior ragione in Asia, nelle ex terre della tigre, tutte nazioni iperpopolate.

Non c’è green economy o Green New Deal che possa sovvertire questi semplice dato biologico. Tutte le specie, il milione a rischio di estinzione secondo il Rapporto Ipbes 2019, sono a un passo dall’abisso a causa della eccessiva demografia umana, ma per i grandi gatti lo scontro con l’essere umano è particolarmente fatale.

Come ha detto John Goodrich, coordinatore del Siberian Tiger Project “perché le tigri esistano, dobbiamo volerlo. Oggi come non mai”. Questo significa una sola cosa: affrontare con estrema schiettezza la questione della riproduzione umana. 

Photo Credits: Panthera Press Office

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