Home » Kgalagadi » Legami forti come tendini di Springbok

Ci sono legami storici indissolubili. Legami forti come tendini di springbok. Che resistono ai secoli.

Don’t play to the gallery and never work for other people. Penso a David Bowie mentre la Duster scivola lungo il pendio di Budler Street. La spedizione al Kgalagadi Transfrontier è stata una scelta controcorrente. Tutto molto più difficile che al Masai Mara o al Grande Kruger.

E sia. Era quello che volevo. Provare a rintracciare i leoni in un habitat di loro proprietà, non in mano a concessioni estere trapiantate dentro la retorica a buon prezzo della protezione delle specie. Ma, in Africa, chiedersi che cosa è la sesta estinzione di massa per i leoni non è una domanda che può stare fuori dalla politica. Questa è la più post-coloniale di tutte le domande.

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Il parco è remoto, semi sconosciuto in Italia, ed evanescente negli assessment celebri sul futuro del leone africano. Fintanto che non arrivano milioni di dollari di finanziamento per studi decennali, nessun hot spot ha diritto ad esistere nell’immaginario collettivo del mondo ricco e bianco.

Il Kgalagadi non ha mai avuto il privilegio del Serengeti, e di un patrono illustre come George Schaller.

Eppure, qui è immensa, ancora all’opera con la sua crudeltà, la forza dei conflitti che hanno formato il mondo contemporaneo, e la nostra relazione coloniale, post-coloniale, migratoria con l’Africa della provincia del Capo.

Upington, Sudafrica: la storia del leone del Capo, la storia dei criniera nera del Kalahari non è una storia in lingua inglese, con accento britannico. E’ una storia europea. 

Nel primo pomeriggio Upington è soffusa dal colore giallo avvolgente del veld, una promessa cromatica del fatto che il Kalahari dista da qui solo duecento chilometri.

E con il Kalahari il tempo remoto in cui il Sudafrica divenne per me l’unico sinonimo possibile di Africa. 

(Le Must River Residence, Upington)
(Le Must River Residence, Upington)

Passeremo la notte al Le Must River, una villa in stile francese, ma dalla atmosfera inconfondibilmente afrikaner, con servizio di bed & breakfast.

La padrona di casa, una cinquantenne molto cortese con un pesante kajal nero attorno agli occhi e una frangia biondo platino anni ’80, ci accompagna in una piccola dependance.

Numerosi uccelli si posano senza sosta sugli alberi del giardino, latifoglie sfibrate dalla stagione secca, in attesa, anche loro, che i tempi siano di nuovo maturi per qualcosa di nuovo.

Dietro l’edificio principale, che custodisce un arredamento coloniale di cuoio e legno, il giardino declina verso il fiume Orange. Un’oasi fluviale a canneto, su cui volteggiano, in lontananza, le aquile.

Il connubio resistente, come una corda fatta dei tendini di un animale selvatico, tra l’insediamento umano e l’esplosione della natura selvatica accade davanti ai nostri occhi. Sembra un miracolo, almeno a me. Siamo in Sudafrica.

Un tale connubio di noto e ignoto, di stridente e ormai legittimo dipende dal nostro essere Europei.

Nonostante il colonialismo. Anche se aborriamo il colonialismo.

Non potremo mai fare a meno di essere europei.

Qualunque cosa incontreremo al Kgalagadi.

Perché ogni elemento di questo posto lo hanno plasmato i nostri antenati Europei a partire dal XVII secolo.

E ora, come Europei, siamo qui per prendere appunti e scattare foto, sulla consapevolezza dei nostri eccessi e dei nostri errori che chiamiamo “conservazione della natura”. 

Scrisse Achinua Achebe: “non c’è storia che non sia vera, il mondo è infinito, e quello che è bene per un popolo è male per altri”. 

Upington, Northern Cape - terra afrikaner e San nel Sudafrica del XXI secolo
(Le Must River Residence, Upington)

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