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La notte a Polentswa è gonfia di preoccupazione per il futuro del Kgalagadi. Al tramonto del primo giorno, una luna, grossa e piena, era più simile al sole che ad un astro notturno. La notte successiva, invece, il vento ha raccolto ogni forza disponibile nella savana e ha urlato contro la nostra tenda.

Gli sciacalli, una coppia che caccia colombe del Capo attorno alla waterhole e alla grande acacia, si avvicinano e il maschio mi guarda con il suo muso da volpe e le piume della preda impigliate fra i denti.

Per la terza volta in questa spedizione, podo dopo le sei di mattina una iena arriva da lontano, beve, anche lei fra i corpi eterei e grigi delle colombe, che le volteggiano attorno come coriandoli viventi. La sua sicurezza è incontestabile.

Non dà nulla per scontato, ma anche i leoni temono gli attacchi di gruppo delle iene maculate. Sa della sua forza. Ma è come se sapesse anche che questo è il nostro ultimo appuntamento e quando il suo compito è concluso mi volta le spalle e trotterellando si incammina, di nuovo, lungo una pista di sabbia.

La seguo fino a quando riesco a individuare, sul giallo, la sua sagoma marrone. Eppure, questo non è un commiato. La iena, spietata, segue la direzione che deve seguire, torna nel luogo lontanissimo e inaccessibile da cui allo !Xaus aveva annunciato il suo messaggio. 

In ciò che se ne va, e se ne deve andare, risiede l’intera giustizia del nostro esistere. 

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Del resto, le piste di sabbia di questo lato del Botswana non hanno mai una meta predefinita. Sono possibilità del pensiero e dell’immaginazione.

Ormai, sarebbe quasi una stonatura se i leoni comparissero sotto questo cielo blu e granuloso di nuvole: hanno deciso di non presentarsi, per questo appuntamento i tempi non sono ancora maturi.

E se una pista di sabbia è pura possibilità che qualcosa, prima o poi, accada – l’Ereignis di Heidegger, quegli eventi che chiamano nel luogo che ci è più congeniale e attraverso la reciproca, nuova appartenenza, ci dicono chi siamo – non è poi tanto strano che la domenica della finale della Coppa del mondo di calcio noi si sia invece qui, ad agognare un incontro che non avverrà. 

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Che cosa è, allora, il problema della conservazione? Cosa vuol dire che vogliamo salvare gli ultimi habitat selvaggi del Pianeta? E che cosa hanno a che fare i cosiddetti territori “wild” con la sesta estinzione di massa? Che cosa è la sesta estinzione, propriamente?

La spedizione sta per terminare e provo a dare una risposta aggiornata a queste domande. Sono le due del pomeriggio e siedo sulla terrazza davanti al pan di Polentswa, da sola.

Una coppia di gemsbok attraversa l’isola gialla del Polentswa Pan. Sono più reali di qualunque ricordo dell’Europa io abbia in questo momento.

Penso di nuovo ai grandi musei europei, al fatto che la cultura di massa contemporanea non sappia come integrarli in una visione del mondo e delle cose. Un tempo, almeno per le élites colte, i musei erano motivo di autocompiacimento per l’ingegno umano, ma oggi vivono una solitudine di significato collettivo che invano alcuni vorrebbero sostituire con voci di profitto chiamate intrattenimento e turismo.

I musei condividono, in qualche modo, il destino delle specie in via di estinzione, ridotte a teorie di foto spettacolari esposte nei distretti dell’architettura urbana di extra lusso, come Ark di Joel Sartore a City Life, a Milano. 

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Khali non sapeva ragionevolmente nulla del leone berbero a misura di pubblico, ma non certo perché è un giovane San del Sudafrica. Khali gli animali li incontra, non li guarda come simulacri sul National Geographic.

Per la sua gente, il mito della caverna sarebbe stato impossibile. La verità era ed è nel Kalahari, l’orizzonte del deserto, il ruggito beffardo del leone. Ecco cosa dà a Khali e alla sua gente la misura di ciò che è giusto e di ciò che è finito.

L’Antropocene non sa cosa farsene di Caravaggio, così come gli animali delle “riserve” non hanno più nessuno che li desideri.

Non voglio dire che non ci siano gruppi di pressione e di ricerca, come PANTHERA, che lottano eroicamente per salvare il salvabile. Ma su scala globale, dentro la testa delle persone comuni che la sera tornano a casa con la metropolitana e poi si guardano una serie su Netflix, la conservazione semplicemente non esiste.

Se le aree protette valgono solo in quanto producono utili nel turismo, allora non hanno realmente un valore proprio, ma solo un valore deciso da altri, a vantaggio di altri. 

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Secondo la Economic Analysis di Statistics South Africa 2018, nel Paese il turismo genera il 2,9% del PIL (dato calcolato sul 2016). Il numero di addetti, in una nazione dove la disoccupazione e la povertà sono rampanti, arriva ad essere il 4,4% del totale: sono 687.00 posti di lavoro, contro gli 874.000 dell’agricoltura.

Eppure, le aree protette sono “budgest-starved”, ossia sotto-finanziare rispetto a quanto occorrerebbe. Nelle riserve cintate con i grossi predatori ( i numeri provengono da Craig Packer), la conservazione costa 3000 dollari americani al kmq; nei parchi non cintati si scende a 2000 dollari americani al kmq.

Ogni anno vengono abbattuti come “trofei” 1500 leoni, con un introito di 1000 dollari americani a kmq. Soldi utilissimi, è innegabile. 

Tutto questo è “dare valore alla natura”?

Forse in parte sì, ma la questione non ha la stessa tonalità se guardata dall’Europa o dal Bostwana, o dal Kgalagadi.

Abbiamo disfatto l’Africa con il colonialismo e adesso proviamo a rimetterla insieme con il turismo-conservazione.

Abbiamo perso il 99% della megafauna europea e allora pretendiamo che i Paesi africani proteggano la loro. Per ammirarla pagando centinaia di dollari al giorno. Non c’è qualcosa che stona in tutto questo?

Non hanno ragione i colleghi di Stephen Kaneli che ascoltano i discorsi sul futuro del leone con la perplessità di chi ha visto accadere di tutto in nome di dinamiche economiche autoreferenziali?

Il dubbio è che queste domande nascondano un forte imbarazzo occidentale. L’ipotesi, in altre parole, piuttosto verosimile, che dietro le nostre certezze matematiche, algoritmiche, statistiche e finanziarie ci sia un resto che non torna.

Un altrove che non riusciamo a raggiungere.

Un residuo che si sottrae, lasciando un alone maledettamente disturbante sulle pagine on line dei nostri magazine. Heidegger chiamata questo altrove sempre presente Lichtung. La radura dell’essere.

Le terre selvagge di Polentswa sono la Lichtung. Ed è soltanto in una radura di questo tipo che un leone, per sempre, sarà un leone. 

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