Home » Kgalagadi » La civiltà dell’angoscia in cerca dell’aurora

Durante la notte il richiamo stridulo dello sciacallo sferzava la crosta salata del pan. Lo abbiamo udito distintamente, e poi anche una iena maculata deve aver raggiunto la terrazza della nostra capanna, perché il suo ringhio acuto era vicinissimo e circospetto. La civiltà dell’angoscia in cerca dell’aurora. Ecco chi siamo noi Europei.

Questa mattina esploreremo una regione più interna rispetto alle dune rosse che circondano lo !Xaus. Il paesaggio è avvolgente, sinuoso e forte.

Ci addentriamo in una valle segnata da macchie di cespugli ormai morti. La porzione più bassa del fusto è nera e quasi incenerita dalla siccità.

Intere vallate di erba alta piegata dal vento cambiano colore al solo trascorrere in cielo di una nube. Assomigliano a praterie aperte su cui rare acacie funzionano come bussole improvvisate, ma salde.

Un tasso del miele attraversa improvvisamente il veld. E’ veloce, infastidito e ben deciso a non farsi guardare più a lungo del necessario. La striscia argentea lungo i fianchi, sul manto folto e nero carbone, si staglia luminosa come un fulmine sul veld.

È un attimo, ed è già scomparso. Non tornerà sui suoi passi, è un animale aggressivo e però molto schivo, che riesce a scontrarsi anche con i leoni. In un clima desertico un tasso è pur sempre una preda.

Qui non lo vedevano da anni e la notizia del suo avvistamento è accolta con entusiasmo dallo staff di Anthony. 

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Questo paesaggio libera il pensiero, lo pulisce e inventa dentro le funzioni cognitive del cervello nuovi ordini di conseguenze e cause efficienti. Le valli scivolano via e riemergono come ondulati pendii; un pozzo, con pompa a energia solare e un grosso serbatoio verde smeraldo, è frequentato da uno sciacallo che perlustra il terreno in cerca di insetti.

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Ovunque si insinua il sentimento africano che ogni giorno accade, senza bisogno di essere misurato da un orologio. Più tardi, mentre prendo appunti sulla terrazza dello !Xaus, storici di decine di fringuelli testa rossa si posano sulle strutture in legno del lodge, a pochi metri da me.

Dopo pochi secondi, compatti, riprendono il volo tutti insieme e raggiungono il pan, per poi ricominciare ancora questo stesso movimento ciclico verso lo !Xaus. Per un singolo attimo si posano sulla acacia morta del lago salato, la stessa dove la iena maculata, al tramonto, ripete il suo urlo predatorio.

Sono ipnotizzanti, per via del loro canto incessante e il frullio massiccio di decine di piccole ali invisibili nella macchia rossa carminio delle teste rivolte verso l’aria fresca, in quota, e il sole brillante del mezzogiorno.

Non riesco a fotografarli, non posso fotografarli. Mi sfuggono, perché vengono per salutare e ad un saluto non si può rispondere con una Canon.

I fringuelli testa rossa sono una cosa sola con il vento che martella le orecchie e li sostiene in volo. 

Il vento stesso, in questa parte sud occidentale del Kalahari, ha una voce. 

Dietro le colline decade e poi fischia improvvisamente, come se tornasse finalmente a casa. Modellato dal vento, lo spazio si espande e si contrae e poi si distende di nuovo seguendo il profilo geografico del paesaggio.

Passiamo ore, nel primo pomeriggio, ad osservare gli alcelafi rossi (Harteebest) che seguono piste scavate dagli zoccoli giorno dopo giorno sul pan rosso.

Bevono tutti insieme, e poi, adempiuto al loro compito, si disperdono. Una coppia di struzzi li fissa dal bordo del pan. La tranquillità di questa ora meridiana è così immobile da sembrare, nell’udito e nella vista, una incarnazione della solitudine.

Ma è solo un miraggio, una ruggine europea, perché qui la solitudine non esiste, neppure quando la senti nel fondo del tuo animo perché si è infilata nella valigia. 

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Qualche giorno fa, abbiamo visitato un piccolo laboratorio di manufatti San. Il profilo di un grosso felino, un leopardo o una leonessa, decorava il guscio eburneo di un uovo di struzzo, l’avorio dei San.

Le suppellettili decorative rispondono ad un bisogno antico degli esseri umani. Noi in Europa abbiamo imparato a costruire anche dei sentimenti artificiali negli ultimi tre secoli. Danni collaterali della nostra espansione economica. L’ansia, ad esempio.

Qui nel Kalahari l’ansia non c’è. C’è solo la paura, quando serve e quando capita. ad esempio faccia a faccia con un leone o un leopardo.

L’ansia è civile, urbana, salottiera. Prende il tè alle cinque del pomeriggio, vive di ignoranza su di sé e gode della propria inutilità. La paura invece ha uno scopo e non tormenta oltre misura il cuore dell’uomo.

Lo trafigge, lo uccide, lo fa a pezzi, ma non approfitta della debolezza della nostra intelligenza, quando tentiamo di trovarle un accordo con i nostri sensi.

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L’Europa del XVII secolo, della Amsterdam di Rembrandt, delle pellicce di visone russo, della pittura a olio di lino, dei commerci transoceanici in mano a borghesi finalmente ricchissimi, ha creato la civiltà dell’angoscia.

Non penso sia casuale che un danese figlio di un uomo d’affari molto rispettabile che speculava sulle piantagioni di canna da zucchero, e sugli schiavi africani, nel Nuovo Mondo, Soeren Kirkegaard, abbia infine elaborato con dignità filosofica questo inedito sentimento dell’Europa rapace e geniale: l’angoscia.

Proprio mentre il colonialismo si affermava come forza capace di eradicare modi di essere Homo sapiens non occidentali. Figure spirituali come l’angoscia non possono che essere consustanziali ad una civiltà radicalmente urbana, avanzata nelle sue pretese di comprensione concettuale della realtà, disperatamente fantasiosa nelle sue creazioni artistiche.

Sarà pur vero che Ernst Cassirer, con la sua cultura enciclopedica orgoglio dei benpensanti di Amburgo, e della Germania del Kaiser, rappresentava l’acme della erudizione occidentale, ma l’angoscia di una civiltà sempre più consumata dalla potenza dei propri successi spalancò l’abisso su noi tutti.

Non sempre conoscere tutto spalanca le porte alla concreta possibilità della felicità.

I San, dice Laurens Van Der Post, intendevano questa possibilità come uno stare dentro le proporzioni: “Il boscimane, ovunque andasse, conteneva in sé la simmetria della terra, e ne era profondamente contenuto.

Il suo spirito era logicamente simmetrico perché, spostandosi sulla corrente di una istintiva certezza di appartenenza, egli rimaneva nell’ambito delle proporzioni assegnategli dal fato.

Prima che noi tutti giungessimo a frantumare la sua condizione naturale, non mi risulta in alcun modo certo ch’egli avesse trasceso le proprie proporzioni”. 

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Per questo motivo qui, nel Kalahari, e in Sudafrica, fu sconfitto, perché coloro che hanno vinto la partita non avevano proporzioni. Noi stessi siamo giunti qui da un posto lontanissimo, ma in modo nient’affatto simile al luogo remoto annunciato dalla iena sotto le stelle.

Heidegger chiamava questo luogo, che corrisponde al nome del nostro Paese di origine sul passaporto, metafisica. La formidabile tragedia del vincitore globale veniva recitata nel teatro di Dioniso, ad Atene, ma è soltanto qui allo !Xaus, e cioè in Africa, al culmine dell’Antropocene, che te ne puoi accorgere.

La metafisica è la decisione conscia e consapevole di dar corso alla volontà costi quel che costi. È la storia del dominio del modello occidentale del Pianeta, fino al cambiamento climatico e alle 410 ppm di CO2 in atmosfera e agli ultimi 20mila leoni dell’Africa.

È la storia dell’angoscia e di queste figure spirituali inaudite, distruttive, spuntate come sottoprodotti del genio urbano europeo, che Freud, in una Vienna non troppo diversa dalla Amburgo di Cassirer, definiva disagio della civiltà. Anche queste condizioni dello spirito umano ci spiegano che cosa è la sesta estinzione, dove origina e perché è così connaturata alla nostra vita quotidiana. Alla nostra civiltà.

Il teatro di Dioniso è il nostro luogo lontanissimo in cui abbiamo cominciato a contemplare fin dove poteva condurci la abilità di costruzione di nicchia. 

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Ma allora, che cosa ne è della conservazione se siamo al termine di un percorso inevitabile?

Occorrerebbero migliaia di posti come la concessione dello !Xaus, come il Kgalagadi, per proteggere almeno metà del Pianeta. Ma non solo in virtù delle caratteristiche ecologiche di queste valli. Qui sembra di intravedere il bisogno di andare oltre i presupposti, ormai secchi, dell’Occidente.

Si sente il bisogno di rinnegare l’eredità del vincitore.

Povera di una alternativa già eloquente, già soddisfacente, non posso fare altro che leggere, ad alta voce, la mattina presto, davanti al pan, un passo di Nietzsche: 

“Chi, anche solo in una certa misura, è giunto alla libertà della ragione non può più sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale, perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tenere gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano tutte le cose nel mondo;

perciò non potrà legare il suo cuore saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà (…) Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa ora meditabonda sono viandanti e filosofi.

Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamene sereno: essi cercano la filosofia del mattino”. 

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( la citazione da Nietzsche proviene da Umano troppo umano I, edizione Adelphi del 1965, capitolo 2, paragrafo 638, pp. 304-305)

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