Su cosa si regge la bio-economia non alimentare dell’Unione Europea?
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Su cosa si regge la bio-economia EU? L’impronta ecologica europea non riguarda soltanto ciò che mettiamo in tavola ogni giorno. Uno studio uscito sulla Environmental Research Letter (pubblicato qui) ha calcolato sul periodo 1995-2010 il peso della “non-food bioeconomy” dell’Europa a 28, cioè l’importazione dai mercati globali di materie prime vegetali e animali non destinate all’alimentazione che sostengono i nostri stili di vita e le nostre industrie.

La ricerca è firmata dai ricercatori di 4 prestigiosi istituti europei: Institute for Ecological Economics della Vienna University of Economics and Business,  Stockholm Resilience Centre di Stoccolma,  International Institute for Applied Systems Analysis, a Laxenburg, sempre in Austria, e infine Institute for Food and Resource Economics and Center for Development Research, University of Bonn, Germania. 

Questa ricerca è un tentativo, finora unico, di definire l’impronta agricola non alimentare della Comunità Europea a 28 Stati membri.

I ricercatori hanno applicato un modello matematico complesso, che tiene in considerazione tutti i passaggi dei processi di produzione e rifornimento fino al consumo finale di prodotti finiti e raffinati.

L’aspetto più rilevante e preoccupante di questa ricerca è la sua totale coerenza con quanto emerso dal Global Assessment IPBES della settimana scorsa.

La caratteristica fondamentale dei consumi del XXI secolo sono le “tele-connection”, cioè gli effetti ambientali, geograficamente lontanissimi, dei nostri consumi e delle nostre abitudini culturali.

L’Unione Europea importa risorse materiali biologiche, con un impatto devastante sui Paesi di provenienza.

“I risultati mostrano chiaramente che la EU ha il primato mondiale nella trasformazione e nel consumo dei prodotti vegetali derivati da coltivazioni e non destinati all’alimentazione, mentre, allo stesso tempo, continua a dipendere pesantemente dalla loro importazione.

Due terzi della superficie agricola richiesta per soddisfare il consumo di biomassa non alimentare della EU si trovano in regioni dall’altra parte del mondo, particolarmente in Cina, negli Stati Uniti e in Indonesia, con un crescente e potenziale impatto su ecosistemi molto distanti.

Con quasi il 39% nel 2010, l’olio prodotto da semi oleosi per i carburanti organici, i detergenti e i polimeri rappresenta la voce dominante nella domanda complessiva di vegetali non alimentari della EU”, si legge nello Studio.

Seguono le fibre tessili vegetali, come il cotone, le pelli animali, la lana che contribuiscono al totale per un altro 22%. 

La cosiddetta EU Bioeconomy Strategy  (l’implementazione di programmi di crescita “verde”, fondate cioè su risorse biologiche, partita con la Biofuel Directive del 2003) deve cioè essere analizzata da uno spettro di punti di vista decisamente più ampio rispetto a quanto fatto fino ad ora, a causa degli “spillover effects”, ossia delle conseguenze impreviste di politiche pur disegnate sulla ricerca di un impatto minore, più sostenibile, sul Pianeta.

Questo aspetto dell’industria europea, il dislocamento degli impatti ambientali sull’importazione di prodotti organici, biologici, non è mai stato affrontato direttamente.

Secondo lo Studio, “la EU fino ad adesso non è stata d’accordo su una metodologia comune per stabilire gli impatti nell’uso del suolo a grande distanza connessi con le politiche comunitarie. I sistemi di controllo con indicatori-chiave di riferimento di forte significato per la terra adatta alla coltivazione, come il Resource Efficiency Scoreboard (EUROSTAT 2015), sono focalizzati soltanto su indicatori territoriali e mancano di tenere in considerazione le connessioni a distanza”. 

Dunque, avvertono i dati, “un rischio particolare è l’incremento dell’uso di terra su scala globale per soddisfare la domanda economica. Questo tipo di rischio è ben illustrato dal fatto che l’Europa si distingue come l’unica regione che è importatore netto di 4 delle maggiori categorie di risorse naturali: materiali, acqua, carbone e terra da coltivare”. 

Un quarto delle materie prime grezze utilizzate dall’industria europea viene dal resto del mondo.

In numeri, nel solo 2010, il nostro sistema produttivo ha avuto bisogno di 19.8 milioni di ettari di terra per sostenersi. In Cina, con 4.4 milioni di ettari per materie prime oleose; nella regione Asia-Pacifico, con 3 milioni di ettari sempre per semi oleosi e gomma.

Negli Stati Uniti, con 1.6 milioni di ettari per mais ed etanolo. In assoluto, siamo la regione del mondo che consuma più terra per la propria economia e la propria cultura (28.2 milioni di ettari nel 2010), seguiti dalla Cina molto vicina ormai (27.7 milioni di ettari).

Che cosa significa tutto questo tradotto per ciascuno di noi, per ogni singolo cittadino europeo?

562 metri quadrati di terra del mondo a testa per i nostri bisogni, gusti, desideri. Sono 828 negli Stati Uniti, 468 in Brasile. Tanto per farci una idea: in India siamo a 79 pro capite.

Quando si parla dunque di crescita economica, sarebbe bene anche raccontare all’opinione pubblica che la nostra, già discutibile, possibilità di “crescere” ha implicazioni sistemiche globali che mettono in movimento effetti domino identificabili, ma non prevedibili.

Il dilemma che la ricerca espone tra le righe, quindi, è estremamente sottile, ed è il dilemma degli ultimi 25 anni di storia dell’ambientalismo. Può una crescita economica verde rallentare e infine porre fine alla distruzione del Pianeta?

La risposta è no: “Molti scenari sull’impiego di energia e di terra su scala globale mostrano che un cambiamento sistemico verso una bio-economia dipenderà massicciamente sugli ecosistemi terrestri e sulle risorse naturali terrestri.

L’espansione della bio-economia andrà ad aggiungersi alla già alta domanda di terre agricole per produrre cibo, con il risultato di una crescente pressione sui limiti del Pianeta.

Ciò è profondamente connesso, inoltre, con le questioni di giustizia sociale, quando si arriva a parlare della distribuzione delle risorse bio-fisiche”.

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