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Come fare spazio agli habitat wild? Con le nostre abitudini. Con i nostri consumi. Modificandoli. Adeguandoli alla realtà ecologica del Pianeta nel XXI secolo. Il nostro stile di vita ha un corrispettivo nelle pretese che avanziamo ogni giorno sulle risorse naturali. L’estensione degli ecosistemi rimasti dipende cioè da come decidiamo di vivere.

Questo è il modo diretto con cui ciascuno di noi contribuisce alla contrazione su scala globale dello spazio rimasto alle altre specie.

Quanto spazio siamo disposti a concedere agli spazi selvaggi e alle specie non domesticate nei decenni a venire? È questa la domanda che domina il dibattito sul futuro degli Aichi Targets (gli obiettivi per la conservazione della natura su scala globale fissati al 2020).

Argomento attualissimo indigesto alla politica, che è stata discussa in un simposio internazionale voluto dalla Zoological Society di Londra lo scorso 27 e 28 febbraio: Safeguarding space for nature and securing our future. La questione dello spazio è la più scottante nel confronto su come contenere la attuale perdita di biodiversità.

ZSL : Safeguarding space for nature and securing our future. La questione dello spazio è la più scottante nel confronto su come contenere la attuale perdita di biodiversità.

Lo spazio però, vista la nostra demografia, chiama in causa anche la concezione che la civiltà umana ha di sé stessa, le rinunce che è disposta ad attuare e lo stile di vita che consideriamo ormai inalienabile. Per questo, nella diretta streaming via Twitter del simposio circolava una constatazione di massima.

Bisogna spostarsi dall’ipotesi di lasciare metà del Pianeta alle altre specie (opzione già parecchio ambiziosa proposta da E.O.Wilson), ad una visione molto più integrata del Pianeta come un unico contesto ambientale in cui la dipartita di migliaia di specie finirà con il condizionare anche Homo sapiens e i suoi animali d’allevamento.

La parola d’ordine sembra dunque essere: “move from Half Earth to whole Earth”.

Gli Aichi Targets (stabiliti nel 2010) prevedevano che noi si proteggesse il 17% della superficie terrestre e il 10% degli oceani entro il 2020; di fatto, oggi è protetto solo il 15% delle terre emerse e il 7% degli oceani.

Il punto tuttavia, come ha spiegato al Guardian Harvey Locke di Nature Needs Half (il network di organizzazioni che chiede di proteggere il 50% del Pianeta entro il 2050), è che se anche gli obiettivi di Aichi fossero stati soddisfatti al cento per cento, ciò non basterebbe comunque a limitare le estinzioni già avviate.

Locke ha spiegato che è indispensabile disegnare una mappa integrata di aree protette connesse tra loro (“integrated pattern of wildlife areas”), in cui le faune selvatiche siano libere di muoversi e mantenere così la diversità genetica, che è l’unico, vero antidoto alla defaunazione e alla estinzione

I fattori di estinzione sono infatti funzioni sinergiche di più tratti intrinseci ad una specie ed al suo habitat. Ogni specie ha cioè un suo specifico rischio di estinzione. Ma nessuna specie confinata in un parco nazionale è in grado di rispondere efficacemente alle modifiche del suo ambiente sui tempi lunghi. E alla progressiva carenza di diversità genica inevitabile in popolazioni chiuse.

Noelle Kumpel, a capo delle policies di BirdLife International a Cambridge, ed esperta di bushmeat, ha detto che “occorre proteggere il 30% del Pianeta, ma il 100% del Pianeta richiede un uso sostenibile”. La Kumpel ha insistito su un punto centrale in tutto il simposio: lo spazio risparmiato all’agricoltura ed alle attività umane non dipende soltanto dalla politica.

Piero Visconti del Dipartimento di Genetica, Evoluzione e Ambiente della UCL di Londra, e research fellow all’Istituto di Zoologia della ZSL, mi ha spiegato: “abbiamo bisogno di obiettivi ambiziosi per le aree dedicate alla conservazione della biodiversità da raggiungere il più presto possibile e comunque non più tardi del 2030.

Se falliamo, dobbiamo aspettarci che gli attuali livelli di perdita di biodiversità continuino. Abbiamo rilevato che raggiungere gli obiettivi di conservazione richiede però non soltanto il recupero di quasi il 15% delle aree degradate e la protezione di quasi tutto quello che è attualmente intatto.

La questione principale, e il risultato più consistente delle nostre ricerche, è che non conta solo quanto spazio diamo alla natura, ma come abbiamo intenzione di far spazio per la natura. Questo richiede una generale trasformazione nel modo in cui consumiamo e produciamo beni e servizi. Dobbiamo ridurre gli sprechi, svoltare verso una dieta prevalentemente vegetariana e chiudere così il cerchio se vogliamo davvero far spazio alla natura”.

Siamo cioè chiamati tutti a scegliere di lasciare spazio alla wilderness e alla specie animali.

“In alcuni posti serviranno aree intatte di grosse dimensioni, in altre un approccio più di land-sharing potrebbe essere appropriato”, continua Visconti. “Voglio però spostare il focus lontano dalle aree protette verso cambiamenti di uso del suolo positivi per la biodiversità.

Le aree protette non bastano. Non solo, ci portano a pensare ad una separazione tra noi e la natura. Il risultato è che tutto quello che non è protetto è considerato disponibile per attività insostenibili. Le aree protette recintate, come il Kruger, sono il caso estremo.

La visione dovrebbe essere di un uso sostenibile delle risorse a tutti i livelli. Possiamo stabilire aree di conservazione che siano gestite specificamente per la biodiversità, ma questo non può essere il perno della conservazione perché equivale a continuare ad arginare le minacce senza risolvere il problema di fondo, l’uso insostenibile del territorio”.

La questione dello “spazio vitale per la natura” rimanda direttamente alla lunga, secolare storia della defaunazione del Pianeta. Il progressivo spopolamento degli ecosistemi di intere popolazioni animali. Ecco perché l’estinzione richiede tempo. E’ nel tempo a sua disposizione che si può scegliere di fare qualcosa per arginarla. E per comprenderne le cause.

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