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Sono le 7 di mattina a Upington, Sudafrica. Freddo invernale. Le Must River e il cuore duro dei pionieri. Dei pionieri olandesi che varcavano il confine, anche, sprituale, del fiume Orange. Le Must River e il cuore di ghiaccio degli uomini che fecero l’impresa. Degli Afrikaner e degli Europei.

Oggi si parte per il Kgalagadi, il primo parco transfrontaliero in Africa, nato il 12 maggio del 2000. La conservation area più importante di questa porzione di Africa, paragonabile solo al KaZa, il Kavango Zambesi.

Quel giorno di maggio di diciotto anni fa, il presidente del Botswana, Festus Mogae, e il presidente del Sudafrica (si parlava di un accordo dal 1992 ) definirono il Kgalagadi “peace park”, il parco della pace, per via dell’accordo sulla riappropriazione dei diritti di permanenza dei San e dei Mier all’interno del parco dopo un secolo e mezzo di violenze razziali ed espropriazioni coatte.

Nel 2000 finiva un’era della protezione degli spazi selvaggi del Sudafrica moderno, un’epoca in cui la totale separazione di territori ricchi di fauna e di flora era un imperativo quasi morale.

Nel 2000 cominciò un nuovo pensiero, che lasciava filtrare in ogni documento l’obbligo alla condivisione delle risorse (i migliaia di Rand che entrano con il turismo, i diritti di caccia e di insediamento di fattorie e villaggi) e la partecipazione dei popoli non bianchi all’idea stessa di “parco nazionale”.

Il Kgalagadi sarebbe stato un simbolo di riconciliazione, un esperimento dalle potenzialità grandiose, la dimostrazione che un discorso transfrontaliero sulle specie da proteggere poteva essere nelle menti e nei cuori della politica sudafricana, e dei suoi vicini, come il Botswana.

Poteva insomma nascere qualcosa di diverso dal Kruger, di più complicato, di più ostico, e di più remoto. Genti e animali stretti in un vincolo giuridico di nuova elaborazione post apartheid e che però rappresentava tutta la questione della conservazione, e non certo solo in Sudafrica.

Non c’è destino di animali che non sia un destino di uomini. Questo disse Il Kgalagadi sin dal suo primo giorno. 

Non ci sono più di dieci gradi stamattina e infiliamo le nostre giacche a vento di piumino senza esitazione. Nel salone centrale del Le Must manca il riscaldamento, come succede in tantissimi posti in Africa. Un condizionatore spento ci osserva dalla parete perplesso e intristito, mentre il freddo condensato in umidità appanna la vetrata alla nostra sinistra, da cui vediamo il fiume Orange e i canneti lontani.

I rapaci non sono ancora usciti allo scoperto e gli uccelli del giardino sembrano ignari di un pericoloso gatto domestico che alla fine riesce a infilarsi in cucina. La domestica del Le Must è timida e gentile con noi, e accende subito il fuoco a gas sotto le padelle per preparare uova e bacon.

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(Le Must River: la perfetta colazione inglese, anche lei simbolo del colonialismo)

Anche lei non avrà neppure quaranta anni, e ha addosso quell’aspetto dimesso e desolato delle ragazze di Steer, la sera prima. Il suo pile infeltrito mi sembra una protezione insufficiente contro il freddo che deve aver sopportato per essere lì di primo mattino, apposta per noi.

Donne sfinite dalla fatica di un lavoro che non possono amare, dal peso di famiglie esigenti a cui vorrebbero dare molto di più. Bevendo il caffè, do una occhiata in giro. Questo posto ha un arredamento austero e determinato, come il cuore duro dei pionieri olandesi che si spingevano, famiglie a carico, sino al limite del Kalahari.

Non ricordo più dove ho letto che non tutti i popoli hanno lo spirito dei pionieri.

Chiunque abbia portato fino all’Orange questi piatti rosa Rococò di produzione francese ebbe un coraggio tanto vasto da sentirsi a casa sua contemplando orizzonti ostili e crudeli. Indietro non voleva tornare. E’ paradossale, e anche sconcertante. Certo. Ma è in questo coraggio che germogliarono le premesse della sesta estinzione.

Perché indietro non si torna, e perché poteva appartenere ad un altro luogo, migliore per lui dei vezzosi giardini di Versailles, se solo avesse voluto abbastanza, con quel volere che non accetta ragioni e impara a sopravvivere dicendo di no.

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(Una brutale volontà di rinnovamento economico e spirituale motivò i trekker Boeri due secoli fa)

Fatto sta che poderosi NO ripetuti da queste parti per decenni portarono infine all’espropriazione totale delle terre delle genti indigene, ingiustizia nient’affatto risolta in venti anni di democrazia.

La spartizione equa della terra è una questione rovente nel Sudafrica del presidente ANC Cyril Ramaposa. Secondo la BBC, alla fine dell’apartheid nel 1994 il governo dello African National Congress “disse di voler restituire il 30% ai proprietari precedenti entro il 2014”.

I proprietari legittimi erano i neri a cui nel 1913, attraverso il Native Land Act, venne impedito di acquistare o affittare terra nel “white South Africa”.

Di fatto, solo il 10% della terra adatta a fattorie è stato restituito. E da qui si è ricominciato a discutere su come redistribuire, ossia, in sintesi, su come far fronte ad una domanda di giustizia ancora assetata. 

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(Le Must River: le ferite dell’apartheid sono ancora visibili e reali a Upington)

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