Home » Kgalagadi » I leoni criniera nera del Kalahari

Il territorio del leone del Kgalagadi, e di qualunque altra popolazione wild di leoni in Africa, non è soltanto un habitat per questa specie. Un territorio selvaggio svela i limiti del nostro modo di pensare in Antropocene. E ne propone di nuovi. L’enigma dei leoni criniera nera del Kalahari. Un storia che ha esattamente queste caratteristiche.

Poniamoci prima una domanda. E’ sufficiente varcare i confini di una area protetta per fare esperienza della wildlife? La risposta tradizionale a queste domande è l’effetto-wow che i safari più esclusivi promettono in Kenya, in Tanzania, in Namibia e in Botswana.

Le specie iconiche del continente africano sono cartoline note in tutto il mondo. Il turismo organizzato conta moltissimo sulla forza persuasiva dell’effetto -wow e ne fa un alleato della conservazione.

Ma la “lettura” turistica dell’Africa e dei suoi leoni è riduttiva e fuorviante.

La vicenda di Cecil the lion è emblematica. Nonostante il terremoto di indignazione via FB contro il dentista-cacciatore una ricerca approfondita del WildCru di Oxford ha stabilito che solo una percentuale irrisoria delle persone affettivamente coinvolte nel destino di Cecil conosceva la situazione del leone in Africa.

Ossia il rischio concreto della sua estinzione.

Per incontrare davvero i leoni in Africa bisogna prima di tutto pensarli.

Nel 1952, in una conferenza alla Radio Bavarese, Heidegger parlò del significato del pensare in una epoca dominata dal ragionamento logico-matematico. La conferenza confluì poi nell’opera oggi nota con il titolo Che cosa significa pensare? .

“Non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa”.

La condizione umana è stata a tal punto ridisegnata dall’Antropocene che per pensare questo cambiamento epocale occorre ripensare il nostro sguardo sull’umano e sul Pianeta.

Noi pensiamo la “natura” e le altre specie non per ciò che esse sono ma attraverso il filtro dell’epoca tecnologica e dei suoi stupefacenti apparati di manipolazione della materia vivente.

La “regione totalmente diversa” di Heidegger è dunque una condizione del pensiero capace di mettere in discussione gli assunti del parlare comune.

Ad esempio, che un safari offra in automatico un autentico incontro con i leoni.

O che basti un like su Facebook contro un cacciatore semiprofessionista americano per modificare il destino della specie.

Seguendo il discorso di Heidegger è necessario non chiedersi a cosa serve una specie o un habitat in funzione di interessi economici più o meno diretti, quanto piuttosto che cosa è una specie nel suo habitat.

Questo tipo di esplorazione mette al centro della ricerca i legami storici, genetici, ecologici (il come di una specie) che decidono, tutti insieme, delle caratteristiche biologiche (il che cosa di una specie).

Proviamo allora ad avventurarci nel come del leone africano.

La scomparsa degli spazi selvaggi altera la percezione che abbiamo del Pianeta e sottrae realismo al nostro sguardo. Perché lo semplifica.

Secondo lo African Lion Group, il leone è una specie privilegiata per aprire gli occhi sulle conseguenze storico-genetiche della frammentazione degli habitat.

E la ragione sta nel fatto che nell’ultimo secolo e mezzo le condizioni di vita del leone sono drasticamente mutate. Se considero il leone africano solo per come lo vedo oggi, affidandomi sostanzialmente al racconto turistico, non riesco a costruirmi una idea complessiva della specie.

“Servono indizi per comprendere le popolazioni di leoni del passato e fare previsioni sul loro futuro” dal momento che “le stime complessive delle popolazioni, da sole, significano poco in assenza di una conoscenza dettagliata su dove si trovano i leoni”

Le informazioni quantitative non sono sufficienti. Servono dati qualitativi (genetici, storici) sulle popolazioni rimaste, come quella del Kalahari meridionale. 

I leoni dalla criniera nera del Kalahari sono uno degli enigmi che svela l’importanza degli studi di popolazione sul leone africano. 

Uno studio di genetica di popolazione uscito nel 2013 su Conservation Genetics (Genetic perspective on Lion Conservation Units in Eastern and Southern Africa) osserva: “c’è un interesse teorico nel livello di differenziazione regionale e adattamento locale mostrato da un predatore molto diffuso.

Storicamente, l’interesse per questo argomento si è focalizzato sulla differenziazione morfologica e tassonomica”.

Gli autori dello studio hanno lavorato su campioni raccolti nello storico home range del leone in Asia (Iran e India), in Africa centro-occidentale (Maghreb, Senegal e Sudan) e nell’Africa sud-orientale, compreso il Kgalagadi.

I leoni dell’Africa orientale e meridionale – quindi anche quelli del Sudafrica e del Botswana – presentano differenze genetiche rispetto ai cugini dell’Africa centro-occidentale, pur appartenendo alla stessa specie. 

Per quanto riguarda il leone del Kgalagadi, gli aplotipi del suo pool genetico (un aplotipo è una combinazione di varianti nella sequenza del DNA su di un particolare cromosoma) fanno gruppo con i leoni dell’Africa orientale.

Hanno però una struttura unica di legami di parentela (unique structure assignment).

Ma “in assenza di ulteriori campioni da questa regione e dalle aree ad est è impossibile determinare le affinità geografiche di questa popolazione”.

Raccogliendo i riscontri ottenuti con le analisi genetiche e le testimonianze storiche, oggi è possibile affermare che il nome Panthera leo melanochaita (leone dalla criniera nera) fu introdotto nel 1858 per indicare il leone della provincia del Capo in Sudafrica.

Tuttavia, “i leoni del Capo non erano diversi dagli altri leoni del Sudafrica e le loro grandi criniere erano una conseguenza del clima di quelle regioni”.

Bisogna però tenere presente che “le ricostruzioni filogenetiche recuperano in modo robusto una maggiore dicotomia all’interno dei leoni, dicotomia che separa i leoni di Asia e nord-ovest-centro Africa da quelli del sud-est Africa”.

Sui leoni del Kgalagadi possiamo dunque dire: “al momento è difficile risolvere la tassonomia dei leoni dell’Africa orientale e dell’Africa del sud, che sono tutti considerati qui come Panthera leo melanochaita.

A dispetto della loro più sofisticata variabilità genetica, l’analisi filogenetica non identifica un clade in modo affidabile (….) Le conclusioni riguardo la distribuzione di Panthera leo leo (ndr, il leone africano) e Panthera leo melanochaita (ndr, il leone dell’africa meridionale ed orientale del continente) risultano limitate dai pochi siti geografici di recupero dei campioni, specialmente in centro-Africa”. 

L’analisi geografica è talmente importante nello studio della specie che nel 2006 Barnet e Yamaguchi – due “mostri sacri” su questo argomento -hanno supposto di individuare un cluster regionale di leoni in una area geografica enorme che comprende Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centro Africana, Sudan ed Ethiopia.

Ma dove ci porta tutto questo?

Le differenziazioni geografiche probabilmente erano marcate prima che l’espansione economica e demografica umana, insieme alla caccia indiscriminata in epoca coloniale, decimassero la specie. Tracce di questa differenziazione sussistono ancora oggi.

Ed è di queste che la conservazione deve tener conto, sovrapponendosi ed intersecandosi con le pressioni economiche del turismo, soprattutto quando si discute sullo spostamento di esemplari da una area protetta ad una altra per ripopolare contesti lions-free.

“Le translocazioni possono causare ibridazione tra linee di discendenza diverse e quindi erosione degli adattamenti locali delle popolazioni e fallimenti riproduttivi”.

Bisogna cioè usare “genotipi compatibili”.

I leoni del Kgalagadi non sono i leoni del Kruger e del Pilanesberg e presentano affinità con i cugini delle pianure orientali della Tanzania. 

Storia coloniale, genetica, geografia del continente e ragionamenti attualissimi sulla translocazione (si pensi ai leoni del Kruger spostati ad Akagera, in Rwanda, per ripopolare il parco nazionale. Questo è il come del leone africano.

Non semplicemente una descrizione degli individui e dei pride presenti in un certo contesto.

Ogni descrizione sul campo è completa solo se integrata con informazioni e rimandi disposti a raggiera attorno al post-it colorato su cui è scritta la parola LEONE.

Si tratta di un territorio aperto e rischioso, perché sfida il nostro sguardo ossidato su questo predatore, uno sguardo conformato e conformista. 

E questo è precisamente il passaggio in cui il discorso su Panthera leo e le grandi aree protette non può limitarsi ad una riflessione economica sul turismo. Qui, infatti, entra in scena il nuovo modo di pensare di cui abbiamo parlato all’inizio.

Se analizziamo la narrativa corrente sui leoni africani non riusciamo a spostarci da una rappresentazione monocorde della specie, che dipende dalla potenza degli obiettivi Canon e Nikon.

In questa vicenda ci siamo noi occidentali come turisti e ci sono soprattutto le genti africane come persone in carne ed ossa quotidianamente coinvolte nella protezione di un predatore in habitat certo splendidi, ma assediati da imperativi economici non rimandabili.

Eppure, non possiamo non vedere che il turismo oscura l’importanza di quello sguardo attento alle particolarità regionali della specie che ancora troviamo nei taccuini degli esploratori scritti alla luce fioca del fuoco dei bivacchi nelle savane di inizio Novecento.

In definitiva, il leone del Sudafrica non lo si capisce ragionando secondo i parametri del turismo.

Il leone del Sudafrica lo si capisce ragionando in termini storici e genetici.

Cioè, heideggerianamente, sostituendo ad un pensiero che si riduce a rappresentare le grandi faune (vorstellendes Denken) per trarne utilizzi e profitti ad un pensiero che si pone in ascolto della presenza altrui (Ereignis) per accoglierne l’esistenza. 

(Foto in copertina: mappa geografica di inizio Novecento che mostra la diffusione dei leoni nell’attuale Zimbabwe).

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