Home » Kgalagadi » La danza del silenzio del Kalahari

Il tramonto è fratello della sincerità. Solo al declinare del sole i vecchi fantasmi, mai esausti, vengono a bussare alla porta e reclamano la nostra attenzione. Sarebbe impossibile aspettare il sorgere del nuovo giorno, domani, se non si desse loro udienza.

E così è anche nel Kalahari.

Sono le sei di sera. Siamo su una duna a qualche chilometro dallo !Xaus, di cui intravediamo le capanne, marrone mogano, sul bordo del pan. Con noi è Hendrik, un collega di Khali di poche parole. Si intuisce in lui un animo robusto, duro, piallato sulla pelle e nello sguardo da tutte le avversità che ha visto accadere senza poterci fare nulla.

Un uomo che avrebbe moltissimo da raccontare, ma che preferisce tenerselo per sé. Lo rispetto per questa ritrosia e per la sua coerenza. Ma stasera sento che il suo silenzio è una forma di linguaggio e che ne comprendo la traduzione.

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L’ultima radiazione solare disegna sul veld strisce di rosso corallo che incendiano corridoi di luce sui cespugli blu, spegnendo ogni esitazione, eccitando l’ardore del coraggio, rinnegando ogni dolore.

Non c’è posto per la vigliaccheria in questo momento e noi avremo pochi minuti per ascoltare i nostri fantasmi come un tempo i progenitori di Hendrik facevano con i loro antenati.

Achinua Achebe ne Il crollo così descrive quanto contasse per le genti Yoruba della Nigeria il sentimento di vicinanza con gli antenati: “Il mondo dei vivi non era del tutto staccato dal mondo degli antenati. C’erano spostamenti dall’uno all’altro, soprattutto in occasione delle feste, e anche quando  moriva un vecchio, perché un vecchio era molto vicino agli antenati.

La vita di un uomo, dalla nascita alla morte, era una successione di riti di transizione che lo avvicinavano sempre di più ai suoi antenati”.

Il paradosso di noi Europei, mi pare, è che pretendiamo di parlare di conservazione degli habitat e delle specie facendo finta che la filogenesi sia solo un aspetto della intelaiatura genetica della vita. E non, invece, l’unico modo con cui le forme viventi prosperano sul nostro Pianeta. Noi compresi.

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Nel 2001 uscì sulla PNAS un paper del biogeografo David S. Woodroof, che era stato un allievo di Stephen J. Gould (Declines of biomes and biotas and the future of Evolution).

All’inizio del millennio Woodroof provava a tracciare la mappa della crisi della biodiversità, insistendo sugli aspetti genetici della frammentazione degli habitat e della pressione demografica umana.

“La percentuale di processi evolutivi muterà nei diversi gruppi di specie e la speciazione nei grandi vertebrati può dirsi essenzialmente conclusa.

La densità demografica umana è ora più di 30 volte quella prevista per ogni animale onnivoro della nostra taglia e si stima che ci siamo impossessati di oltre il 40% della produzione netta primaria del Pianeta per i nostri soli scopi”. Questo è un dettaglio essenziale per inquadrare la sesta estinzione di massa nel suo contesto storico attuale.

La conservazione, a parere di Woodroof, dovrebbe salvare la diversità filogenetica,  in uno scenario a cento anni da oggi su un Pianeta decisamente più caldo e soprattutto con una drastica frammentazione degli ecosistemi ancora integri.

Il problema più grosso, dunque, è la salvaguardia della continuità evolutiva all’interno delle specie: “una delle lezioni della paleontologia è che il range geografico di una specie è un buon indicatore della sua probabilità di sopravvivere ad un evento di estinzione di massa, ad una era glaciale e in generale a massicci cambiamenti ambientali.

Di particolare interesse è la risposta di singole specie al cambiamento climatico e la probabilità che si formino nuovi gruppi di specie analoghi alle ‘comunità disarmoniche’ del tardo Pleistocene.

In passato, singole specie e specie che interagivano tra loro si sono spostate piuttosto che adattate, ma dispersioni di questo tipo non saranno più possibili in futuro”.

Il flusso dei geni (gene flow) diminuirà nelle popolazioni native di un certo habitat. Ecco dove andare a scavare, per capire che cosa è la sesta estinzione. La contrazione della ricchezza biologica del Pianeta fino alle estreme conseguenze.

La “erosione genetica” diventerà una caratteristica inevitabile nelle popolazioni isolate. Proprio come nelle 45 piccole e cintate riserve sudafricane di meno di 1000 chilometri quadrati.

Qui, secondo il National Lion Biodiversity Management Plan del 2015, vivono circa 800 leoni. Il tempo dei grandi mammiferi volge al termine: gli antenati se ne stanno andando. Non c’è più posto neppure per loro. 

IMG_4809(mappa della concessione dello !Xaus nella terrazza centrale del lodge)

Parliamo, io e Hendrik. Parliamo dei Khomani San, disegnando sulla sabbia rossa gli alberi genealogici approssimativi sopravvissuti alla colonizzazione bianca.

A un certo punto cito gli Ottentotti del Capo di Buona Speranza.

Ottentotto è un nomignolo olandese, di tono non di rado dispregiativo, attribuito al gruppo etnico dei Khoin, che parlavano una lingua simile a quella dei San.

Il tratto distintivo della lingua dei Khoin erano i “clic”, tipici suoni avulsivi ignoti ai ceppi linguistici indoeuropei. Oggi gli antropologi usano anche per i Khoin il termine Khoi-San, ma i Khoin non erano i San del Kalahari.

Erano una altra nazione di pastori, che viveva nelle regioni interne tra il fiume Orange e il Gran Nama, o Gran Karoo, un altopiano a sud ovest che sfiora il Kalahari al confine occidentale con la Namibia.

Nei romanzi di Wilbur Smith gli Ottentotti compaiono come fedeli servitori dei bianchi, affidabili e astuti, ma progressivamente sottomessi al conquistatore.

Come fu per i San, le carestie, le necessità di una economia agricola e pastorale in espansione e le politiche razziali del governo coloniale causarono il loro annientamento.

Su di loro Hendrik pronuncia la parola fatale che ancora nessuno ha mai osato pronunciare qui allo !Xaus: “Gli Ottentotti sono estinti”. 

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(mappa della concessione dello !Xaus nella terrazza centrale del lodge)

Estinti. Scomparsi per sempre dalla faccia della Terra. Ridotti a nulla e dissolti in un ordine successivo a loro, che ha deciso di non volerli, di poter fare a meno di loro, che anzi era decisamente meglio rinunciare a loro, tanto ormai non contavano più nell’assetto chiamato Colonia del Capo.

Come il quagga, l’erbivoro simile alla zebra che avremmo potuto incontrare anche qui. Era considerato una peste dagli agricoltori e quindi cacciato per la carne e la pelle.

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(Foto scattata nell’Archivio del Museo di Storia Naturale di Milano durante le mie ricerche preparatorie per la spedizione al Kagalagadi)

L’ultimo quagga allo stato selvaggio morì nel 1870. L’ultimo in cattività allo zoo di Londra nel 1872. Si sono solo 5 foto al mondo di questa specie. Quando ero piccola, un esemplare impagliato dava il benvenuto ai visitatori del Museo di Storia Naturale di Milano.

Estinti come animali, come gli animali. 

Lo sguardo di Hendrik non è rancoroso, è solo colmo di solitudine. Io vedo la sua solitudine. La stessa del leone africano, quando, il giorno prima, avevo mostrato a Khali una fotografia di un leone berbero in cattività fotografato da Joel Sartore nel 2013 allo Pizen Zoo, nella repubblica Ceca.

Khali non sapeva che nei secoli scorsi una sottospecie di leone abitasse le montagne dell’Atlante, nel Maghreb. Storie di vecchi leoni, buone per i pignoli della tassonomia, vecchi leoni finiti nel ripostiglio dell’archeologia, estinti e dimenticati. 

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( una delle lanterne notturne ad energia solare lungo le passerelle in legno dello !Xaus Lodge)

Mostro ad Hendrik una collana che ho trovato nella sabbia, mentre ci arrampicavamo sulla duna da cui osserviamo il tramonto. È fatta di bozzoli di falena, mi spiega, in cui sono stati inseriti dei semi di tsamma, il melone del deserto.

Non è una collana, ma un sonaglio per le caviglie che indossano gli uomini San quando danzano la danza della pioggia.

E comincia a mimare questa danza. Allora, nei suoi passi ritmati, compare l’uomo che Hendrik è sempre dietro il suo silenzio coscienzioso. È ciò che è in una esistenza anni luce dalla mia che però non potrò più dimenticare. Il suo silenzio diventa la sua danza.

La sua danza si scioglie nel tramonto. La mattina successiva, al momento degli addii, gli dirò queste stesse parole, che considero la nostra conversazione un patrimonio per l’eternità. Lui ricambierà la mia stretta di mano, ma, ancora una volta, in silenzio. 

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(Il sonaglio San per la danza della pioggia)

E adesso scendere dalle colline dello !Xaus per tornare sull’Auob è un po’ come riprendere il cammino terrestre dopo aver sentito il sapore dell’eternità.

Sembrava che il lungo come-back in jeep potesse durare per sempre. I chilometri non avevano confini. Noi stessi non avevamo più confini.

Non c’era più dolore, né speranza, né perdita. C’era solo l’aria satura dell’ossigeno che, dopo due milioni e mezzo di anni di evoluzione, scambiava col sangue negli alveoli polmonari, pompando la vita avanti, ancora un po’.

Qui, su queste colline, canta Hoelderlin: “a questo uomo fatto a somiglianza degli Dei fu dato il più pericoloso dei beni, il linguaggio, perché – creando distruggendo cadendo ritornando alla Maestra, alla Madre eternamente viva – testimoniasse il suo essere, l’essere erede, l’avere imparato da lei, divina fra tutte le cose, l’Amore che tutto regge”.

(Dem Götterähnlichen, der Güter Gefährlichestes, die Sprache, dem Menschen gegeben damit er schaffend, zerst örend, und untergehend, und wiederkehrend zur ewiglebenden, zur Meisterin und Mutter, damit er zeugte, was er sei, geerbet zu haben, gelernt von ihr, ihr Göttlichstes, die allerhaltende Liebe). 

Colonna sonora: Ghost Town dei Radical Face.

Una risposta a “La danza del silenzio del Kalahari”

  1. […] via La danza del silenzio — Elisabetta Corra’ […]

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