Home » Essay » Che cosa è umanismo nel XXI secolo?

La Ostbahnhof si rannicchia sotto il ponte della sopraelevata che taglia di netto l’ultimo tratto della Pariser Kommune Strasse, risucchiata nell’amalgama grigio di un cielo spoglio, in un inverno incerto e insicuro. Palazzi a quindici piani, di un giallo e di un azzurro scoloriti, svettano verso l’alto, con una aria stupefatta. Dall’altra parte della Pariser, un Konditorei improvvisato sembra emanare anche dall’esterno l’odore di polvere dei fiori finti e dei dolci troppo zuccherati. Uno squallore enigmatico penetra questo angolo di Berlino, ovunque volgo lo sguardo, lo stesso sconforto indecifrabile delle migliori sceneggiature de Il Commissario Schumann, la serie tv che ha dato popolarità a Christian Berkele. In questi giorni Berkel è al quattordicesimo posto della “classifica best seller dello Spiegel” con il suo biopic Der Apfelbaum. Un altro tuffo nella memoria imbarazzante di una nazione che, nonostante tutto e tutti, oggi ha rimasticato se stessa fino a darsi un futuro. Vanno fortissimo in Germania, questo genere di libri. E ottengono l’effetto opposto delle intenzioni degli editori. Rafforzano infatti quel sentimento di destino che si respira in ogni angolo di Berlino, capitale della Germania unita, una cognizione perennemente malinconica di umanità ferita e umanità colpevole. Il destino nostro, di noi Europei e di noi umani, adesso, nel 2019, al cospetto di un nuovo soggetto politico: il collasso del Pianeta.


L’autista del bus numero 242 direzione Friedrichshain mi conferma con un cenno che il biglietto è valido. Ha la faccia consunta di una metropoli usurata da una economia onnipotente. Quest’uomo percorre un tragitto identico miliardi di volte all’anno, non ha vie di fuga, facendo così della ripetizione, suo malgrado, in una alleanza mortifera con i pneumatici del suo bus, una micidiale forza di erosione del mondo. Come gli assassini del Commissario Schumann, maciullati dai propri conflitti interiori. Ci assomigliano quei soggetti da fiction, penso, mentre l’autobus procede sulla Wedekind Strasse, immergendosi fra i palazzi in stile sovietico della DDR, che oggi invece sono solo venature più scure di quel blocco di marmo che è la Berlino europea. Qui, esattamente un secolo fa, si costruivano barricate per difendere la Repubblica di Weimar. La gente voleva essere libera e cioè umana. Che ne è stato di quella libertà, se Angela Merkel definisce le proteste dei giovani contro l’inerzia di politiche climatiche autentiche una interferenza dei Russi via Facebook? Was ist Humanismus? Che cosa è, ormai, l’umanismo, mi chiedo in un febbraio senza neve a Berlino, Europa. 

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Sulla Max Gabriel Strasse, che costeggia la Boxhagener Platz, incontro qualche giovane ubriaco, che impugna la bottiglia di birra come fosse la mano di una fidanzata. Gente triste in uno dei Paesi più ricchi d’Europa. Negli anni ’90 lo storico Francis Fukuyama scrisse che la storia era finita. Aveva torto, la storia è piuttosto in decomposizione. Scivoliamo in un putridume di sentimenti e di intenzioni (dove andare? E per cosa?), che si manifesta nella sequenza di ristoranti vegani, vietnamiti, thailandesi, shabby chic della Simon Dach Strasse. L’esotismo di una noia incontenibile che si sa già invincibile ogni benedetto fine settimana. È così che funziona, ormai, il Capitalismo avanzato. Nulla basta mai davvero, e non sarebbe così se potessimo ancora contare su di una semplice minestra calda al termine di una giornata di lavoro, come la mela cotta nella stufa che Walter Benjamin, da bambino, aspettava con trepidazione prima di recarsi a scuola. La vita di noi uomini si è espansa fino a scoppiare. Sì, lo squallore della nostra tristezza può esistere anche in Boxhagener Platz. Un pastone emotivo di indifferenza – il fastidio con cui la padrona di casa mi consegna le chiavi dell’appartamento sulla Niederbarminstrasse – e di opulenta indigenza. Un demone, insomma. L’unico demone del nostro XXI secolo, che rende qualunque altro terrore una bazzecola da film di Hollywood. 

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In mezzo alle macerie della Germania, sotto tutto il peso della sua personale compromissione politica, Martin Heidegger scrisse, nella Lettera sull’Umanismo, che “Umanismus è questo: è meditare e curarsi che l’uomo sia umano e non inumano, cioè al di fuori della sua essenza”. Ma ogni sfumatura possibile si gioca proprio sul fronte dell’essenza, perché se noi uomini siamo ciò che siamo, può anche darsi che la nostra disumanità ci contraddistingua molto al di là delle nostre aspettative umanistiche. Il 14 ottobre del 1915 le donne berlinesi, esasperate dalla carestia, saccheggiarono i negozi della Boxhagener Platz. Fu il proprietario di una latteria ad accendere la miccia della rivolta, dicendo alle sue clienti: “Presto mangerete succo di aringa e merda come fossero leccornie e il burro vi costerà 6 marchi all’oncia”. Di lì ad un anno le rape avevano sostituito i cereali, le patate e la carne.

Nella conflagrazione della Grande Guerra, e nella folgorante caparbietà degli uomini che, per instaurare la Repubblica, fecero la rivoluzione a Berlino nel Novembre 1918, si osservò all’opera quella dichiarazione fulminante di Hoelderlin, che l’uomo abita questa Terra pieno di doti, eppure secondo poesia. Dentro la poesia. Perché la rivoluzione stessa nasce dalla poesia. Se poesia è ascolto della voce del mondo, allora anche la politica che cambia le cose risponde alla sua originaria voce poetica.

C’è un richiamo, fatto di realtà, che dovrebbe motivare le nostre scelte, ma, in fondo, quando esco sulla Frankfurther Strasse per scendere in metropolitana, e mi trovo davanti i due palazzi gemelli di Stalin, e rammento che qui e poco più avanti, nel marzo del 1919, a Weberwiese, sulla Lange Strasse all’incrocio con la Karl Marx Allee, c’erano le barricate innalzate dai comunisti che sostenevano lo sciopero generale; quando rifletto su questa gente che voleva la rivoluzione, che venne presa a fucilate dai Freikorps con autorizzazione governativa, gente che rispondeva ad una voce interiore fatta di giustizia, pane e dignità, ecco, l’umanismo mi sembra una virtù corruttibile, che pur nutrendosi del richiamo della realtà non di sola realtà può vivere. “Ma se l’humanitas è così essenziale al pensiero dell’essere – si chiedeva Heidegger –  non è allora necessario completare l’ontologia con l’etica?”.

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Del resto, la Frankfurther, “la prima strada socialista della Germania”, è enorme, vuota, dominata da austeri edifici sovietici, squadrati, governativi, che incombono sul passante con uno sguardo senza appello. Queste sensazioni sul potere, il potere che annichilisce, non finiscono con il tramonto delle dittature; sono invece consustanziali a qualunque ordine delle cose si pretenda definitivo, scritto una volta per sempre. Il fatto che sia ormai evidente una catastrofica alterazione del sistema climatico terrestre rafforza nei più lo spegnersi degli istinti rivoluzionari. Ciò che già vediamo compiuto non merita neppure la spesa della reazione. È puro fastidio. Una nuova forma di negazionismo, lo definisce Extinction Rebellion Deutschland.

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Anna Seghers, che fu testimone della vittoria del Nazismo, fece dire a Geschke, il socialdemocratico protagonista del suo romanzo Die Toten bleiben jung ( I morti rimangono giovani, edito in Italia da Mimesi): “Ed era questa la radice del suo dolore: non credeva più a nulla. Ci vuole molta forza per fare qualcosa in cui si crede. Sia la pazienza per far progredire a poco a poco gli uomini, magari con pentimenti ed errori, ma costantemente, o sia il sovvertimento improvviso, in cui si impegna tutto, l’esperienza e la vita. Ci vuole tanta forza per fare qualcosa in cui si crede. Ma anzitutto ci vuole una forza terribile per credere davvero a qualcosa”. Questi palazzi ex DDR spiano dentro le nostre coscienze, perché sanno che il nostro sistema sociale ed economico è gemello del loro. Le super-democrazie, dotate di efficienti reti metropolitane, hanno deciso di ignorare i cambiamenti climatici perché questo è, cosa credete, il migliore dei mondi possibili. Come si diceva nella DDR. L’estinzione ha dunque, ora è chiaro, una sua completezza, una sua perfezione interna. La nostra impresa è compiuta. Contempliamola pure. Ma allora, il potere democratico, quando fa a pezzi la biosfera con voto parlamentare, è ancora una forma sofisticata di umanismo?

Sotto una pioggia torrenziale, attraverso i sentieri fangosi del Monbijou park: la cupola barocca del Bode Museum davanti a me è la bussola scintillante di un esperimento umanistico senza precedenti a Berlino. Sono le 11 di mattina, e i Berlinesi si alzano tardi la domenica: il Bode è silenzioso, come raccolto in meditazione. Dal 27 ottobre 2017 il museo ospita l’Africa Occidentale e Centrale: 80 capolavori che appartengono al Museo Etnologico – attualmente chiuso e in attesa della sua nuova sede, lo spettacolare Humbold Forum, nel ricostruito palazzo imperiale  stanno accanto ai loro corrispettivi italiani e centro-europei del tardo Medioevo e del Rinascimento. L’allestimento porta il titolo di Unvergleichbar ( “Non confrontabile”): “un dialogo diretto attorno ai grandi temi dell’umanità: il potere e la morte, la bellezza e l’identità, la giustizia e il ricordo”.

Uomini africani ed europei, gli dei cristiani e  gli antenati ancora vivi sul fiume Congo, si guardano in faccia. E sfidano il visitatore. La Germania ha ormai avviato un percorso di rivalutazione storiografica del proprio passato coloniale. Lo scorso 12 dicembre un folto gruppo di accademici tedeschi ha firmato un appello, pubblicato da Die Zeit, sulla restituzione delle opere d’arte africane di fatto rubate in epoca imperiale. Una presa di posizione che fa seguito alle conclusioni della Commissione Speciale voluta da Emmanuel Macron in Francia, e del rapporto finale firmato da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy. “Anche noi reputiamo la restituzione – hanno scritto i ricercatori tedeschi – , così come una disponibilità generale a restituire, una premessa indispensabile per superare il problema del riconoscimento negato e dell’assenza di reciprocità (…) la restituzione e perciò la memoria storica hanno sempre a che fare anche con le questioni della colpa e della giustizia, della morale e della ingiustizia, in modo a tal punto importante che, benché lo si possa dimenticare, gli oggetti raccontano ancora oggi storie dotate di una risonanza profonda, in divenire (…)”.

Il legame con il nostro presente è strutturale: “Dovremmo, in generale, cogliere l’occasione che questa discussione ci offre: la possibilità, mettendoci a confronto con questi oggetti, di strappare all’oblio coloniale una storia comune lunga secoli, in molti casi anche brutale e segnata dalla violenza, e di assumerci invece la responsabilità di come questa storia finisce con l’essersi impigliata con il nostro presente e con il nostro futuro”. Nello splendore dorato delle sue sale, in una atmosfera di terso raccoglimento, il Bode apre prospettive per nulla di meno che una “Neugestaltung der Gegenwart”, una riformulazione del presente. 

Che questo avvenga qui, sull’Isola dei Musei, non è affatto causale, perché questa porzione di Berlino è patrimonio dell’umanità e a qualche decina di metri in linea d’aria c’è il Pergamo Museo, forse la più spettacolare rappresentazione plastica di ciò che proprio Heidegger chiamò metafisica. Il punto zero in cui si intravede qualcosa della civiltà occidentale che conteneva il seme cattivo della sua stessa fine, quel seme eclettico e spietato che in Africa Occidentale e Centrale si mise al lavoro conducendoci al nostro XXI secolo. La metafisica ci appartiene. Oggi, genti africane del Sahel sono in movimento verso l’Europa, spinte dagli effetti sinergici dei cambiamenti climatici e della defaunazione. Mi viene in mente Minna, la protagonista tedesca del romanzo di Romain Gary Le radici del cielo. In quanto tedesca, violentata dai Russi all’ingresso dell’Armata Rossa nella capitale del Reich nell’aprile del ’45, Minna sposa la causa di Morel, un idealista che è disposto a tutto per proteggere la wilderness africana e i suoi elefanti, con questa motivazione: “es war aber doch ganz natuerlich dass ein Mensch aus Berlin bei him war, nicht?” (era del tutto naturale che con lui ci fosse qualcuno di Berlino, no?). Già.

Ed è così che nell’inconfondibile odore di legno e stucco della nostra esausta Europa, io e la dea Ihervbu (XVI-XVII secolo, Regno del Benin-Nigeria) ci guardiamo negli occhi. Parliamo una lingua di solitudine. Perché lei se ne sta in un salone bianco, che pretende di essere senza peccato, e invece sussurra delle operazioni di pulizia che sono implicite nell’apparato ideologico che lo ha voluto al mondo, santuario di forza e di genio artistico, che ha spodestato la dea. È sicura di sé Ihervbu, certo, ma ormai sola in questo museo del lontano nord, come la Regina Madre Iyoba che è costretta a condividere la sua bellezza con un altro coro in legno, su cui i teschi della morte banchettano attorno al moralismo cristiano.

Eccola qui la compiutezza dell’estinzione: la solitudine dei reperti, il loro isolamento. È la perfezione di una parte di umanità, l’Occidente, che raggiungendo il suo apice ha condannato a morte tutti gli altri. Uomini e animali. Aristotele avrebbe considerato buona parte della storia del mondo una bestemmia, se solo avesse saputo che quando la potenza diventa atto, be’, cambia nome ed è solo estinzione. Su questo vuoto che avanza Africa ed Europa sono ormai terribilmente vicine. In piena età coloniale, a metà Ottocento, sul fiume Chiloango, oggi Repubblica Democratica del Congo, un artista sconosciuto scolpì nel legno un Mangaaka, un demone possente capace di catalizzare su di sé ogni male e ingiustizia, trafitto di chiodi, un demone incaricato di pagare il fio al posto della sua tribù, tenendo lontani i bianchi.

Questi europei scaltri, che mancavano di già di un cordone ombelicale che invece le nazioni africane tenevano al riparo dalla consunzione del tempo, e cioè l’intimità con gli antenati. In Cameroon, nella regione di Bangwa, il re Fosia era conservato nel tesoro reale: presente, concreto, custodiva il ricordo dei primi legislatori.

La maggior parte della collezione sta al piano meno uno del Bode, che un visitatore con saggia ironia definisce “Keller”, e cioè cantina. Una enorme mappa geografica dell’Africa riporta i nomi delle civiltà estinte e sterminate e sembra una apparizione magica, un memorandum sconcertante, quel genere di notizie che ti fanno esclamare con gioia e con rabbia, non ne sapevo nulla ! 

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Giunta qui, sulle rive del Congo e del Niger, ammetto che il capitolo cristiano, le opere intrise di fede cattolica e protestante, mi interessano sempre meno. Stucchevoli, esorbitanti e presuntuose. Invece, due teste imperiali, una tardo romana dalla Turchia e l’altra nigeriana, personificano l’opposizione ferrea, nella società civile, tra chi ritiene di avere diritto al mondo e chi invece, oggi, nel 2019, con crescente angoscia si chiede, dove è ancora Mondo. Dove è ancora Umanismo. 

Più tardi, sedendo nel caffè del Bode, sotto la cupola, riordino le idee. So di aver camminato io stessa, senza averne avuto coscienza, in mezzo agli spiriti. Qui al Bode, qui in Africa Occidentale, è come avere gli dei, gli antenati e i demoni alle porte. Come se fossero arrivati, un esercito di idee e di persone post platoniche, post Mito della Caverna. È tutto vero, invece. Non avremmo mai pensato che sarebbero arrivati, che avrebbero potuto arrivare. E questo perché quasi tutti abbiamo vissuto fino a 70 anni senza mai chiederci quale prezzo spirituale abbiamo pagato per avere ciò che abbiamo. A forza di parlare del Nazismo nessuno si ricorda più di quanto è stato cruciale il periodo 1870-1900 per plasmare ciò che, oggi, chiamiamo: NOI.

È come se avessimo vissuto l’Ottocento e il Novecento al buio. Qualcuno, nelle foreste tropicali, combatteva per noi, ma a casa, in patria, nessuno conosceva il nome del nemico. Ora, un esercito sconosciuto è alle porte. E non sappiamo che cosa dire. Ma non può che essere così, perché lo schema di espansione vecchio di cinque secoli in cui siamo stati allevati e cresciuti è imperniato su un continuo rinnovamento. Ciò che non serve più è superfluo, e viene abbandonato. Non si poteva che abbandonarli, gli antenati. Achinua Achebe, in Nigeria, lo aveva capito prima dei nostri movimenti ambientalisti.

Gli antenati possono persistere solo in una civiltà tradizionale, che sopravvive perché vive in continuità con le generazioni precedenti. Ma se spingo, invece, in avanti, se voglio pro-gredire, cioè camminare oltre il sentiero già battuto, gli antenati diventano inutili. Devo rompere totalmente con il passato, e scegliere di estinguere senza posa, anno dopo anno, ciò che sta dietro di me. Per queste ragioni l’umanismo europeo è stato una forma di estinzione programmata.

È dunque vera la frase di Heidegger secondo cui “l’essenza dell’agire è il portare a compimento”. Il significato estremo, eppure storico, dell’umanismo è stato condurre a compimento la spinta in avanti. Far coincidere l’uomo che cammina in avanti con il Pianeta. Fino al punto che del Pianeta nulla rimane se non Homo sapiens. Questo è il destino che si respira a Berlino, questo colore tipico berlinese di cupezza e nostalgia, il silenzioso marrone di Georg Trakl, un destino che scivola furtivo e seducente lungo i vagoni della S5, verso il Wedding, e poi sul Westhafen, e poi la sera, al tramonto, sulla strada di casa, sul ponte della Warschauer. Lo incontro ancora in un caffè sulla Hobrechstrasse, al Kreuzberg. Una grande stufa a legna riscalda un interno arredato con mobili degli anni Cinquanta e Sessanta. È il tipico locale della città, fuori non gli daresti un euro, ma una volta all’interno la durezza prussiana si fa sentimento dell’infinito travaglio umano, questa sensazione pesante, onerosa, eppure anche dolce, e quindi tedesca, dei mali dell’uomo e delle sue piccole gioie. Se è dal poco che emergono, come risorse straordinarie, le nostre migliori virtù, come possiamo proteggerle in questa epoca di eccessi e di onnipotenza?

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Voglio provare a cercare una risposta al FHXB, il Friedrichshain – Kreuzberg Museum. Una mostra interattiva – Freiden, Freiheit, Brot ! – racconta i giorni di caos della Repubblica di Weimar attraverso le storie del quartiere. Nei volti in bianco e nero dei protagonisti è ancora visibile l’impronta della voglia di libertà. Nel 1919 i tedeschi abbandonavano la monarchia, osando pensare un futuro tedesco che però rifiutasse i principi dell’elmo prussiano. Per farlo, nonostante i pesanti tomi di filosofia socialista e marxista su cui avevano consumato giovinezza e vita, i rivoluzionari dovettero affrontare un rischio totale. Il rischio di finire nella pattumiera della Storia. Questo genere di pericolo è umanista. È il carattere del Faust di Goethe quando al momento del patto col Diavolo Faust afferma “sono pronto a non tremare di fronte allo schianto del naufragio”. Perché il fondo di ogni azione politica è esistenziale: senza una domanda brutale sul significato della vita il pensiero politico perde sostanza, e scopo.

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E questo tipo di politica, la democrazia, è stata una conquista della modernità umanista. Arrivo al Charlottenburg, per visitare la reggia degli Hohenzollern, con un certo anticipo sull’orario di apertura e prendo un caffè in una piccola pasticceria turca. Su un giornale della domenica precedente mi imbatto in un articolo su Aby Warbug, che passò per il Museo Etnologico di Berlino nel 1896 con lo scopo di approfondire i suoi studi antropologici sui Navajo del New Mexico. 

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Già allora, leggo, il Koenigliche Museum si era dato il compito di raccogliere i tesori dell’umanità, prima che l’industrializzazione e la colonizzazione li distruggessero per sempre. Il direttore, Philipp Wilhelm Adolf Bastian, riteneva che indispensabili fossero non tanto opere di supremo valore estetico, quanto piuttosto i manufatti della vita quotidiana, che restituivano gli aspetti psicologici dei popoli. Bastian si muoveva in aperta rottura con lo storico Carl Einstein, che più tardi avrebbe paragonato le sculture africane con quelle del Rinascimento. L’apparizione di Warburg in questa mattina di foschia suona quasi come un segno profetico. Warburg era convinto che la separazione tra discipline e saperi non avesse ragion d’essere; al contrario, lo studio dell’ingegno umano conduceva il ricercatore su piste invisibili, ma solidissime, di risonanze e allitterazioni geografiche, temporali e filosofiche. L’uomo lo si capisce uscendo dal dogmatismo, sosteneva Warburg, e accettando invece la sfida di percorsi enigmatici. Credo che Warburg, insieme poi a Ernst Cassirer, abbia intuito ciò che oggi consideriamo una conquista dell’ecologismo, e cioè che le civiltà sono sin dall’inizio in una sorta di intimità con il Pianeta. E se il Pianeta è uno, una è anche la specie che lo ha abitato e interpretato nella cultura. Nella prima sala del Castello un video ripercorre le fasi di costruzione del Charlottenburg: il suono delle sirene della contra-aerea annuncia che siamo nel 1945 e l’agonia di Berlino è iniziata. 

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Ho ancora nelle orecchie questo fischio risoluto quando salgo al primo piano, nella stanza ovale, proprio sotto la cupola, al cui centro è esposto l’elmo prussiano con la punta d’acciaio, simbolo degli Hohenzollern da sempre. Ne avevo fotografato una intera collezione nella Cittadella, a Spandau, ma questo pezzo unico è davvero terrificante. Sprigiona per intero la cultura della guerra nei termini riservati alla questione da Nietzsche. Nietzsche ha compiuto una lettura del “destino dell’essere” di portata identica a Marx, forse addirittura superiore, perché la dimensione tragica del destino vi è già segnata; non ci illusioni o utopie, c’è invece una coscienza lucidissima del potere sul mondo come espressione di diritto ad esistere (Angriff) e, quindi, anche come auto-annientamento (Selbst-Vernichtung). Qui, nella reggia dei deposti Hohenzollern, davanti al sorriso sarcastico di Guglielmo II, mi appare evidente che se non si capisce questo, non si può elaborare una nuova etica ecologica. 

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Là in fondo, dirimpetto il viale d’ingresso, il principe ereditario Albrecht von Preussen, guarda verso il castello, la sua casa, per l’eternità. Quest’uomo, di quella austera bellezza teutonica in uniforme che per noi europei sarà sempre la virilità par excellence dei romanzi ottocenteschi, è di una umanità straziante. Ed è sul suo volto che si comprende Nietzsche. La totale impotenza della potenza. Inadatta a perpetuare se stessa nel momento stesso in cui sa di esistere. Nietzsche questo lo sapeva. Umanismo è l’impotenza della potenza. Fintanto che, in quanto Europei, ci siamo sentiti onnipotenti, non ci potevamo accorgere di come la nostra spietatezza fosse anche la nostra tomba. E questa tomba, prima ancora che il disastro ecologico fosse palese, era la morte senza nome dei bambini figli di operai e contadini che, a inizio ‘900, perdevano la vita in soffitte umide e scure divorate dal carbone. Il bambino, della serie di Kaethe Kollwitz “Weaver Aufstand” (1893-1897), già in pace, messo al caldo dai suoi genitori sotto tutte le trapunte che possedevano, e il padre, a sinistra, in un cantuccio, con la testa di un secondo figlio nascosta nel suo abbraccio, e la madre essiccata dalle lacrime. 

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Per discutere dell’alba di un simile destino umano ho appuntamento con Martin Maischberger, il direttore delle Collezioni Antiche dello Stato del Brandeburgo, nel suo ufficio sulla Lustgarten. La Gigantomachia sull’Altare di Pergamo, il gioiello dell’Isola dei Musei, ho l’impressione, racchiude molte possibili risposte alle domande sulla attualità dell’idea di umanismo, che ha formato l’Europa in un arco temporale di due millenni. La tempesta della battaglia tra Giganti e Dei, rappresentata nel fregio che corre lungo l’altare maggiore, portò ordine nel caos, incoronando la guerra come strumento di organizzazione della realtà. Fu tra le spire di quei serpenti, sulle criniere di quei leoni che imparammo a governare la notte e il giorno, trasformando il Pianeta, e gli ecosistemi, nel nostro Cosmo.

È un giorno di confusione anche a Berlino, a causa di un imprevisto sciopero della metropolitana. Non posso che arrivare in ritardo, ma il dottor Maischberger mi accoglie nel suo studio con una cortesia di altri tempi. Entriamo immediatamente nella questione, perché il Pergamo Museo è chiuso, anche lui in attesa della fine (prevista ormai per il 2030) di lunghissimi lavori di riallestimento: un unico “rettangolo” di edifici che unirà dal punto di vista tanto architettonico quanto storico Pergamo, l’Egitto, il vicino Oriente e l’arte Islamica. “Il Masterplan sull’Isola dei Musei risale al 1999, quando l’Isola venne dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’Umanità”, spiega Maischberger. “Ancora nel 1999 il Neues Museum, che farà parte del nuovo assetto, era in rovina, c’erano tetti provvisori e due idee di ricostruzione opposte. È prevalsa l’idea di Chipperfield di tenere solo ciò che era ancora in piedi”.

La storia delle collezioni del Brandeburgo comincia nel 1648, ma è devastata dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale, che hanno finito con l’imporre sui muri e sulle opere d’arte una riflessione complessiva sul significato del passato nella cultura Europea. Nel 1943 l’Altes Museum venne distrutto e solo nel 1958 molte sculture greche e romane trovarono una nuova casa al Charlottenburg. Il Pergamo Museo, che era stato inaugurato nel 1930, fu riaperto tra il 1954 e il 1955. Nel 1995 molte antichità sottrarre come bottino di guerra dall’Armata Rossa fecero ritorno a Berlino riunificata dal settore est della DDR. Chiedo al dottor Maischberger se non sia sotto i nostri occhi una sorta di “archeologia metafisica del passato”, che va ben oltre il godimento estetico di opere d’arte magnifiche, che stanno a fondamento del concetto che abbiamo di noi stessi come Europei: “Sì, è una definizione che può andar bene. La gestione della distanza culturale e geografica non è semplice, non è scontata, si pone sempre, di nuovo. Non c’è una sola risposta all’interrogativo sul passato: bisogna non stancarsi di rifletterci, non pretendere che la questione sia chiusa”. Il destino dell’altare di Pergamo è scritto nella storia del colonialismo imperiale tedesco a partire dal 1870; a quell’epoca il Reich era in ottimi rapporti con gli Ottomani e le campagne di scavo procedevano con un mutuo accordo di scambio dei reperti: “L’Altare fu dato alla Germania con una decisione ufficiale e su fondamenti giuridici solidi. Berlino non viveva più la stagione del classicismo, molto in voga nel periodo 1830-1840.

Era piuttosto il momento del colonialismo. Si tentava di recuperare, in competizione con Parigi e Londra per le grandi collezioni museali”. Spostare un edificio monumentale come l’Altare di Pergamo significò “far nascere qualcosa di nuovo”. Se l’aura, come la intendeva Benjiamin, ossia la irriproducibilità dell’atto artistico vincolato, nella sua perfezione di significato, alla tradizione che lo aveva immaginato e realizzato, fissandolo in un momento preciso del divenire e proprio per questo accentuandone all’estremo il carattere filogenetico, non poteva più sussistere, nel 1930, con la ricostruzione dell’Altare, qui a Berlino accadde un passaggio epocale nella coscienza europea: “Nacque la architettura esterna in interni”, come la definisce Maischberger. Il capolavoro ellenistico perdeva per sempre la sua ragione di esistere in un contesto geografico, reale, non era più cioè soggetto degli Annali del mondo antico, ma diventava testimonianza assoluta, attraverso la meraviglia della Gigantomachia, del carattere originario del destino occidentale. Oggetto di contemplazione, frammento, appunto, metafisico, di un passato lontanissimo che tuttavia è per il nostro presente di distruzione ecologica un testamento fatale. 

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Intanto, però, mentre la Gigantomachia giace chiusa al pubblico nel suo silenzio millenario, s’è deciso, mi spiega Maischberger, per un museo provvisorio aperto nel novembre dell’anno scorso, che ospiti il piccolo fregio di Telefo e le statue che stavano sul tetto dei lati lunghi dell’altare: il Panorama, un cono alto 30 metri, che riproduce alla perfezione i “panorami” di inizio Novecento: un “nastro” dipinto da Yadegar Asisi che riproduce la acropoli di Pergamo nel 129 d.C., restituendo in una vertiginosa verosimiglianza i colori, i rumori e la vitalità della rocca ellenistica. È verso il Panorama che ci incamminiamo, commentando anche l’operazione straordinaria sull’Africa del Bode Museum: “Lo Humboldt Forum aprirà il confronto con il continente sconosciuto. C’è questo paradosso, stiamo ricostruendo un castello barocco, per poi inserirci un nuovo museo, che sarà quindi molto di più di ciò che fu il museo etnografico. Un luogo di dialogo ispirato alle due nature, così differenti, proprio dei due fratelli von Humboldt: Wilhelm, di formazione classica,  e Alexander, l’esploratore cosmopolita appassionato di culture extra-europee”. Questa è l’Europa. La capacità umanistica di cercare gli opposti, di perseguire convivenze scandalose, di far fuori l’oscuro tacciandolo di ridicola barbarie, e poi, anche, di inglobarlo fino a risucchiarne la natura. 

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Attraversiamo a piedi l’Isola, camminando lungo il porticato dorico della Alte Nationalgalerie e poi la James Simon Galerie, che formerà uno dei lati del rettangolo sulle civiltà del Mediterraneo e del Vicino Oriente, insieme a Pergamo. Nel nostro scambio di mail di dicembre, avevo accennato a Maischberger alcune riflessioni sull’urgenza di rileggere opere come l’Altare alla luce di quanto sta accadendo al Pianeta, fuori dunque da una logica strettamente archeologica. Il legame con il passato è sempre più sfilacciato: abbandoniamo il sentimento di appartenenza alle figure sociali e culturali che per secoli ci hanno fatto da antenati. Un processo che prosegue dal Rinascimento, con l’avanzare del progresso tecnologico. L’estinzione dell’attaccamento filogenetico motiva in profondità l’indifferenza per le sorti della biosfera. Nella Lettera, Heidegger scrisse: “Nominare una cosa è chiamarla per nome. Ancora più originariamente è chiamarla nella parola (…) nel nominare, chiediamo a ciò che è presente di venire (…) ciò che chiama ci affida il pensiero come nostra determinazione essenziale”. L’origine del pensiero è il Mondo. È per questo che pensare la nostra storia su questo Pianeta equivale a restituire il dono di ciò che abbiamo ereditato. Ma una simile prospettiva è lontana anni luce da ciò che, nella cruda realtà dei fatti, siamo disposti a fare, per noi e per il Pianeta Terra. 

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“Qualche giorno fa, durante una visita guidata, mi hanno chiesto, ma come fate a spiegare a qualcuno che non sia uno specialista, chi è Afrodite? – continua Maischberger – Certo, queste storie non sono più presenti fra noi. Però abbiamo ancora queste rappresentazioni straordinarie dell’essere umano, come Pergamo, dotate di una grande forza estetica e anche metafisica. Il passato esiste ancora, ma come dimensione spirituale. La Gigantomachia è un archetipo: vecchie autorità e nuove autorità entrano in conflitto. E poi la questione del governo del mondo. Il potere stesso è cosmogonia, il potere crea il mondo, propio come gli elementi naturali, l’acqua, l’aria, la terra e l’acqua”. E gli animali, che ruolo hanno nel caos che diventa ordine? “Il cane molosso seguace di Artemide sta dalla nostra parte, accanto agli dei contro i Giganti. Non c’è ancora una frattura così netta tra le faune e gli umani”. 

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Mentre saliamo la scala che conduce lo spettatore in quota, all’interno del Panorama, il mondo antico, ricostruito nel suo apogeo, si sfalda. Irrimediabilmente lontano, anche per chi, come me, gli ha dedicato dieci anni di studi. Ma è proprio in questo abisso che il destino dell’Occidente, ossia i 5 secoli di espansione economica capitalistica che abbiamo alle spalle, trova un suo lucore. Umanismo è consapevolezza di una via tracciata consapevolmente e inconsapevolmente. È progetto ecologico scritto nei geni, danza infinita tra il caso e il pensiero: “Se e come esso ci appaia, se e come Dio e gli dèi, la storia e la natura entrino nella radura dell’essere, si presentino e si assentino, non è l’uomo a deciderlo”, scrive Heidegger. 

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Qualche giorno dopo, passeggio sotto un sole insolitamente caldo: passo oltre la Comenius Platz e arrivo sulla Marklewskistrasse. I portoni dei condomini sovietici sono avvolti in una ombra vellutata, in contrasto totale e nero con la luce sfolgorante che ha già fatto sbocciare i bucaneve sulla terra nuda di un giardino. Se l’umanismo, agli albori della nostra Abendland, la terra della sera, e cioè l’Occidente, era dar corso all’essenza dell’uomo, allora per davvero non può esserci, a questo punto della faccenda, una etica senza una ontologia. Siamo umani quando siamo ciò che siamo, senza nasconderci dietro la nevrosi, la religione o l’utopia. Ora il problema dell’umanismo è superare il carattere tragico inscritto in Homo sapiens, riuscire ad elaborare una indole post-evolutiva, che ci insegni a sopravvivere dentro il Pianeta e non al di là delle savane in cui imparammo il nostro nome. 

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Sulla Wedekind incontro una famiglia tipicamente berlinese. Le due bambine, una di 8 e l’altra di 10 anni, con le trecce biondissime e le giacche a vento fucsia, ascoltano con attenzione il padre, un uomo magro e atletico sui 50 anni, con i capelli lunghi e un giaccone in pelle da punk. La madre, anche lei vestita sportiva e coloratissima, conduce una bicicletta: ha un viso maturo, sereno, struccato. Un uomo e una donna che hanno l’aria di non aver fantasticato fantasie narcisistiche pretendendo l’impossibile da se stessi e dagli altri.

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Che sia così la vita, anche dopo la DDR, anche dopo che tutto è cambiato di nuovo per la Germania, la passeggiata del sabato mattina con le proprie figlie e la propria moglie. Le strade segnate dal nostro cuore sono umanismo. Behausung si dice in tedesco, stare a casa in un luogo. La stessa parola che, al termine della Lettera, sceglie Heidegger per descrivere che cosa significa scoprire la propria umanità: dimorare nell’esistere del Pianeta Terra. 

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Questo essay è stato pubblicato da LA STAMPA l’11 maggio 2019.

Una risposta a “Che cosa è umanismo nel XXI secolo?”

  1. “Gli Dei non possono togliere all’uomo la paura di cui i loro nomi sono l’eco impietrita” Theodor Adorno in Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente

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