Home » Biopolitiche » Antropocene è poco originale

Le verità ultima del documentario Antropocene – l’epoca umana, filmato da Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky e Nicholas de Pencier (l’ho visto ieri in una anteprima per i giornalisti, ma il film sarà nelle sale dal prossimo 19 settembre) l’ha detta un ranger armato della riserva di Ol Peejeta Conservancy, in Kenya: “Siamo custodi, ma anche nemici. Perché anche noi siamo esseri umani”.

Tradotto: siamo qui con licenza di sparare sui bracconieri, ma poiché anche noi apparteniamo alla specie umana siamo corresponsabili e correi della mattanza di animali che ci ha condotti alla sesta estinzione di massa. Alla Ol Pejeeta guardano a vista con il Kalashnikov l’ultimo rinoceronte bianco del Pianeta.

28_Film Still_Ol Pejeta_Paul & Paul

Antropocene è sicuramente un documentario da far accapponare la pelle. Eppure, ho assistito ad uno spettacolo di indifferenza e di ipocrisia anche tra i presenti in sala. Cominciano a scorrere sullo schermo i titoli di coda e già una giornalista dietro di me chiedeva alla sua amica se avesse già fatto l’abbonamento per la rassegna dei film di Venezia.

Anthropocene_Main_Poster_Web

All’uscita, un giovane reporter commentava con aria compita, “ci vuole, deve girare un film così”, riuscendo nella titanica impresa di condensare l’orrore della nostra agnizione di specie assassina con la banalità più cristallina. Nessuna rabbia, nessuna indignazione, nessuna lacrima, nessun dolore. Una apatia incondizionata, per sconfiggere la quale serve, ebbene sì, una rivolta civile.

Singolare infatti risulta l’adesione alla promozione del film di Extinction Rebellion Italia, che a differenza di quanto accade nel Regno Unito, non ha ancora bloccato nessuna strada ad alta percorrenza in nessun centro cittadino, né a Roma né a Milano, ma che ha appiccicato il suo logo al comunicato stampa.

Per essere della partita, pur non avendo nessun programma. Mentre è più comprensibile, nella strategia col maglione di cachemire della zona 1, la partecipazione di Fridays For Future. C’è da chiedersi infatti quanti di questi giovani così impegnati a frequentare i salotti buoni abbiano rinunciato alle vacanze estive per limitare le proprie emissioni serra. 

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Non è un documentario che dica qualcosa di nuovo, questo, almeno per chi mastica regolarmente informazioni sullo stato del Pianeta; mentre è un documentario da vedere per lo spettatore comune, il cittadino ignaro e chiunque voglia finalmente porsi una domanda sul mondo, e smetterla di rosicchiare patatine davanti a Facebook. Siamo nel XXI secolo, ci suggerisce Antropocene, e poiché ognuno è responsabile dell’epoca storica in cui gli è toccato di vivere “il cambiamento comincia dal riconoscere che abbiamo impresso al Pianeta trasformazioni ormai irreversibili”. 

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(Australia, Grande Barriera Corallina: coralli sbiancati dall’acidificazione delle acque oceaniche causata dall’aumento di CO2 in atmosfera).
Costruito come una sequenza di “cornici geografiche” ( la troupe ha girato in 20 Paesi e 43 differenti locations), con una forte impronta fotografica, il documentario esplora una galleria di devastazioni che arrivano ormai a stuprare la conformazione stessa del Pianeta, ossia gli strati geologici e i processi di sedimentazione che in 4.5 miliardi di anni hanno plasmato il globo.

Un difetto significativo del film è che il capitolo sull’estinzione arriva a cinque minuti dalla fine, come se la cancellazione degli ultimi 65 milioni di anni di evoluzione non sia la conseguenza indesiderata numero uno di quanto visto nell’ora precedente.

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(Houston, Texas: raffineria)

Anche se le immagini scelte per raccontare la nostra indifferenza per gli altri animali non sono state curate tanto quanto il resto, per quanto riduttiva è eloquente la scelta di filmare l’atteggiamento di decine di bambini viziati e ipernutriti davanti a una tigre di Sumatra in gabbia nello zoo di Londra.

Abituare i propri figli a pensare che il posto giusto per gli animali sia una prigione fa parte delle strategie educative del capitalismo avanzato. Ma prepara anche gli adulti di domani al momento in cui gli animali liberi sopravviveranno solo in sparute riserve cintate e controllate da eserciti armati, accessibili solo per i ricchi del Pianeta.

I programmi didattici di migliaia di genitori pieni di riverente tenerezza per la propria prole, disposti a condannare a morte una specie di gatto maestoso come la tigre di Sumatra, sono quanto di più aberrante circondi oggi la distruzione della biodiversità.

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(miniera di sali di potassio)

Perù, deserto di Atacama, vasche di decantazione del litio, minerale pregiatissimo indispensabile per le batterie dei cellulari, delle auto elettriche e dei pannelli solari. Guardate questa foto e provate a dire, onestamente, con il cuore in mano, che lo sviluppo sostenibile non è una grande menzogna. Uno dei responsabili dell’impianto, intervistato sull’impatto del proprio lavoro, risponde: “Sono orgoglioso di lavorare per un settore che produce sviluppo per il mondo intero”. 

Nigeria, Makoko, falegnameria sul Golfo di Guinea, punto di raccolta dei tronchi degli alberi da legname pregiato abbattuti nelle ultime foreste dell’interno del Paese. Qui non ci sono le macchine ciclopiche che scavano e grattano carbone dalla miniera di Hambach, Germania. Qui c’è la forza delle braccia di decine di uomini che spingono a mano tonnellate di tronchi sotto le seghe.

A loro non rimarrà quasi nulla di questa impresa maledetta, che è tagliare tutte le foreste per le case di lusso dell’uomo bianco. Una scenario di crudeltà senza vie di uscita, auto-inflitta, coloniale, che dice, non siamo mai usciti dalla piantagione della Virginia, perché la piantagione è il Capitalismo stesso. Donne e ragazze portano canestri stracolmi di segatura e li riversano su una montagna di trucioli che è lo scarto finale delle decine di migliaia di anni impiegati dalla foresta tropicale della Nigeria per diventare quello che è oggi. 

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Lagos, Nigeria. Congregazione di credenti cristiani in festa. La sovrappopolazione, risultato finale della distruzione, dovuta al colonialismo, delle società autoctone e dei loro equilibri economici, come spiega Felwine Sarr in Afrotropia, si esprime in questa chiesa ignara del proprio numero, diventata indifferente al traffico infernale di Lagos, alla spazzatura, alla disoccupazione, all’estinzione delle foreste esattamente come l’addetto alla produzione del litio si sente orgoglioso di contribuire al successo planetario della Apple. 

Discarica di Dandora, Kenya. La discarica di spazzatura e plastica più grande del Kenya e la più grande dell’Africa. Un camion carico di sacchetti transita a passo d’uomo tra pareti di immondizia, su una strada di fango, sdrucciolevole, nera, fangosa, la terra che un tempo era savana ridotta a pattumiera.

Qui vivono 250mila persone. Qui lavorano 6mila persone. E ancora, una donna intervistata dice rivolta a noi: “Sono orgogliosa di lavorare nella discarica più grande del continente”. Lo voglio scrivere chiaro: di fronte a queste immagini, in Occidente, dovremmo vergognarci a fare figli. E chiunque faccia un figlio senza pensare a queste cose, non è solo un incosciente. È un collaborazionista. Commette un reato. E un giorno sarà maledetto. 

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Rogo di avorio, Kenya. Nel 2016 il Presidente del Kenya, Ururu Kenyatta, presiedette alla distruzione di 100 tonnellate di avorio, corrispondenti a 10mila elefanti, per un valore di 150 milioni di dollari. Una attivista per la protezione degli elefanti intervistata sul significato di questo rogo di elefanti, risponde: “Su una di queste zanne c’è scritto Amboseli. È il parco nazionale dove ho lavorato per un periodo anni fa. Non posso più fare niente perché questo elefante non venga ucciso, ma farò tutto ciò che posso per evitargli di essere de-sacrilizzato e di diventare un soprammobile”.

Norilsk, Siberia, impianto per la fusione di materiali siderurgici. Se l’inferno ha una volto, questo volto corrisponde alle fonderie in cui centinaia di uomini consumano le loro vite per produrre la materia prima di macchine e dispositivi che faranno fuori altre comunità, altri villaggi, altre specie.

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Una catena di produzione della distruzione ricondotta a funzione matematica, a protocollo, a organizzazione. “Il problema è che qui non c’è ossigeno, perché non c’è neanche un albero”, dice una voce fuori campo, mentre tu vedi alcuni giovani che fanno il bagno in un fiume del colore della merda, nella città più inquinata della Federazione Russa. L’essere umano si abitua a qualunque cosa, anche ad un impiego ad Auschwitz, ed è per questo che è altamente probabile che ci abitueremo anche a un Pianeta simile ad un immenso campo di sterminio. 

Hambach, Germania. La miniera di carbone e la sua macchina escavatrice di proporzioni record (è la più grande del mondo, ci lavorano sopra 12 operai) mangia, divora, e vuole terra.

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E allora i villaggi vicini, un tempo dediti alla coltura delle carote, vengono mandati via, espropriati, le loro case abbattute, e anche la chiesa viene tirata giù, perché al presente assoluto dell’annichilamento della vita nulla deve sfuggire, neppure la tradizione, la religione, la memoria, il ricordo. Niente. Questo è il presunto progresso: uccidere il passato (la vita biologica ha un passato perché l’evoluzione avviene nel corso del tempo) per dare i viventi in pasto al mostro di un presente suicidario.  

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