Home » Pandemia » Il rischio di una società troppo sicura di sé

I Greci avevano una parola per l’evento improvviso che scompagina tutte le carte in tavola: sventura (sumphorà). La sventura è il colpo del destino che colpisce con particolare durezza soprattutto dove c’era una saccente prosperità economica. I miti più impressionanti della storia ellenica ruotano attorno a questa categoria di realtà. La tragedia, spuntata dal nulla là ove, un attimo prima, c’era il potere: Edipo, Ippolito, Agamennone. Nomi ignoti ai più, rimbambiti dai social, che però insegnano storie di saggezza elementare. Il pericolo sempre presente nell’esistenza di individui troppo convinti dei propri mezzi. Il rischio di una società troppo sicura di sé.

L’intera storia dell’umanesimo occidentale è caratterizzata da una alternanza di sentimenti di terrore e di incoraggiante esaltazione per le possibilità umane.

L’appello alla “Milano che lavora” firmato e condiviso, lo scorso 28 febbraio, dal sindaco Beppe Sala ben rappresenta il climax della arroganza culturale cui ci siamo abituati da tempo immemorabile, certi che convincersi della propria superiorità regionale, genetica o culturale (se mai si può parlare di cultura di fronte a certa povertà di concetti e intendimento) fosse un diritto assoluto.

Photo Credit: Fabio Saracino, ciclista e sostenitore della decrescita. Facebook: Fabio Saracino.

(Foto: Castel del Monte, Abruzzo, Credits Fabio Saracino)

Migliaia di milanesi hanno accolto con fervore il proclama di Sala, sentendosi iscritti al club della Italia che conta e produce, anche quando ingurgita aperitivi discettando del nulla. È bastata una settimana perché questa prospettiva cieca, muta e sorda, venisse smascherata per quello che è: l’ennesima dimostrazione di una inquietante ignoranza sul vero colore dei tempi che stiamo vivendo. 

Negli anni davanti a noi il rischio, la fatalità, il pericolo non verranno solo dagli effetti dei cambiamenti climatici (inondazioni, ondate di calore, piogge torrenziali), ma anche dalla risposta sociale non deterministica a questi stessi trend ecologici.

Come riporta infatti oggi un articolo uscito sulla PNAS ( Interactions between changing climate and biodiversity: Shaping humanity’s future): “benché le traiettorie fondamentali di questi cambiamenti siano ben conosciuti, molte delle probabili conseguenze sono avvolte nell’incertezza a causa delle ancora poco chiare interazioni tra differenti fattori di cambiamento e, quindi, dei loro effetti finali sugli ecosistemi e sulle società”. 

I tipping point ( punti di non ritorno) ecologici sono anche punti di svolta, imprevedibile, sul piano sociale.

Il fatto che, dinanzi ad una emergenza sanitaria globale, le istituzioni debbano fare appello al buon senso, evidentemente scarso, dei più giovani; o anche il fatto che occorra spiegare ai bambini, iperviziati ed ipercoccolati, che non è tempo di vacanza, ma di obbedienza, ecco, tutto questo dimostra che non siamo affatto preparati a fronteggiare restrizioni psicologiche e materiali severe al nostro egoismo consumistico.

Ma che non siamo neppure pronti a smantellare, per prendere finalmente ossigeno, la pusillanimità che ci hanno insegnato essere, per quanti almeno hanno scelto di crederci, la migliore forma di adattamento sociale. 

Abbiamo coltivato con cieca determinazione una sicurezza autoprotettiva che, ora, si rivela immensamente fragile, e cioè costruita su pregiudizi storici che hanno sorretto l’economia rapace degli ultimi decenni senza incontrare opposizione civile, oltre che politica.

Questa sicurezza si è espressa sia nei confronti delle questioni ambientali che verso le diseguaglianze sociali, le disparità di reddito e la cosiddetta austerity. Convinti che un sistema sanitario nazionale moderno fosse inossidabile e immortale ( e quindi che, tutto sommato, neppure i tagli al personale e ai posti letto potessero comprometterne l’efficienza), abbiamo permesso che i nostri ospedali fossero considerati una voce di bilancio da ridimensionare con sforbiciate neo-liberiste.

Convinti che il destino delle faune del Pianeta non ci riguardasse, abbiamo ritenuto inutile informarci sui lager cinesi in cui vengono allevati, trafficati, ammassati e macellati animali appartenenti a specie protette, in via di estinzione o semplicemente sempre più rare a causa della defaunazione.

Quanti dei giornalisti accreditati impegnati in dirette tv 24 ore su 24, su ogni sorta di emittente, hanno ricordato al pubblico sbalordito e impotente che il destino di genette e pangolini, in Cina, è ormai anche il nostro?

La guerra insegna molto sulla natura degli esseri umani. La violazione delle quarantena, le denunce, le fughe verso il Meridione in piena notte sono tutti sintomi della impreparazione psicologica collettiva ad uno stato di minaccia permanente.

Questa impreparazione deriva dalle gestione politica delle nostre vite e delle nostre menti in un regime culturale di abbassamento programmato dell’attenzione, della osservazione, della partecipazione alla propria epoca e ai suoi problemi più scottanti.

Perché va detto ai milioni di Italiani che non sanno neppure cosa sia il wildlife trade e non hanno mai considerato opportuno mettersi a leggere giornali nelle loro giornate oberate di business o di notifiche facebook, che una minaccia di portata bellica l’abbiamo sopra le nostre teste da decenni e si chiama catastrofe ecologica.

Il coprifuoco nazionale ha scoperchiato il vaso di Pandora e denunciato il fallimento dell’ambientalismo: nessuna mobilitazione del tipo di quella in corso adesso nel nostro Paese è stata mai pianificata contro la morte del Pianeta. Meglio, nessuna di questo genere verrà mai tradotta in Decreto Legge, per foreste, lupi, leoni, insetti, api. 

Ciò che infatti manca radicalmente è il consenso generale sulle misure necessarie a fronteggiare la crisi.

I più pensano di far per se stessi, di fregarsene, di minimizzare.

Il sì convinto dell’opinione pubblica alla “guerra totale” per salvare il salvabile su un Pianeta devastato è solo una illusione degli ambientalisti di professione.

Ma il consenso alla “guerra totale” a scopo di sopravvivenza lo hai, mostruosa lezione tedesca del 1943-44, quando ti sei preparato il terreno con anni di propaganda, di lavorio metodico, di informazione capillare.

L’entusiasmo ipnotizzato dinanzi al discorso di Goebbels allo Sportpalast di Berlino il 18 febbraio 1943, un entusiasmo criminale, capace di prolungare la guerra per ancora due anni, capace di ingaggiare mente e cuore di milioni di tedeschi in altri mesi di assassinii e crimini contro l’umanità, dovrebbe farci tremare. 

Se c’è un aspetto del nostro carattere avvizzito nelle comodità che abbiamo sotto gli occhi in questo principio di marzo è la totale mancanza di una coscienza pubblica, diffusa, sentita sulla possibilità di eventi catastrofici improvvisi.

Sulla eventualità che accada una sventura, come dice Odisseo nel XIX canto dell’Odissea “ero il primo tra gli uomini, e Zeus mi abbatté”. 

(Foto in copertina: Kreuzberg, Berlino).

Rispondi

MONDO ED ESTINZIONE

Scopri di più da Tracking Extinction

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading