Home » Essay » La vera natura della colpa climatica

Sottolineando il peso specifico della realtà rispetto alle manipolazioni politiche, Hannah Arendt richiamava l’attenzione sulla “persistenza intransigente e irragionevole della mera fattualità”. Ora, è questo il nuovo, inedito muro di gomma contro cui il buon senso e anche le legittime preoccupazioni civili per il futuro del Pianeta si sono scontrate all’interno del testo dell’accordo sul clima che ha chiuso la Cop21 di Parigi.

Muro di gomma perché l’ottimismo politico ha preso il posto dei rapporti dell’IPCC, delle evidenze scientifiche e degli allarmi saldamente ancorati su dati soggetti alle più rigorose peer review, insomma quel corpus di verità oltre ogni negazionismo che l’ambientalismo militante ci aveva promesso essere il nostro punto di riferimento non negoziabile per salvare il Pianeta e affrontare la crisi climatica.

L’accordo di Parigi ci restituisce invece una realtà ben diversa: si può usare la parola “accordo” quando accordo non c’è sui modi, le misure, le procedure e i tempi della decarbonizzazione, visto che la carta di Parigi è ampiamente volontaria (sin da Copenhagen 2009 ci era stato detto che occorreva, al contrario, un trattato vincolante).

La soglia di sicurezza di + 2°C di aumento delle temperature medie globali entro il secolo è giudicata poco plausibile, mentre si auspica un impegno di riduzione delle emissioni in un range tra + 2°C e possibilmente meno di + 1,5 °C. Il fatto è molto semplice: certo che sarebbe meglio scendere sotto 1,5 °C, ma i piani di riduzione che le 195 nazioni partecipanti alla conferenza di Parigi hanno inoltrato prima dell’inizio della discussione possono garantire uno sforzo di contenimento del riscaldamento globale al massimo entro i +2,7 °C, uno scenario confermato dai calcoli del World Resource Institute.

L’economista ambientale William Nordhaus (il suo ragionamento è uscito sulla New York review of Books) ha detto fuori dai denti: “Il cambiamento climatico è fondamentalmente un free-rider problem in cui i Paesi hanno forti incentivi a mentire ed emettere più emissioni, quindi un accordo su base volontaria probabilmente non funzionerà”.

C’è dunque, comunque si rigirino queste 27 pagine della carta di Parigi, una incoerenza di fondo, che George Monbiot su The Guardian ha sintetizzato con franchezza: “In confronto a ciò che avrebbe potuto essere, questo è un miracolo. In confronto a ciò che dovrebbe essere, è un disastro.

Dubito che qualcuno dei negoziatori creda che non ci sarà un incremento delle temperature oltre 1,5 come risultato di queste discussioni. Come il preambolo all’accordo riconosce, anche i 2 gradi, considerando le deboli promesse che i governi hanno portato a Parigi, è enormemente ambizioso. Benché negoziati da alcune nazioni in buona fede, i risultati reali ci vincolato a cambiamenti climatici pericolosi per alcuni e letali per altri (…) Una combinazione di mari acidificati, barriere coralline morte e Artico in scioglimento significano che tutte le catene alimentari marine potrebbero collassare.

Sulla terra ferma, le foreste potrebbero ritirarsi, i fiumi prosciugarsi e i deserti espandersi. L’estinzione di massa sarà il tratto distintivo della nostra epoca. Questo è il tipo di successo a cui hanno applaudito i delegati. E quanto al fallimento, in che termini? Mentre le bozze precedenti specificavano date e percentuali, il testo finale punta solo a ‘raggiungere il picco globale di emissioni serra il più presto possibile’. Il che significa tutto o niente”. James Hansen, che alla fine degli anni Ottanta con le sue ricerche sulla fisica dell’atmosfera alla NASA contribuì in modo determinante alla scoperta del riscaldamento in corso, è stato ancora più esplicito: l’accordo di Parigi è una frode e una truffa (fake, in inglese). E la ragione è lampante: nessun trattato vincolante, nessun impegno preciso, nessuna carbon tax.

Ma per provare ad avanzare ipotesi sul significato di tutto questo – che non riguarda un ingrediente tra cento sull’etichetta di un prodotto qualsiasi da supermercato, ma l’assetto chimico, fisico e biotico del Pianeta nei prossimi decenni – bisogna fare un passo indietro, e dare spazio alle domande. René Char scrisse che “le parole sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro”.

La carta di Parigi viene chiamata accordo, ma contiene piuttosto un consenso di massima sull’urgenza della minaccia climatica – così lo ha definito anche la BBC World Service, consenso – e i commentatori ne hanno descritto lo spessore storico come comunanza di intenti di tutti i Paesi del mondo.

Dunque, che cosa è la carta di Parigi? Ma, era di questo che avevamo parlato nel 1992 a Rio quando concordammo la Convenzione sul Clima? Era questo che intendeva raggiungere il defunto Protocollo di Kyoto? Un consenso sul fatto che bruciare combustibili fossili altera la chimica dell’atmosfera?

A pochi giorni dall’apertura della Cop, Lucia Graves sul Pacific Standard ha scritto: “Dopo che hai ridotto le tue aspettative, puoi anche essere ottimista”. E il collega Brad Plumer su Vox aggiungeva: “Il punto, a Parigi, è dare impeto agli sforzi che già sono in corso, non fissare nuovi impegni”.

Nei precedenti due decenni, le periodiche riunioni della UNFCCC (la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) miravano a fissare le quote di riduzione per ciascun Paese, ma in Francia si chiedeva ai partecipanti un “contributo ragionevole”, cioè compatibile con i propri obiettivi di crescita economica.

L’escamotage del carbon badget, il “deposito” di CO2 ancora spendibile prima di superare la linea rossa – concetto proposto con grandi strombazzate di entusiasmo dall’ultimo Rapporto IPCC del 2013 – secondo il The New York Times è basato su un obiettivo che le nazioni ricche si sono cucite addosso a proprio esclusivo vantaggio.

Cioè per continuare a bruciare fonti fossili in attesa di miracoli tecnologici o conversioni energetiche di non precisata programmazione. In che direzione ci portano queste osservazioni? Quale è lo scenario che si nasconde dietro questo groviglio di sofismi, procrastinazioni, mascheramenti?

Alain Finkielkraut sostiene che “la parola processo sottrae l’azione alla tragedia o al caso”. L’implosione del processo negoziale per un accordo sul clima è il cuore dei fatti di Parigi. La sua ragione più scabrosa; la disillusione di un intero movimento ambientalista che si è retto per due decenni sull’utopia di far convergere piani diversi di civiltà in un unico pezzo di carta, immaginato come la sintesi estrema e coraggiosa di due secoli di storia dell’umanità, e al contempo apologia dei Paesi ricchi che scoprirono le virtù del carbone al principio dell’Ottocento (il Messia sotterraneo, come lo chiamò il poeta russo Aleksandr Blok),  e perciò miraggio capace di saldare tutti i debiti con le nazioni in via di sviluppo.

Ciò che si manifesta con evidenza brutale nella carta di Parigi è il fallimento di questa impostazione, la cui ammissione è semplicemente inconcepibile per ragioni non solo politiche, ma soprattutto culturali e vien da dire spirituali.

Perché il gioco al ribasso perseguito a qualunque costo per salvaguardare l’impianto teorico di Rio 92, questo fronte delle aspettative al minimo pur di ci aiuta – tutti – a passare sotto silenzio il vuoto più ingombrante della storia della scienza del clima e della sua capacità di cambiare i destini politici del XXI secolo. La mancanza di un pensiero sul mondo. La capacità di pensarlo, un Pianeta.

Non è un caso, infatti, che alcune delle categorie in discussione a Parigi siano state, ancora una volta, il debito e la giustizia climatica. La questione dell’eredità – il tipo di Pianeta che lasceremo alle generazioni future – sostanzia il vuoto nel sottosuolo della carta di Parigi.

Per poter lasciare in eredità un mondo vivibile, dovremmo infatti prima di tutto ereditare noi un Pianeta. Ma la difficoltà contemporanea di tradurre esperienze, numeri e fatti in una narrativa coerente, con le aporie e le aperture che qualunque narrativa vitale comprende, sta alla base del tragico deficit di comprensione del riscaldamento globale. Il contesto che ci sta attorno mostra sintomi chiari di questo sfilacciamento della capacità di dire le cose.

I nostri scottanti problemi con l’atmosfera indicano infatti un “punto di faglia” delle società contemporanee che il pensiero psicoanalitico indaga a partire dagli studi di Alain Miller negli anni ’80: la difficoltà del simbolico di integrare il reale, di assumerlo e di farne esperienza.

Nella fantasia di un “mondo puro a rinnovabili”, un mondo non fossile, persiste la fantasia della restitutio ad integrum che inibisce di partenza lo sforzo cognitivo di ereditare per davvero una esperienza storica producendosi in qualcosa di nuovo. Nessuno mette in dubbio che le nazioni in via di sviluppo abbiano delle valide ragioni.

Non si deve negare che un debito pure esista, ma si dovrebbe altrettanto fortemente riconoscere che a mancare, per un decente futuro economico ed energetico, non sono solo i quattrini da investire in basic energy research, ma un pensiero sul futuro che riconosca al passato fossile una sua legittimità. In altre parole, se visto da un punto di vista dell’eredità, il passato industriale non è una colpa, o una espropriazione di diritti, o un delitto ambientale, ma una configurazione di civiltà.

In questa ammissione – la consistenza storica dell’industrializzazione e del benessere fossili – risiede la possibilità di operare delle scelte, responsabili e ponderate. L’atto della scelta implica un coinvolgimento nel proprio passato che informa di sé il futuro nella misura in cui ne mostra i limiti e i confini. Liquidare il passato come dagherrotipo inutile o come reperto archeologico giudicato sul tribunale delle intenzioni attuali  (condannare tout court l’industrializzazione come un crimine) impedisce di riconoscere la vera posta in palio, e cioè la direzione di civiltà in cui tutti siamo ormai avviati.

Questa direzione ci è chiara sin da Rio 92, quando vennero elaborati strumenti di profitto chiamati offsetting e carbon trade. Si disse allora che attribuire un valore economico alla natura era l’unico modo per proteggerla. L’anidride carbonica poteva quindi entrare in Borsa con l’imprimatur dell’etica ambientale. La mercificazione dell’atmosfera è un sintomo di ciò che Slavoj Zizek ha chiamato capacità plastica del capitale e Lacan discorso del capitalista. Oggi la medesima logica funziona attraverso la carta di Parigi: questo accordo non accordo stimolerà l’economia e il passaggio alle rinnovabili risolverà tutti i nostri problemi con la biosfera.

Lo scorso aprile lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto sul New Yorker un lungo articolo intitolato Carbon Capture per cui è stato letteralmente massacrato da tutta la stampa che conta nel dibattito sul clima. La ragione non è che Franzen nega il riscaldamento globale, ma che lo contestualizza. Nel dominante monocultural thinking sulla questione climatica, il ragionamento di Franzen è apparso come una eresia.

Per Franzen, il cambiamento climatico così come è detto sui media è una escatologia, una narrativa, che rischia di eclissare la complessità delle interazioni tra uomo e ambiente. Da scrittore impegnato nella protezione delle specie avicole, Franzen affronta uno dei tabù intoccabili dell’utopia di questi ultimi venti anni: dove mettiamo le rinnovabili? Quel che conta nella posizione di Jonathan Franzen non è se abbia ragione o meno; quel che conta è che assumere criticamente la questione del cambiamento climatico è indispensabile per non finire preda di fantasie e idealizzazioni.

Perché le sue osservazioni sono pur ancorate sugli impressionanti numeri di questa conversione energetica indispensabile, numeri messi ad esempio nero su bianco da Justin Gillis su The New York Times del 1 dicembre scorso. Gillis cita come fonti i rapporti dei Deep Decarbonization Pathways Projects: tutto il mondo a rinnovabili entro il 2050 implica, per i soli Stati Uniti, 156mila turbine eoliche off shore entro i prossimi 35 anni, e il doppio sul continente; per quanto riguarda l’Europa, si parla di 3000 turbine offshore entro 20 anni.

E un parco auto mondiale completamente elettrificato. Nel new low carbon ethos che la carta di Parigi dovrebbe aver consacrato ci sta che il prezzo attuale del petrolio è al minimo storico grazie allo shale americano, con cui l’amministrazione Obama sta facendo a pezzi la wilderness del Dakota. E ci sta anche che sempre secondo James Hansen l’opzione del nucleare è indispensabile.

Hannah Arendt scrisse che “il diseredato non può accedere ad una esistenza individuale”. Infatti, commenta Finkielkraut, il tempo umano, per la Arendt, è “il quadro durevole entro cui è possibile esercitare l’azione e la creazione”, un quadro su cui gli oggetti della storia (il Padre) non evaporano e non sono messi da parte, ma funzionano come elementi significanti del divenire.

L’amarezza che le menti più illuminate hanno espresso attorno alla carta di Parigi – anche il sentimento di delusione di quanti in questi anni si sono spesi in nome di un ideale di giustizia e di razionalità nel nostro uso del Pianeta – acquista importanza se lo guardiano sotto questa lente dell’eredità vigile, che non si accontenta di formule olofrastiche, andando invece alla ricerca di una continuità fertile con il passato industriale che nella lezione tratta da quel passato individui il suo stesso limite.

Questo limite è che è già troppo tardi per contenere le conseguenze ecologiche non tanto delle nostre scelte politiche, quanto piuttosto delle implicazioni sistemiche della nostra capacità culturale e tecnologica di superare la barriera energetica di tipo fotosintetico attingendo alle riserve nette primarie fossili.

Nel 1992 era ancora possibile progettare un mondo a +1,5 °C ma le nostre società avanzate – tutti noi, è bene ripeterlo – hanno preferito una altra direzione. Il lavoro psichico che abbiamo davanti non è dunque la decarbonizzazione, ma l’elaborazione di un pensiero sulla nostra specie e la sua relazione ecologica con il Pianeta.

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